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Autore: ELE106    23/09/2014    9 recensioni
È possibile psicanalizzare un Winchester?
(...) Il dottor William Holmes era un uomo onesto e preciso. Un professionista serio, stimato, uno di quelli che amano il proprio lavoro e lo onorano svolgendolo con la giusta combinazione di cuore e mente, buon senso e competenza. Era sempre stato un ottimo osservatore, con straordinarie doti deduttive e l’indole buona di chi desidera davvero aiutare le persone, senza alcun secondo fine. (...) L’osservazione diretta era il suo punto di forza. Il corpo parlava più di quanto si credesse comunemente, bastava saperlo leggere, bastava non farsi sfuggire i dettagli. E quello di Dean Winchester era particolarmente loquace. (...) ‘Possibile comparsa di impulsi sessuali per il fratello minore. Li reprime. Frustrazione e aggressività derivate. Indagare.’ (...) Buona lettura ;)
[wincest]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro Personaggio, Dean Winchester, John Winchester, Sam Winchester
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate | Contesto: Prima dell'inizio
Capitoli:
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Capitolo 9.
 
 


 
Febbraio 1999 - Periferia di Baltimore, Maryland

 
Nel silenzioso vuoto della sua stanza, Sam piegava ordinatamente i vestiti nel borsone che aveva posato sul letto.
Era tutto pronto per lasciare la città. Gli altri erano già fuori sotto una pioggia torrenziale e gelida, impegnati a caricare le loro cose sulle macchine, mentre lui indugiava tra magliette e jeans vecchi e logori, quasi tutti rigorosamente usati da Dean.
Guardò a lungo fuori dalla finestra, interrompendo la preparazione del suo bagaglio.
Indugiò su Dean e il peso che sembrava gravargli addosso, come evitava persino di alzare la testa in presenza di John, la sua espressione ferita e tesa, colpevole... vigliacca.

Dovevi prendermi e portarmi via, dovevamo andarcene. Io e te. Per sempre.

Oh, era arrabbiato.
Quanto avrebbe voluto urlargli quelle parole, la sera precedente, quando si fissavano interdetti, in piedi sulla porta d’ingresso del soggiorno.
Ma non sarebbe stato giusto e Sam lo sapeva.
Aveva capito sin troppo bene cosa rischiavano entrambi, continuando sulla strada che avevano intrapreso.
 
Sam guardava Dean zuppo d’acqua, che pian piano scioglieva la neve accumulata nei giorni.
Non era più candida e soffice e pura... ma sporca e pesante.
Sospirò, e riprese a piegare magliette.
 
Perso nei suoi pensieri, si accorse di avere in mano una particolare t-shirt nera, di Dean come tutto il resto, che non gli entrava più ormai da molti anni, eppure lui continuava a conservarla gelosamente.
 
Ricordava quando, da bambino, questo non possedere mai nulla di nuovo lo infastidisse.
Ricordava buffi bronci e fragorose risate da parte di suo fratello, che si era sempre molto divertito a prendere in giro i suoi capricci e le sue fissazioni.
Ricordava... e provava nostalgia per ciò che non c’era più.


 

 
Agosto 1991, Osage County, Oklahoma
 

Era un tardo pomeriggio caldissimo e appiccicoso.
Sam aveva ancora otto anni, portava quei ridicoli pantaloncini sopra il ginocchio.
Dean sudava nella sua t-shirt nuova di zecca, che si era guadagnato centrando tutti i barattoli con la Beretta di John, giusto il giorno prima.
Aspettavano all’esterno del desolato motel di terz’ordine in cui avevano trascorso gli ultimi due mesi, mentre il padre pagava il conto del soggiorno, prima rimettersi in viaggio verso chissà dove.
Dall’interno dell’edificio provenivano, deboli, le note melodiche di un famoso gruppo rock, mentre fuori, il più piccolo si lamentava del caldo, che sotto il sole a picco sull’asfalto era davvero atroce.
Di fronte a loro, sconfinate pianure di assoluto e angosciante niente; l’unico puntino verde era una piccola aiuola all’esterno della reception, che Sam calpestava lentamente alla ricerca di un quadrifoglio, perché aveva appena letto da qualche parte che erano rari e portavano fortuna.
 
“Non ci sono quadrifogli in quel buco, Sammy! Solo pipì di cane. Esci che papà sta arrivando!”

Aveva messo il broncio a Dean, ma era uscito senza discutere.
Suo fratello maggiore lo aveva guardato di sottecchi, perché era raro che Sam obbedisse ad un qualsiasi ordine senza prima spiegare articolatamente le sue personali ragioni sul perché non avesse senso eseguirlo.
 
“Non l’ho trovato.”

Aveva sbuffato, sconsolato.

“Che ti dicevo? Bevi un po’ d’acqua, tieni.”

Sammy aveva bevuto avidamente dal collo della bottiglietta di plastica e Dean aveva continuato a guardarlo.
Il minore aveva le guance rosse e i capelli un po’ sudati, era sporco di terra fino alle orecchie; finito di bere gli aveva sorriso, rispondendo al suo sguardo assorto.

“Perché io non posso avere una maglietta nuova come la tua?”

Gli aveva chiesto, asciugandosi le labbra con l’avambraccio e guardandolo imbronciato.

“Quando saprai sparare come me, l’avrai anche tu.”

“Non ci credo! Avrò la tua, come sempre.”

“Non frignare, Sammy! Questa è una maglietta fighissima e i marmocchi normali pagherebbero per averla!”

Scherzavano sempre così, spintonandosi e punzecchiandosi a vicenda.

“Io ne voglio una mia! Perché non ho mai niente di mio?”

Aveva esclamato infine il più piccolo, piccato.

“Non è vero! Hai... hai... quella tua testaccia scura sempre arruffata!”

Gli aveva risposto il maggiore, scompigliandogli i capelli mentre Sammy si lagnava strillando e tentava di scansare via le sue manacce.
John sembrava non arrivare mai e il fracasso delle cicale, se possibile, faceva sentire ancora più soffocante la calura di quella cittadina sperduta, dimenticata da Dio.
Non avevano nient’altro da fare, forse per questo Dean aveva iniziato ad insistere sul motivo dei capricci del fratellino.

“Non credevo che ti dispiacesse tanto metterti la mia roba, Sammy.”

“Non è solo per la tua roba... è per tutto.”

“E questo che vorrebbe dire?”

“Niente.”

Erano entrambi seduti sui gradini dell’ingresso, quando Dean all’improvviso si era alzato mettendosi le mani sui fianchi, con fare autoritario.

“Ora mi dici cosa c’è che non va, moccioso! Non ti reggo quando fai quel muso sconsolato.”

Allora Sam lo aveva affrontato, alzando gli occhi su di lui e fissandolo.

“Non mi dite mai dove andiamo e cosa facciamo. Tu e papà intendo... mi trattate come un bambino piccolo! Mi scaricate da una parte e dall’altra per fare chissà cosa. E tu...” Prima di continuare, Sam aveva abbassato lo sguardo imbarazzato ed aveva finito per fissarsi le scarpe, torturandosi la canottiera sgualcita con le mani. “... tu sei l’unica cosa davvero mia. L’unica che ho. E non ti interessa niente di lasciarmi solo e andartene in giro a giocare con ragazzini che conosci da due minuti!”

Dean aveva alzato le braccia per aria, arrendendosi al brontolio infantile di Sam.

“Ho solo fatto un giro in bici con - no aspetta un secondo, che hai detto?”

Resosi conto improvvisamente di quello che realmente aveva voluto dire suo fratello, aveva fatto cadere le braccia lungo i fianchi e, poco dopo, in silenzio, si era seduto di nuovo in parte a lui, schiarendosi la voce nervosamente.

“Io... io sono l’unica cosa tua?”

Gli aveva chiesto, ma Sam non accennava a rialzare lo sguardo.
Preoccupato, Dean aveva provato ad insistere.

“Sam, guardami!”

E così aveva fatto il minore, con tutto l’imbarazzo di quella buffa confessione che gli arrossiva le guance già scottate dal sole.

“Sammy, io non...”

Ma Dean non aveva mai finito quella frase; si era zittito, gli aveva passato una mano sulle spalle e lo aveva stretto contro il suo fianco, senza parlare, senza guardarlo.
Aveva appoggiato la guancia ai suoi capelli e aveva sospirato.
E Sam, un bambino di soli otto anni, lo aveva capito già allora; aveva capito che non era giusto ciò che gli aveva detto, che non poteva davvero credere che Dean fosse solo suo. Ma che lo era comunque.
Che con quel silenzio e quell’abbraccio, Dean gli stava dicendo che per lui era la stessa cosa.
Sam aveva sorriso e, furtivo, senza farsi vedere, aveva guardato di sottecchi il viso di Dean vicino al suo, mentre scrutava il panorama di fronte a loro; il sole gli aveva schiarito i capelli e scurito le lentiggini che aveva sparse sulle guance e intorno agli occhi, sul naso arrossato, fin sopra le labbra piene e screpolate per il caldo.
Si era appoggiato alla spalla di Dean e aveva pensato.

Se tu sei mio, allora anche io sono tuo, fratellone.
 



 
Febbraio 1999 - Periferia di Baltimore, Maryland
 


Fu lì, con quella maglietta in mano e gli occhi fissi fuori dalla finestra, su un Dean infreddolito, bagnato di pioggia e forse pentito di ogni singolo istante che avevano trascorso assieme; fu con in testa quel vortice di sensazione e ricordi, preludio di un amore che germogliava precoce e sbagliato; fu così, che Sam capì.
 
Lui e Dean si appartenevano da sempre.
 
Poteva essere cambiato tutto, a distanza di anni, potevano aver commesso innumerevoli sbagli, primo tra tutti l’amarsi, potevano separarli per mesi, forse anni, ma questo non sarebbe mai cambiato.
 
E sorrise, con la stessa innocenza di allora, ma con molta, molta più disperazione e amara consapevolezza dentro.
Ripose la maglietta con cura nella sua borsa e salutò per sempre la casa che li aveva ospitati in quei lunghi giorni di attesa.
 
 



 
Studio privato del Dottor William Holmes, Baltimore, Maryland
 
 

Sam era arrabbiato con lui, Dean lo sapeva.
Non si erano più nemmeno guardati dalla sera precedente, non si erano più parlati.
Aveva provato ad attirare il suo sguardo, proprio lì, mentre aspettavano il loro turno per entrare nell’ufficio del dottore, seduti di fronte a Clarisse, assorta a picchiettare chissà cosa sulla sua macchina da scrivere.
Niente, Sam sedeva composto in parte a lui e guardava fisso di fronte a sé, imperterrito.
 
Dean sentiva la tensione tra loro addensarsi al limite della sopportazione e il mutismo di suo fratello peggiorava le cose rischiando di fargli esplodere i nervi; allora e solo allora, prese coraggio e parlò, per dire l’unica stupidissima cosa che riuscisse a pensare ormai da settimane.

“Non ci sarei mai riuscito, Sam... non sono abbastanza forte, perdonami.”
 
A testa bassa e senza guardarlo, Dean seppe comunque che Sam si era voltato verso di lui.
 
“Lo so.”

Rispose in un soffio, tornando immediatamente a guardare dritto davanti a sé.
 
John e Bobby attendevano fuori dall’edificio. Sarebbero partiti appena finito l’incontro con Holmes. Dean fissava suo fratello e si sentiva esausto, svuotato, privato di ogni volontà e forza, inutile, in trappola.
Si sentiva morire man mano che il tempo di separarsi da Sam si avvicinava, si sentiva distrutto per quanto avrebbe disperatamente voluto e ormai non poteva più fare. Abbracciarlo, stringerlo forte e baciarlo e dirgli che lo amava e che lo avrebbe amato sempre, che mai e poi mai avrebbe permesso a se stesso o chiunque altro di fargli del male.
Avrebbe voluto dirgli addio e si sentiva schiacciare il cuore e bruciare gli occhi, al pensiero che presto non avrebbe più potuto nemmeno vederlo.
Era necessario.
Lo sapeva, eppure... da quel giorno per tutti quelli a venire la sua vita sarebbe potuta sintetizzarsi con un eppure.

Dovrei stargli lontano. Eppure...
È mio fratello. Eppure...
Non dovrei volerlo così. Eppure...
Oggi finisce tutto. Eppure...
 
Angosciato e in procinto di alzarsi da quella sedia e urlare a Sam che lo amava disperatamente, la voce di Clarisse interruppe il vortice dei suoi pensieri.

“Potete entrare, ragazzi.”

Sam si alzò per primo.

“Non sono arrabbiato con te, Dean.”

Gli disse piano, di spalle, prima di incamminarsi.

Tira fuori le palle, cazzo. Alzati!

Pensò Dean e lo seguì poco dopo, spalle curve e mani dentro le tasche della felpa.
 
 

*
 


Aveva smesso di piovere ormai da qualche minuto, ma il cielo gorgogliava e sembrava in procinto di dichiarare nuovamente guerra al mondo, di lì a minuti.
Quando i fratelli entrarono nel suo studio, Holmes era in piedi alla finestra e contemplava la figura tesa di John Winchester che attendeva i suoi figli nel parcheggio dell’edificio, appoggiato alla portiera della sua auto.
Stava fumando una sigaretta. Avrebbe pagato oro per dividerla con lui e ascoltare quanto quest’uomo avesse da dire; ne avrebbe sentite delle belle, ne era certo.
Non gli ci era voluto molto per capire che il padre dei due ragazzi che stavano per mandare in frantumi anni di esperienza e fiducia in se stesso e nelle sue capacità di terapeuta, era venuto a conoscenza del tipo di relazione che legava i suoi figli.
Avrebbe voluto chiedergli di entrare con loro nel suo studio, avrebbe voluto trovare le parole giuste anche per lui.
Ma la realtà era che le parole giuste, con la famiglia Winchester, non esistevano.
La realtà era che, di fronte a questi due ragazzi, Holmes si era scoperto impreparato.
Perché qualcosa, nella vita di Sam e Dean Winchester, rendeva necessario all’uno la presenza dell’altro.
Qualcosa di grave e di essenziale per la loro sopravvivenza, li spingeva a stringersi in un legame che era difficile classificare, che era complicato da mantenere entro certi confini.
Lo aveva capito, la verità lo aveva schiaffeggiato in piena faccia, quando li aveva visti assieme.
Dolore, colpa, rimorsi, dipinti sul volto di entrambi. Ma più di tutto, vide il bisogno, disperato e sincero, di stare assieme, anche se costretti a reprimere per sempre sentimenti sbagliati e impossibili.
Il dottore si girò, osservandoli rigidi e nervosi, mentre si accomodavano di fronte a lui alla scrivania, e il dolore che li affliggeva lo colpì di nuovo, esattamente come mentre li guardava abbracciati in quella sala d’attesa.
 
Allungò una mano verso il plico ben ordinato di fogli che aveva raccolto in una cartellina sul tavolo, lo spinse verso Dean e si accomodò a sua volta sulla poltrona.
 
“È la tua valutazione.”

Disse, serio. Dean si sporse a la prese in consegna.

“Firmata e timbrata. Basterà portarla in centrale. Il capitano Watson vi aspetta, vi scorterà fino al confine di Baltimore. Si assicurerà di persona che lascerete immediatamente la città, su questo non ha voluto negoziare.”

“Si, signore.”

Rispose il maggiore.

Sam taceva, Holmes lo stava osservando attentamente; gli sembrò spento, quasi gelido nella rigidità della postura con cui sedeva; notò la contrazione involontaria della mascella, appena Dean pronunciò le ultime parole.
Pensò che stesse metabolizzando l’imminente distacco. Pensò che John Winchester non ci fosse andato leggero con i figli, dopo il rilascio di Dean.
 
“Vi separerà, dico bene?”

Entrambi i ragazzi sgranarono gli occhi fissandolo increduli.

“Ma come... come lo sa?”

Chiese incerto Sam.
Dean sembrò invece sciogliersi prima, forse si aspettava che avesse compreso ogni cosa, conoscendo meglio il dottore.

“Mi è bastato accorgermi di come evitava di guardare entrambi, mentre vi attendeva in macchina. È un uomo acuto, difficilmente gli sfugge qualcosa... giusto?”

Dean gli sorrise stanco, mentre Sam sembrava ancora molto stupito.

“Staremo, ehm... separati per un po’. È un bene... giusto? Cioè...”

Holmes ebbe un moto di compassione molto forte, verso l’agitazione visibile di Dean e il suo tentare invano di trovare parole che facessero il meno male possibile.

“Perché siamo qui?”

Li interruppe bruscamente Sam.

“Cosa c’è ancora da dire?”

La voce del minore iniziò a vacillare, a tremare progressivamente, e Holmes si rese conto che il ragazzo era sul punto di crollare.

“Cosa... cosa dobbiamo fare ancora?”

Scoppiò, infatti.
Chinò la testa e, sia Dean che Holmes, lo sentirono nitidamente singhiozzare, nonostante il più giovane stesse evidentemente cercando di trattenersi.
Dean, straziato, fece per confortarlo; allungò la mano verso la spalla del fratello, ma con un cenno del capo, Holmes gli diede ad intendere che fosse meglio lasciare che si calmasse per conto proprio.
 
“Tutto ciò che ho da dire io, è che vi chiedo perdono.”

Disse Holmes dopo qualche secondo.
Quando Sam rialzò la testa, gli occhi lucidi e rossi dal pianto, sembrò crollare definitivamente e sfogare tutta la tensione accumulata, il dolore della separazione ormai prossima e il peso delle azioni commesse, volute immensamente, ora impossibili da cancellare.

“Perdono per cosa?” Soffiò debolmente il più giovane. “Lei non ha fatto nulla.”

Lo sguardo di Holmes si addolcì e sostenne quello perso e distrutto di Sam. Desiderò, sperò con tutto se stesso che il suo dispiacere fosse tangibile, che la sincerità del suo rammarico per non averli saputi e potuti aiutare (più di quanto fatto), fosse percepita come intensa e reale.

“Proprio per questo. Non ho potuto fare niente, non sono riuscito a fare niente. Non ho parole magiche per voi, non c’è nulla che nessuno possa fare per alleviare i vostri sensi di colpa, per farvi smettere d’improvviso di provare ciò che provate.”

Il pianto di Sam, ormai innescato e inesorabile, coinvolse anche Dean che a stento reprimeva il proprio, trasformando il suo volto in una maschera di profonda sofferenza. Il maggiore non distolse mai gli occhi da suo fratello, pietrificato dalla quantità di pena che sentiva provenire da quest’ultimo.
Sam stava piangendo per entrambi. Eppure restava dritto, a testa alta, pugni chiusi e rigidi poggiati ai braccioli della poltrona.

“Non voglio che Dean soffra... non l’ho mai voluto.”

Il minore sembrò confessarlo con fatica. Fu difficile liberare quelle poche parole nell’aria, pesanti come macigni, come attendendo inerme che giungesse infine la punizione adeguata a quanto sentiva gravargli nel cuore da così tanto tempo ormai, che non ne aveva memoria.
Al contrario, l’innocenza e la dolcezza delle sue parole diede prova al dottore di non essersi mai sbagliato: nulla di quanto avessero mai commesso Sam e Dean, da che erano arrivati in quella città (da che erano nati) poteva definirsi una colpa, quanto invece, una tremenda catena di inevitabili eventi.
 
“Sammy...”

Sussurrò Dean, distrutto.

“Ed è questo che ho fatto... che abbiamo fatto, Dean. E tu... tu non ti perdonerai mai per questo e io non perdonerò mai me stesso per aver lasciato che accadesse.”

Alzò lo sguardo, stravolto, verso suo fratello maggiore, che mai aveva abbandonato il suo.

“Ho capito perché sei venuto da lui, so perché hai dovuto farlo. Quello che non so, è come fare a smettere, Dean... come fare a smettere di amarti così.”

Pianse più forte e sembrava così piccolo, così indifeso, che fu straziante; Holmes non ebbe nulla di dire, stavolta, quando Dean gli toccò una spalla con la mano e vi poggiò poi la fronte, tentando sottovoce di calmarlo.
Non c’era modo in cui William Holmes riuscisse a considerarli solo pazienti, non c’era modo in cui ormai fosse in grado di mantenere con loro il distacco che sarebbe stato necessario.
 
Il dottore, infine, a stento consapevole del tempo che era passato, la schiena poggiata stancamente alla poltrona, le mani congiunte di fronte a sé, vicino al loro dolore eppure impotente, a disagio, straziato da ciò a cui stava assistendo, divenne improvvisamente consapevole di quanto poteva ancora fare per questi ragazzi, di quale ruolo avrebbe potuto giocare ora che erano alla fine, ora che si decideva del loro futuro.
Prese la sua ultima decisione e si schiarì la voce, nel tentativo di interromperli il meno bruscamente possibile.

Regalerò loro un po' di tempo.

Si alzò lentamente in piedi, aggiustandosi il vestito e attirando l’attenzione dei ragazzi, che sollevarono il viso per osservarlo.

“Credo... che Clarisse abbia bisogno di me. Vi aspetto fuori, fate... con calma.”

Dean si strinse le labbra con la mano, gemendo un grazie appena sussurrato, mentre Holmes gli sorrise velocemente prima di voltare loro le spalle e avviarsi alla porta d’ingresso.

“Ditevi addio. E tornate ad essere fratelli.”

Così dicendo, il dottore uscì dallo studio, lasciandoli immobili e seduti alla sua scrivania.
Si accorse di aver trattenuto il fiato, perché rilasciò un sospiro lungo e affannato, appena mise piede fuori dalla stanza.

Trovò Clarisse a fissarlo preoccupata.

“Le concedo una sigaretta, Dottore. Ha proprio la faccia di uno che ne ha bisogno.”

Le sorrise sincero e si incamminò verso il terrazzo perché, spesso, i consigli di Clarisse si rivelavano essere i più saggi.

Sperò di cuore di aver fatto la cosa giusta.
Sperò di cuore che il tempo che aveva concesso a Sam e Dean da soli, avrebbe permesso loro di chiudere con le colpe e i rimpianti, e andare avanti consapevoli di averlo scelto in due.
Sperò di cuore di non trovare sulla propria strada un altro Dean, perché in qual caso, avrebbe cominciato a contemplare seriamente il suo possibile e precoce ritiro dalla professione.
 
Era possibile psicanalizzare un Winchester? Forse. Forse, William Holmes semplicemente non era l’uomo giusto per quel compito. E avrebbe dovuto convivere con questo limite per sempre.
 
 
 
 
 

Continua...
 
 
 
 
 
 
 
 
Nda: dai gente, fatemi chiudere con 10 che è tondo e fa più figo! XDD
Dunque, rassicuro immediatamente chiunque sia ancora sintonizzato, dicendo che la storia è finita, ho scritto e betato anche il prossimo capitolo, quindi arriverà puntualissimo tra esattamente una settimana. Poi ci saluteremo per sempre. *alleluia*
Infine, con l’autorizzazione della mia beta (nonché carissima amica, nonché adorato germano, nonché amore della mia turbolenta vita da fangirl), condivido con voi uno dei tanti scleri che questa santa donna ha dovuto sopportare durante i mesi di stesura di questa storia.
Perché si, pippatevelo!
 
 

 
Le rocambolesche avventure di Simo & Ele su Skype
***
[17:35:40] Ele 106: sai cosa? Probabilmente se scrivessi ora, Sam finirebbe orfano perché John avrebbe ucciso Dean per poi suicidarsi e lasciarlo in vita nella vergogna. E Holmes, testimone di tutto, avrebbe insabbiato e mantenuto Sam anonimamente. E poi sarebbero finiti a letto insieme.
[17:36:30] Thinias: ma poveri XD
[17:36:33] Ele 106: buahaha oddio muoio, muoiooooooooooooooooooooooooo
[17:36:43] Thinias: daiiiii
[17:36:55] Ele 106: aiuto soffoco *si asciuga le lacrime* E il cerchio si chiude: Holmes, pazzo per aver giaciuto con un minorenne, si suicida e lascia le sue memorie scritte alla segretaria
[17:37:45] Thinias: allora la finisci??? XD
[17:37:47] Ele 106: che le chiude a chiave in una cassaforte, senza leggerle. La storia dei Winchester morta per sempre
[17:37:57] Thinias: e nessuno lo saprà mai
[17:38:00] Ele 106: pfffffffffffff
[17:38:05] Thinias: emmmm, anche no
[17:38:20] Ele 106: no ascolta, dobbiamo pubblicare sta conversazione, ti prego. Bisogna far ridere il mondo! Dimmi che lo posso fare!!!
[17:38:46] Thinias: ahahahah non capirebbero
[17:38:48] Ele 106: *non ce la fa* guarda, io la pubblico nelle nda del prossimo capitolo
[17:39:33] Thinias: ok va bene XD
[17:39:35] Ele 106: scriverò ‘per capire la crisi esistenziale che ha attraversato l'autrice, prima di partorire sto capitolo’
[17:39:37] Thinias: salvatela
[17:39:43] Ele 106: eccovi una conversazione interessantissima con la sua beta, che naturalmente si  dissocia completamente ahahahah
[17:40:16] Thinias: aggiungi ‘e per capire l'infinita pazienza della beta che si sente come Holmes’

 
***
 
E dopo questa, la fuga e l’anonimato eterno.
Ele

 
   
 
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