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Autore: RedRaven    24/09/2014    1 recensioni
Ci sentivamo dei giganti, nel retro della mia utilitaria grigia. Bastavamo noi due a colorarla di memorabili ricordi ed incredibili sapori. Ci piaceva imparare come i nostri corpi funzionassero, e scrutare l’uno gli occhi dell’altro: i tuoi verdi come l’acqua, i miei neri come il carbone.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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"Sembravamo dei giganti"



Era Giovedì. 
Come ogni Giovedì, fra l’altro.
Le solite due ore di educazione fisica che avevi ogni Giovedì. Ti piacevano così tanto che ogni volta le saltavi per venire da me, e quello sì che era divertimento. Poco più che sedicenne, il tuo bel viso illuminato dalla luce del mattino. La mia auto sempre ferma in quella stradina di montagna, non molto lontana dalla tua scuola e casa mia: dalla via che percorrevo per venire da te.
Adoravo sentire il tuo profumo ogni volta, e farti indossare la mia maglietta dei JAMC per poi avercelo sempre con me. Potrei affermare che tutto era perfetto quelle mattine: il nostro sapore dopo aver fatto l’amore, i giornaletti per ragazzini che ci piaceva sempre leggere insieme. Tu fra le mie braccia, ed i tuoi capelli legati in una bellissima treccia rossa che scendeva dal lato destro della tua spalla, fino a terminare poco dopo. In te ho sempre visto tutto ciò che ho mai potuto desiderare: l’amore, l’amicizia, la sicurezza. Persino quelle buffe lentiggini che popolavano i tuoi zigomi erano adorabili... beh, lo sono tutt’ora. Non ho mai smesso di amarti.
Ci sentivamo dei giganti, nel retro della mia utilitaria grigia. Bastavamo noi due a colorarla di memorabili ricordi ed incredibili sapori. Ci piaceva imparare come i nostri corpi funzionassero, e scrutare l’uno gli occhi dell’altro: i tuoi verdi come l’acqua, i miei neri come il carbone.

Adesso è tutto diverso. Questa stanza è grigia, ma completamente priva dei nostri colori. E’ come se quel Giovedì li avessimo persi. Tua madre è in lacrime da quando è qui, da quando gliel’abbiamo detto.
Provo a stringerti a me per sentire ancora il tuo calore, per cercare ancora quel contatto che abbiamo perso quel Giovedì. Ma non riesco a trovarlo. Ti stringi ancora di più nelle tue spalle, evitando di considerarmi, e come se non bastasse continui a sussurrare “Non dovresti essere qui”, “Non avresti mai dovuto esserci qui”.

Non ho voluto credere alla notizia. Credevo avessi falsificato il test in qualche modo: mi ricordo ancora quella volta che fingesti di darmi la notizia ed io me ne preoccupai davvero. Poi la tua risata, le tue carnose labbra rosee che si inarcavano, mi tranquillizzarono e non potei fare a meno di baciarti. Ti strinsi a me, come non aveva mai fatto nessuno prima. Suonammo la mia chitarra bordò, e la tua bellissima voce risuonava in quello che era il nostro spazio, il nostro tempo. In ogni caso per te ci sarei stato, sono sempre stato pronto a ripetertelo e non mi stancherò mai di farlo.

Tuo padre chiama ogni quarto d’ora, per tranquillizzare tua madre e sapere come stai. Nessuno chiama me. Perché quando mio padre l’ha saputo, lui mi ha riso in faccia dicendo “L’hai fatta grossa, cazzone”, rintanandosi fra il suo alcol e il suo fumo.

Tu eri mia. Il Giovedì, dalle sette e trenta alle nove e trenta.
Sai cosa è ironico? E’ Giovedì anche oggi, ma tu non sei più mia. La tua risata si è spenta da circa due settimane: hai smesso di considerarmi, hai ignorato i miei messaggi. Ho dovuto chiamare l’ospedale e dire che “sono il padre” per poter essere qui con te oggi: sai che non sono mai stato buono con le bugie.
Sono le nove e trenta, e manca mezz’ora. Sto cominciando a sudare, le mani mi tremano, e tu a stento trattieni le tue lacrime. Sto diventando la persona che odio. Stiamo diventando le persone che abbiamo sempre odiato. Io non posso sopportare l’idea di uccidere qualcosa che ho fatto con te, aspettare trenta minuti per poi spazzar via quello che, seppur involontariamente, ho costruito assieme a chi amo. Assieme a te.
Le mie mani strette a pugno, ed una voce che riesce a farsi abbastanza forza da uscire da tutti questi pensieri: “Cosa stiamo facendo. Non possiamo farlo. “ 
Continui ad ignorarmi, costringendomi ad alzare la voce. 
“Christina per la miseria! Non far finta che io non esista, guardami almeno in faccia!”
Christina si volta con il viso spento, le guance rigate di lacrime.
“Non posso…” cerca di pronunciare lentamente, fra un singhiozzo e l’altro “… non posso.”
“Cosa non puoi Christina?!” sembro in preda ad un attacco di panico, ma la mia voce è ancora decisa quanto basta per farmi comprendere.
“Io ho solo sedici anni! Questo… questo problema. Non sarebbe mai dovuto esistere”
Sono a pezzi. Non ho dormito tutta la notte, sono qui con lei e stiamo per ucciderci. Ho gli occhi umidi e la voce rotta, quando abbasso la testa e dico: 
“Io non distruggerò quello che abbiamo costruito”.

---

Sei così bella nell’altra stanza, con quei capelli rossi ed i miei occhi color carbone. La maglia dei JAMC che ti fa da vestito, ti osservo giocare con la mia chitarra color bordò. 
“Papà?” ti sento domandare.
“Quando mi insegni a cantare come faceva la mamma?”

  
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