Questa storia è arrivata seconda al Terzo Contest di ELF. Grazie a
Izumi e Melantò per averlo indetto e per aver giudicato così bene questo mio
piccolo lavoro!
Dedicata a Silen, Agatha, Saretta e Only Hope, senza le quali
non avrei scritto neppure mezza riga...
Grazie Arpia, la spada di Damocle ha
funzionato!XD
Il
tenue rosa dell’alba fa impallidire man mano le stelle insinuandosi, lento ma
inesorabile, a delineare la linea dell’orizzonte, separando ancora una volta il
cielo e la terra.
Vedo la mia ombra allungarsi e correre veloce accanto a me
e tutt’intorno l’infinito farsi immenso. La sabbia dorata è un’enorme distesa
silenziosa, un oceano apparentemente immobile e letale. Presto il sole sarà alto
ed il fresco riposante della notte sarà un sogno lontano.
Alzo la sciarpa
candida ad avvolgermi il viso e trattengo un istante il respiro, chinandomi in
avanti sulla lunga criniera che mi solletica le mani nude. Sento sotto di me i
muscoli tendersi e vedo l’immensità intorno sfuggire ancora più veloce. Gli
zoccoli sottili sfiorano il terreno, silenziosi eppure rapidi. E’ come viaggiare
trasportato dal vento.
Una duna, poi un’altra ancora, sempre galoppando,
liberi come solo un beduino ed il suo cavallo possono esserlo. Padroni di quel
mondo ostile che non è riuscito a schiacciarli. Quel mondo che loro
amano.
Lancio un’occhiata al cielo sopra le nostre teste, sorridendo per un
istante mentre ne ammiro l’azzurro abbagliante che tra poco meno di un’ora sarà
tanto intenso da essere abbacinante. Sorrido e, come sempre quando torno a casa,
mi coglie l’amore e la devozione che porto a questi luoghi, dove sono nato e
cresciuto: il deserto, uno dei luoghi più inospitali del Pianeta, arido,
minaccioso, letale. Amo quest’immensità, i suoi silenzi, i suoi segreti.
Lancio uno sguardo d’intorno, cogliendo di sfuggita il profilo regolare
delle infinite onde di sabbia, tutte apparentemente uguali, tutte apparentemente
immobili, e mi rendo finalmente conto di quanto tutto ciò mi sia mancato. E’
così diverso da dove sono costretto a vivere ora…
Prati verde smeraldo, cieli
azzurri d’acquamarina o, più spesso, grigi come il granito e carichi di
pioggia.
L’Inghilterra. Mai altro posto potrebbe essere diametralmente
opposto a questi luoghi che amo e che con rammarico ho dovuto abbandonare a
causa degli studi.
L’Inghilterra: fredda, umida, buia per buona parte
dell’anno, verde e rigogliosa più di qualsiasi oasi del deserto.
E’ su quei
prati verdi e grassi che ho deciso di cominciare seriamente la mia ascesa al
calcio professionistico ed è sotto quella pioggia che ho ricordato la mia prima,
grande lezione di vita che avevo dimenticata…
La palla rotolava
pesantemente davanti ai miei piedi, adagiandosi con tonfi sordi sul terreno
zuppo che ad ogni rimbalzo voleva quasi trattenerla. Pioveva, quella pioggerella
continua che inzuppa fino al midollo. La partita era cominciata da neppure un
quarto d’ora e già si prospettava uno scontro interessante. I nostri avversari
salivano con impeto, sempre dalle fasce laterali nel tentativo di sfruttare la
velocità notevole delle loro ali che, alternativamente, tentavano di servire
l’unica punta a disposizione, il rosso Edwin Morell. Era uno schema semplice da
intuire e disposi la difesa in maniera da bloccare in maniera continuativa
almeno uno dei due giocatori esterni, così da potermi occupare personalmente del
centro e spostare altri dei nostri sulla fascia che restava semiscoperta.
Nei primi anni trascorsi in Europa avevo deciso che la mia posizione sarebbe
stata in pieno attacco, ma col passare del tempo mi ero accorto che il centro
della difesa, la regia della squadra, era il posto che mi si confaceva di più.
Morell è un tipo ostinato, poca tecnica e molta buona volontà ed i suoi
compagni non sono da meno. Avanzavano contando più sulla potenza fisica che
sulle raffinatezze di gioco. Non avevamo nulla da temere, pensai, vincere quella
partita sarebbe stato come bere un bicchiere d’acqua. La mia squadra era non
solo ben allenata, ma soprattutto composta dai migliori elementi in circolazione
nella serie giovanile. E questo, grazie a me. Mio padre aveva preteso che, vista
la mia decisione di entrare in un college rinomato per i successi calcistici
piuttosto che per i geni della finanza che sfornava, la scuola scelta avesse la
possibilità di accogliere i migliori giocatori in circolazione. Così su
Sheffield erano fioccate parecchie borse di studio per lo sport e la squadra
aveva acquisito diversi giocatori dalle notevoli qualità. Giocare in un ambiente
del genere era entusiasmante, oltre che altamente istruttivo. Vincevamo ormai il
campionato giovanile da tre anni consecutivi e ci avviavamo verso la conquista
del quarto.
La squadra di Bristol era poco più di una formalità.
Morell si
fece avanti con la solita espressione severa in viso, i due centrocampisti White
e Newmann portarono la palla verso la nostra area effettuando dei passaggi
veloci. Il rosso attaccante rallentò la corsa, preventivando il mio scatto che
l’avrebbe fatto finire in fuori gioco. "Peccato" pensai ridacchiando fra me "non
mi sarebbe dispiaciuto umiliarti per l’ennesima volta!" Nel frattempo corsi
sulla fascia destra, prevedendo il passaggio di White al numero otto e
intercettando il pallone, rilanciandolo all’istante alla nostra mezza punta,
Stevens. Il contropiede ripartì veloce mentre la squadra avversaria ripiegava
alla disperata, facendo inutili tentativi per riprendere la sfera che schizzava
veloce e precisa tra Stevens, Roy e Brown il quale, effettuando un bel passaggio
al volo, servì al nostro numero nove un’eccellente opportunità di andare a rete.
La fortuna però quel pomeriggio non voleva essere dalla nostra: la sfera sfiorò
la traversa, finendo sul fondo.
Morell tornò alla carica ma vanificai
personalmente ogni suo scambio con gli altri due attaccanti, annientando il suo
ridicolo dribbling. Partii io stesso alla volta della porta avversaria,
scansando senza nessuna difficoltà i miseri tentativi di arrestare la mia corsa.
Triangolando velocemente con Stevens mi trovai nell’area avversaria. Battere
Cooper fu come rubare le caramelle ad un bimbo.
Tornai nella nostra metà
campo passando di proposito accanto al capitano della squadra avversaria,
squadrandolo dall’alto in basso. Lo vidi stringere i pugni, serrare
convulsamente le mascelle e non potei trattenere un ghigno soddisfatto. Quel
ragazzotto senza un minimo di talento aveva avuto la faccia tosta di sfidarmi,
scommettendo che avremmo perso la partita contro quella specie di squadra che si
trovava a comandare. Meritava una sonora lezione.
Il fischio dell’arbitro che
ridava il via alla partita fu quasi sovrastato dalle urla del pubblico ma una
voce su tutte attirò la mia attenzione, quella acuta e argentina di una ragazza
bionda che si sbracciava da dietro la panchina del Bristol. Lei era il secondo
motivo per cui dovevo assolutamente ottenere una vittoria
schiacciante.
Rosalie Raynolds.
L’avevo incontrata qualche settimane prima
ad una festa e da subito aveva acceso il mio interesse. Non solo era decisamente
attraente, con la pelle chiara tipica delle ragazze del nord Europa, i capelli
d’una particolare sfumatura d’oro e gli occhi verde acqua, grandi e ben
disegnati, ma aveva dimostrato di possedere anche un’intelligenza vivace, dote
rara e quasi mai riscontrata nelle mie frequentazioni galanti.
L’avevo
invitata a ballare ed aveva accettato, seppur tenendosi molto sulle sue, ma io
non sono tipo da arrendermi facilmente anzi, le difficoltà stimolano il mio
entusiasmo.
Mi era sfuggita prima che potessi estorcerle il numero di
telefono ma quello era un piccolo inconveniente al quale avevo rimediato in
pochissimo tempo; il mio nome apre molte porte e, soprattutto, molte agende con
indirizzi alquanto interessanti...
Le inviai una rosa, bianca, poi un'altra,
e così via per una settimana intera. Al settimo giorno le feci recapitare un
mazzo intero di fiori rossi, con un invito a cena in uno dei ristoranti più
esclusivi della città.
La sera stessa mi trovai davanti a casa sua,
puntuale. Quando uscì dalla porta dovetti fare uno sforzo per trattenermi:
indossava una semplice tuta sgualcita e le scarpe da tennis, i capelli erano
raccolti in una coda disordinata e semi sfatta. Lanciò una lunga occhiata alla
mia Ferrari, quindi il suo sguardo si puntò direttamente nel mio.
"E questo
cosa vorrebbe dire, Owairan?" Non mi chiamò "principe" come facevano ormai tutti
ma utilizzò il mio cognome, pronunciandolo con malcelato disprezzo.
Mi
allontanai dall'auto, fermandomi a pochi passi, fronteggiando la ragazza e non
potei fare a meno di notare nuovamente quanto fosse graziosa anche in abiti così
dimessi.
"Mi pareva avessimo un appuntamento per cena, cara. O forse non ti è
giunto il mio invito?" Alla mia ironia rispose stringendo gli occhi da gatta "Ho
ricevuto l'invito, ma non mi pare di avere risposto in maniera affermativa.
Anzi! Non mi pare di avere proprio risposto! Quindi, non vedo cosa tu ci faccia
qui!"
Sollevai un sopracciglio di scatto ed incrociai le braccia al petto,
impedendomi di commettere un gesto che certo non sarebbe stato cavalleresco.
Quella sciocca ragazzina stava prendendo in giro me! Come si
permetteva?!
"Non credevo ci fosse bisogno di ricevere una risposta
affermativa. Mi pareva assolutamente chiaro che saresti uscita con me,
stasera."
Fece un passo ed arrivò praticamente a sfiorarmi, guardandomi dal
sotto in su "Mio caro principino, non è che perché mi hai fatto una corte
serrata per una settimana, inviando rose e belle parole io debba per forza
uscire con te! Non è che perché ti presenti davanti alla misera dimora in
un'auto che Dio solo sa cosa costa, io debba cadere ai tuoi piedi! Non ti ho
degnato di una risposta, vuol dire, evidentemente, che non ho nessuna intenzione
di uscire con te!"
Rimasi esterrefatto da quelle parole. Nessuna, mai nessuna
aveva rifiutato un mio invito!
"Come ti permetti!? Ma chi ti credi di
essere, stupida ragazzina?!" Non riuscii a terminare la frase, piantò le mani ai
fianchi e fece un altro passo, sorprendendomi e costringendomi ad arretrare "Chi
ti credi di essere tu! Solo perché ti sei comprato tre quarti di scuola coi tuoi
dannatissimi soldi, non è detto che tutti siano disposti a farsi comprare da te!
Non puoi credere di ottenere tutto ciò che vuoi col denaro! Volevi me? Beh, io
non sono in vendita!" Detto questo girò sui tacchi senza darmi tempo di
controbattere e mi sbatté la porta in faccia.
Ero furioso, letteralmente
furioso. Nessuno si era mai permesso di umiliarmi a quel modo!
Inoltre, il
giorno seguente, durante gli allenamenti, ci fece visita Morell. Era
evidentemente alterato e quando terminammo mancò poco che strappasse il cancello
del campo dai cardini per entrare.
"Owairan!" sibilò a denti stetti, venendo
avanti a pugni chiusi con un'aria tanto minacciosa che le mie guardie personali
fecero per bloccarlo. Li fermai con un gesto, incuriosito dall'atteggiamento di
quello sconosciuto che mi chiamava per nome.
Intanto il rosso si era portato
a pochi metri da me e mi fissava con aria torva.
"Non ho il piacere di
conoscerti. Il tuo nome, prego?" mi avvicinai a mia volta con disinvoltura,
lanciando però un avvertimento alle guardie con uno sguardo d'intesa.
"Non
osare mai più avvicinarti a lei!"
"Lei?" ripetei corrugando la fronte,
perplesso.
"Rosalie."
"Ah." Era spiegato l'arcano: lo sconosciuto doveva
essere l'amichetto della ragazzina impertinente.
"Vedi di starle alla larga,
capito?"
Sospirai, dandogli le spalle "Prima o poi cederà. Lo fanno tutte. E'
solo questione di tempo." Non avevo intenzione di mollare la presa. Non ero mai
stato rifiutato e per il mio orgoglio era uno smacco incredibile. Ci avevo
pensato a lungo ed alla fine avevo trovato la soluzione: era ovvio, con lei non
bastavano pochi giorni e qualche rosa. Servivano tempo, pazienza e, soprattutto,
soldi. Presto o tardi le avrebbero fatto gola, ed allora avrei goduto del mio
premio.
"Rose non è come le altre! Lei non è come tutti quelli di cui ti
circondi che ti vengon dietro solo perché sei ricco sfondato!" così dicendo
lanciò un'occhiata eloquente alla mia squadra.
Azzerai la distanza tra noi
due in poche falcate e lo fulminai "Sbaglio o non mi hai ancora detto chi sei,
caro signor sputasentenze?"
"Edwinn Morell."
In quell'istante ricordai dove
l'avevo già visto e perché il suo viso mi fosse vagamente famigliare. Ricordai
anche con che squadra avremmo giocato la settimana successiva e gli scoppiai a
ridere in faccia.
"Oh oh, signori! Il capitano del Bristol, nonché terzultima
classificata in campionato! Non vi sta andando molto bene la stagione, eh,
Morell? Forse avreste bisogno di qualche giocatore nuovo..."
Divenne livido
mentre gli altri si univano alla mia risata "Vedremo, Owairan! Vedremo sul campo
cosa conta davvero!"
Mi voltai, sempre ridacchiando "E cosa mi dimostrerai?
Che la tua squadretta è in grado di batterci? Continua a sognare!" Feci per
allontanarmi, ma mi fermai, colpito da un'idea "Settimana prossima Rosalie avrà
l'ennesima dimostrazione che ha sbagliato comportandosi come ha fatto!"
"Ti
ho detto di lasciarla in pace" ringhiò ancora l’altro, stringendo i pugni
pericolosamente.
"Ok, ok." Acconsentii mentre mi avvicinavo di nuovo
"Mettiamola così: se voi riuscite a segnarci anche solo un gol, rinuncerò ad
ogni tentativo con lei. Anche se doveste perdere. Basta un gol."
"Ok," annuì
"un gol e ti leverai dai piedi. Peccato che non ne prenderete solo uno!"
Di
nuovo scoppiai a ridere, dandogli definitivamente le spalle per mettere in
chiaro che la discussione era chiusa "Non dirmi che pensate di vincere?! Questa
sì che è bella! Grazie, Morell, ti devo un favore! Avevo proprio bisogno di una
battuta come questa per rallegrarmi la giornata!"
Sentii che si allontanava,
sibilando qualcosa come un: "Vedremo" che m’aveva fatto sorridere.
Come avevo
pronosticato la partita stava volgendo al meglio per noi. Dopo la prima rete,
segnata a pochi minuti dallo scadere del primo tempo, tenemmo il gioco senza
nessuna fatica, impedendo agli avversari anche solo di sfiorare la nostra area.
Rientrammo in campo per la ripresa che la pioggia s’era fatta più consistente ed
il campo evidentemente più insidioso. Nonostante tutto, l’ordine era di segnare
almeno altri due goal. Volevo insegnare cosa fosse il rispetto a
quell’attaccante da strapazzo. Il rientro degli avversari mi sorprese:
sorridevano, si scambiavano battute e avevano l’aria del tutto rilassata. "Per
forza" pensai "sono abituati a perdere!" Eppure tutta quell’allegria mi mise a
disagio.
Ripartimmo con vigore, Stevens e Roy in avanti, il resto della
squadra direttamente alle loro spalle, pronta ad intercettare un eventuale
contrattacco. I nostri movimenti erano precisi e veloci, il Bristol non ci stava
dietro né come rapidità, né come tecnica. Roy servì uno splendido assist alla
nostra punta, un’occasione favolosa che venne però vanificata dal salvataggio in
extremis di Custer, il quale rilanciò mettendo in moto l’attacco avversario. Mi
trovai nuovamente davanti Morell e di nuovo gli diedi una lezione di tecnica,
lasciandolo a terra, ubriacato dal mio dribbling. Brown ricevette il mio
passaggio ma ancora fummo fermati dalla difesa avversaria che si serrava.
Ripeterono il solito schema, con i laterali che salivano rapidi sulle fasce.
Senza aspettare che arrivassero a servire il loro capitano, avanzai e rubai
palla, correndo da solo a segnare la seconda rete. Morell rientrò,
sorprendendomi, e mi affrontò. Lo scavalcai, senza degnarlo di uno sguardo,
tirando direttamente in porta. Cooper era spiazzato ma il loro numero cinque era
in traiettoria e deviò. Mi accorsi solo in quell’istante che Stevens era in
posizione migliore della mia…
Il rinvio giunse direttamente sui piedi del
capitano del Bristol. Ordinai ai difensori di chiuderlo, di marcare le ali ma lo
schema era cambiato: Morell avanzava triangolando continuamente con i numeri
dieci ed undici, imitando la nostra tecnica d’attacco e arrivando così in area.
Parker, costretto ad uscire, si trovò battuto. Uno a uno, eravamo pari e stavo
perdendo la mia scommessa.
Ero furibondo.
Ricominciammo, più determinati
che mai a non farci battere da quella squadra di pezzenti ma sembrava ormai che
ogni nostra tattica fosse inutile. Gli avversari reagivano ai nostri assalti
come fossero stati un tutt’uno, coordinandosi tra loro perfettamente, sopperendo
agli errori dell’uno con la buona volontà, il coraggio, la velocità dell’altro.
Non riuscivamo più ad avanzare e, quel che era peggio, non riuscivamo più ad
essere pericolosi in attacco.
Udii urlare degli ordini dalla panchina: più di
metà del secondo tempo era andata, il terreno non era favorevole e un pareggio
era più che sufficiente, inutile correre rischi…
La mia rabbia crebbe ancor
di più: quel pareggio per me significava sconfitta.
"Andiamo, ragazzi!" urlai
"Non vorremo accontentarci di un pareggio con gli ultimi in classifica!"
Roy
mi passò accanto mentre tornava in posizione e mi sorrise intanto che
s’asciugava il viso con una mano "Dai capitano, il mister ha ragione! Tanto
siamo primi lo stesso!"
Serrai il pugno e presi la mia decisione, sfidando
ancora una volta Morell con lo sguardo.
Non passarono trenta secondi che
l’ebbi davanti. Il campo era ormai un pantano ed il pallone difficile da
governare, soffiarglielo fu uno scherzo. Feci per avanzare ma mi ritrovai a
terra: concentrato com’ero su Edwin non avevo visto sopraggiungere un suo
compagno da dietro. Mi rialzai e la situazione fu subito chiara ai miei occhi.
Gridai due ordini secchi mentre correvo indietro. Marvel e Lion erano spiazzati,
Parker praticamente solo ad affrontare due avversari. Cieco di rabbia e
frustrazione, mi lanciai in scivolata su Morell ma ero in ritardo ed avevo
calcolato male i tempi. Il fischio dell’arbitro mi aprì gli occhi sull’errore
madornale che avevo commesso: era rigore.
Mezz’ora dopo, negli spogliatoi, il
silenzio era glaciale. Se qualcuno aveva osato sussurrare il suo scontento, era
stato fulminato da una mia più che eloquente occhiataccia.
Avevamo
perso.
Avevo perso.
Era la prima volta ed il sapore della sconfitta era
amaro più di quel che credessi.
Fuori incrociammo i nostri avversari,
vocianti ed euforici. Non potei fare a meno di notare tra loro il riflesso
dorato di una fluente chioma bionda: Rosalie era in mezzo a loro e scherzava con
Edwin, scompigliandogli i capelli ancora bagnati. La udii scherzare e i ragazzi
intorno controbattere allegri "Adesso paghi da bere, cugino! Accidenti, li hai
stracciati!" rise.
"Cosa non si fa per difendere l’onore della cuginetta
adorata, eh capitano?"
"Gli abbiamo dato una bella lezione!" continuò un
altro mentre si avvicinavano all’uscita dove mi ero fermato ad
ascoltarli.
Rose si accorse di me e, contro ogni mia aspettativa, mi sorrise,
restando appesa al braccio di colui il quale avevo ormai capito essere niente
altri che suo cugino "Toh, il nostro principino!" mi apostrofò "Allora, Principe
Owairan, hai capito finalmente che con tutto il denaro del Mondo certe cose non
si comprano?"
Sollevai un sopracciglio, irritato e sistemai la sacca sulla
spalla con un gesto meccanico "Tutto ha un prezzo, mia cara. Convengo che
dipende dall’onestà dell’acquirente decidere cosa o chi sia lecito
comprare…"
Lei scosse il capo, stringendo le labbra e la vidi serrare il
braccio di Morell che stava per scattare, sul viso un’evidente
stizza.
"L’amicizia non si compra e non ha prezzo. E neppure l’onestà e
l’amor proprio l’hanno." Sentenziò, puntando il suo sguardo verde smeraldo
dritto nel mio "Puoi desiderare un mucchio di cose, ne puoi comprare un buon
numero è vero e te ne do atto. Ma non puoi avere tutto ciò che ti aggrada. Sai,
dalle mie parti esiste un detto: l’erba Voglio non cresce neppure nel giardino
del Re." Sorrise nuovamente passandomi accanto "Me lo ripetevano spesso
quand’ero piccola. Pensaci. Non hai più l’età per fare il bimbo
capriccioso…"
Il cielo è ormai azzurro sopra di noi ed i raggi
del sole cominciano a scaldare la sabbia che scivola veloce sotto gli zoccoli
affusolati del mio stallone.
Un bimbo capriccioso…
Sorrido dietro la
sciarpa e ripenso a un tempo che credevo dimenticato: non sono più un bimbo, e
neppure un bimbo capriccioso, anche se in un lontano passato lo sono
stato.
Vedo una sagoma frastagliata interrompere la linea regolare
dell’orizzonte e chiedo a Kahara di affrettare il passo.
Avevo otto anni la
prima volta che venni qui. Ero fuggito a dorso di un cammello dalla gabbia
dorata del palazzo di mio padre. Non avevo amici là, solo servitori e
consiglieri, tutta gente che stava con me ed esaudiva ogni mio più piccolo
desiderio solo perché nelle mie vene scorre sangue reale.
Avevo bisogno di
aria.
Giunsi in un piccolo villaggio costruito ai margini di una grande oasi
e subito m’imbattei in un gruppo disomogeneo di persone che giocavano a
calcio.
Mi misi d’un canto ad osservarli, stando bene attento a tenere il
cammello perché non fuggisse, e vidi quanto quella gente si stava divertendo. Li
invidiai non poco e desiderai di essere dei loro ma non avevo mai giocato e non
mi azzardai a chiedere.
D’un tratto, un uomo piuttosto corpulento e dal
sorriso gentile mi si fece vicino "Ehi, tu, ragazzino! Ti andrebbe di
giocare?"
Non me lo feci ripetere due volte.
All’inizio mi trovai
spiazzato, disorientato, gli altri mi rubavano la palla con una facilità
incredibile eppure quel gioco mi piaceva. Poi, quando afferrai il meccanismo e
riuscii per la prima volta a conquistare il pallone ed a tenerlo, cominciai
davvero a divertirmi. Me la cavavo bene, anzi! L’uomo di prima mi disse che ero
davvero bravo.
A riprova di quelle parole, pochi secondi dopo finii a terra,
senza sfera e con una sbucciatura alle ginocchia.
"Ehi, ragazzo!" mi gridò un
tipo grosso che era dei nostri "Il calcio è un gioco di squadra! Passala quella
palla, guardati in giro!"
Ascoltai quel consiglio e capii: ciò che cercavo
era lì, intorno a me. Amici. Amici veri, non gente consenziente comprata col
denaro di mio padre.
Purtroppo il divertimento finì presto, il mio tutore mi
rintracciò ma prima che mi portasse via diedi un ultimo calcio a quel pallone e
mi voltai sorridente verso Al-Zico, dichiarando convinto: "Mi sono divertito un
mondo! Diventerò un calciatore!"
Ero un bimbo capriccioso e, ora mi rendo
conto, molto viziato.
Mio padre dapprima osteggiò la mia decisione poi, vinto
dalla mia testardaggine, decise di assecondarmi, sperando fosse una semplice
mania fanciullesca.
Mi fornì un campo, un allenatore e, infine, una piccola
squadra.
Ma non ero felice.
I continui "Sì, principino." "Certo, altezza."
E così via, mi urtavano. Non mi divertivo, ero punto e a capo.
Una mattina
presi il padre di Kahara dalle scuderie e fuggii via, diretto al villaggio.
Durante la lunga galoppata sognai di giocare coi miei primi compagni di squadra,
di mostrare loro cosa avevo imparato, di correre, ridere e sentirmi finalmente
libero.
I miei sogni s’infransero non appena misi piede nella piazza dove era
avvenuto il fatidico incontro. Era deserta, solo il pozzo campeggiava nel centro
e le strade intorno erano vuote.
Scesi dalla sella col cuore che martellava e
le lacrime agli occhi. Da buon beduino afferrai la corda alla quale era legato
il secchio e diedi da bere allo stallone, prima di dissetarmi io stesso.
Non
mi accorsi del ragazzo che era sopraggiunto fino a che non vidi la sua grande
ombra allungarsi accanto alla mia. Mi voltai, sorpreso e dovetti sollevare lo
sguardo per incrociare il suo, parecchi centimetri sopra la mia
testa.
"Ciao." Disse, allungando una mano enorme.
Tentennando la strinsi
"Ciao." Risposi.
"Cosa ci fai qui a quest’ora del mattino?" Chiese mentre si
serviva a sua volta d’acqua.
"Ero venuto a giocare a calcio…"
"A calcio?"
Mi fece eco, squadrandomi dall’alto in basso con aria perplessa.
"Sì. L’altra
volta qui c’era gente che giocava e io…"
Un grande sorriso si allargò sul
viso abbronzato "Ma certo che c’erano, ma era di pomeriggio tardi! Qui la gente
di mattina va a lavorare!" e rise, ributtando il secchio nel pozzo "Comunque"
continuò facendomi l’occhiolino "siccome stamane non ho tanta voglia di andare a
scuola, cosa ne dici di fare due tiri con me?"
Ricordo che sentii il cuore
balzarmi in petto ed un sorriso enorme formarsi sulle mie labbra.
"Ma
certo!"
"Bene! Ma prima, presentiamoci! Io mi chiamo Vulcan!"
"Io
Mark!"
Passammo tutta la mattina a giocare nella piazza deserta, utilizzando
un vecchio e malconcio pallone di cuoio, fino a che il mio povero tutore non
riuscì nuovamente a rintracciarmi.
Ridacchio a quel ricordo, espirando e
rilassandomi così da mettere il cavallo al trotto.
Il profilo frastagliato
ora è una forma distinta: basse palazzine candide sono incorniciate da alte
palme. Al centro della piazza un cammello si sta abbeverando al pozzo, accanto a
lui il suo cavaliere mi attende a braccia conserte.
"Vulcan!" Lo saluto,
scendendo al volo dalla sella e togliendo la sciarpa dal viso.
"Ehi, Mark!"
Il suo sorriso è quello di sempre, la mano che mi tende enorme e più abbronzata
ancora di quanto ricordassi, la sua stretta micidiale.
"Ti è mancato il
deserto, eh?"
Sì, mi è mancato.
Mi è mancato avere degli amici, mi è
mancato divertirmi davvero giocando a calcio.
Rosalie aveva ragione: i miei
desideri più belli si sono avverati per tutto fuorché il denaro. No, l’erba
Voglio non cresce neppure nel mio giardino.
Lascio che Kahara si disseti e
comincio a palleggiare con Vulcan.
Con lui, con i miei amici, non sono il
Principe Owairan, solo Mark.
Stavo scordando perché quel pomeriggio di dieci
anni fa decisi che sarei diventato un calciatore…
Sorrido, dribblando il mio
compare che impreca e mi insegue per la piazza, e penso a un paio di grandi
occhi verdi come i prati
d’Inghilterra.