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Autore: eos75    06/10/2008    8 recensioni
...L’Inghilterra: fredda, umida, buia per buona parte dell’anno, verde e rigogliosa più di qualsiasi oasi del deserto. E’ su quei prati verdi e grassi che ho deciso di cominciare seriamente la mia ascesa al calcio professionistico ed è sotto quella pioggia che ho ricordato la mia prima, grande lezione di vita che avevo dimenticata…
Genere: Sportivo, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Mark Owairan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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l'erba voglio

 




Questa storia è arrivata seconda al Terzo Contest di ELF. Grazie a Izumi e Melantò per averlo indetto e per aver giudicato così bene questo mio piccolo lavoro!
Dedicata a Silen, Agatha, Saretta e Only Hope, senza le quali non avrei scritto neppure mezza riga...
Grazie Arpia, la spada di Damocle ha funzionato!XD




Il tenue rosa dell’alba fa impallidire man mano le stelle insinuandosi, lento ma inesorabile, a delineare la linea dell’orizzonte, separando ancora una volta il cielo e la terra.
Vedo la mia ombra allungarsi e correre veloce accanto a me e tutt’intorno l’infinito farsi immenso. La sabbia dorata è un’enorme distesa silenziosa, un oceano apparentemente immobile e letale. Presto il sole sarà alto ed il fresco riposante della notte sarà un sogno lontano.
Alzo la sciarpa candida ad avvolgermi il viso e trattengo un istante il respiro, chinandomi in avanti sulla lunga criniera che mi solletica le mani nude. Sento sotto di me i muscoli tendersi e vedo l’immensità intorno sfuggire ancora più veloce. Gli zoccoli sottili sfiorano il terreno, silenziosi eppure rapidi. E’ come viaggiare trasportato dal vento.
Una duna, poi un’altra ancora, sempre galoppando, liberi come solo un beduino ed il suo cavallo possono esserlo. Padroni di quel mondo ostile che non è riuscito a schiacciarli. Quel mondo che loro amano.
Lancio un’occhiata al cielo sopra le nostre teste, sorridendo per un istante mentre ne ammiro l’azzurro abbagliante che tra poco meno di un’ora sarà tanto intenso da essere abbacinante. Sorrido e, come sempre quando torno a casa, mi coglie l’amore e la devozione che porto a questi luoghi, dove sono nato e cresciuto: il deserto, uno dei luoghi più inospitali del Pianeta, arido, minaccioso, letale. Amo quest’immensità, i suoi silenzi, i suoi segreti.
Lancio uno sguardo d’intorno, cogliendo di sfuggita il profilo regolare delle infinite onde di sabbia, tutte apparentemente uguali, tutte apparentemente immobili, e mi rendo finalmente conto di quanto tutto ciò mi sia mancato. E’ così diverso da dove sono costretto a vivere ora…
Prati verde smeraldo, cieli azzurri d’acquamarina o, più spesso, grigi come il granito e carichi di pioggia.
L’Inghilterra. Mai altro posto potrebbe essere diametralmente opposto a questi luoghi che amo e che con rammarico ho dovuto abbandonare a causa degli studi.
L’Inghilterra: fredda, umida, buia per buona parte dell’anno, verde e rigogliosa più di qualsiasi oasi del deserto.
E’ su quei prati verdi e grassi che ho deciso di cominciare seriamente la mia ascesa al calcio professionistico ed è sotto quella pioggia che ho ricordato la mia prima, grande lezione di vita che avevo dimenticata…



La palla rotolava pesantemente davanti ai miei piedi, adagiandosi con tonfi sordi sul terreno zuppo che ad ogni rimbalzo voleva quasi trattenerla. Pioveva, quella pioggerella continua che inzuppa fino al midollo. La partita era cominciata da neppure un quarto d’ora e già si prospettava uno scontro interessante. I nostri avversari salivano con impeto, sempre dalle fasce laterali nel tentativo di sfruttare la velocità notevole delle loro ali che, alternativamente, tentavano di servire l’unica punta a disposizione, il rosso Edwin Morell. Era uno schema semplice da intuire e disposi la difesa in maniera da bloccare in maniera continuativa almeno uno dei due giocatori esterni, così da potermi occupare personalmente del centro e spostare altri dei nostri sulla fascia che restava semiscoperta.
Nei primi anni trascorsi in Europa avevo deciso che la mia posizione sarebbe stata in pieno attacco, ma col passare del tempo mi ero accorto che il centro della difesa, la regia della squadra, era il posto che mi si confaceva di più.
Morell è un tipo ostinato, poca tecnica e molta buona volontà ed i suoi compagni non sono da meno. Avanzavano contando più sulla potenza fisica che sulle raffinatezze di gioco. Non avevamo nulla da temere, pensai, vincere quella partita sarebbe stato come bere un bicchiere d’acqua. La mia squadra era non solo ben allenata, ma soprattutto composta dai migliori elementi in circolazione nella serie giovanile. E questo, grazie a me. Mio padre aveva preteso che, vista la mia decisione di entrare in un college rinomato per i successi calcistici piuttosto che per i geni della finanza che sfornava, la scuola scelta avesse la possibilità di accogliere i migliori giocatori in circolazione. Così su Sheffield erano fioccate parecchie borse di studio per lo sport e la squadra aveva acquisito diversi giocatori dalle notevoli qualità. Giocare in un ambiente del genere era entusiasmante, oltre che altamente istruttivo. Vincevamo ormai il campionato giovanile da tre anni consecutivi e ci avviavamo verso la conquista del quarto.
La squadra di Bristol era poco più di una formalità.
Morell si fece avanti con la solita espressione severa in viso, i due centrocampisti White e Newmann portarono la palla verso la nostra area effettuando dei passaggi veloci. Il rosso attaccante rallentò la corsa, preventivando il mio scatto che l’avrebbe fatto finire in fuori gioco. "Peccato" pensai ridacchiando fra me "non mi sarebbe dispiaciuto umiliarti per l’ennesima volta!" Nel frattempo corsi sulla fascia destra, prevedendo il passaggio di White al numero otto e intercettando il pallone, rilanciandolo all’istante alla nostra mezza punta, Stevens. Il contropiede ripartì veloce mentre la squadra avversaria ripiegava alla disperata, facendo inutili tentativi per riprendere la sfera che schizzava veloce e precisa tra Stevens, Roy e Brown il quale, effettuando un bel passaggio al volo, servì al nostro numero nove un’eccellente opportunità di andare a rete. La fortuna però quel pomeriggio non voleva essere dalla nostra: la sfera sfiorò la traversa, finendo sul fondo.
Morell tornò alla carica ma vanificai personalmente ogni suo scambio con gli altri due attaccanti, annientando il suo ridicolo dribbling. Partii io stesso alla volta della porta avversaria, scansando senza nessuna difficoltà i miseri tentativi di arrestare la mia corsa. Triangolando velocemente con Stevens mi trovai nell’area avversaria. Battere Cooper fu come rubare le caramelle ad un bimbo.
Tornai nella nostra metà campo passando di proposito accanto al capitano della squadra avversaria, squadrandolo dall’alto in basso. Lo vidi stringere i pugni, serrare convulsamente le mascelle e non potei trattenere un ghigno soddisfatto. Quel ragazzotto senza un minimo di talento aveva avuto la faccia tosta di sfidarmi, scommettendo che avremmo perso la partita contro quella specie di squadra che si trovava a comandare. Meritava una sonora lezione.
Il fischio dell’arbitro che ridava il via alla partita fu quasi sovrastato dalle urla del pubblico ma una voce su tutte attirò la mia attenzione, quella acuta e argentina di una ragazza bionda che si sbracciava da dietro la panchina del Bristol. Lei era il secondo motivo per cui dovevo assolutamente ottenere una vittoria schiacciante.
Rosalie Raynolds.
L’avevo incontrata qualche settimane prima ad una festa e da subito aveva acceso il mio interesse. Non solo era decisamente attraente, con la pelle chiara tipica delle ragazze del nord Europa, i capelli d’una particolare sfumatura d’oro e gli occhi verde acqua, grandi e ben disegnati, ma aveva dimostrato di possedere anche un’intelligenza vivace, dote rara e quasi mai riscontrata nelle mie frequentazioni galanti.
L’avevo invitata a ballare ed aveva accettato, seppur tenendosi molto sulle sue, ma io non sono tipo da arrendermi facilmente anzi, le difficoltà stimolano il mio entusiasmo.
Mi era sfuggita prima che potessi estorcerle il numero di telefono ma quello era un piccolo inconveniente al quale avevo rimediato in pochissimo tempo; il mio nome apre molte porte e, soprattutto, molte agende con indirizzi alquanto interessanti...
Le inviai una rosa, bianca, poi un'altra, e così via per una settimana intera. Al settimo giorno le feci recapitare un mazzo intero di fiori rossi, con un invito a cena in uno dei ristoranti più esclusivi della città.
La sera stessa mi trovai davanti a casa sua, puntuale. Quando uscì dalla porta dovetti fare uno sforzo per trattenermi: indossava una semplice tuta sgualcita e le scarpe da tennis, i capelli erano raccolti in una coda disordinata e semi sfatta. Lanciò una lunga occhiata alla mia Ferrari, quindi il suo sguardo si puntò direttamente nel mio.
"E questo cosa vorrebbe dire, Owairan?" Non mi chiamò "principe" come facevano ormai tutti ma utilizzò il mio cognome, pronunciandolo con malcelato disprezzo.
Mi allontanai dall'auto, fermandomi a pochi passi, fronteggiando la ragazza e non potei fare a meno di notare nuovamente quanto fosse graziosa anche in abiti così dimessi.
"Mi pareva avessimo un appuntamento per cena, cara. O forse non ti è giunto il mio invito?" Alla mia ironia rispose stringendo gli occhi da gatta "Ho ricevuto l'invito, ma non mi pare di avere risposto in maniera affermativa. Anzi! Non mi pare di avere proprio risposto! Quindi, non vedo cosa tu ci faccia qui!"
Sollevai un sopracciglio di scatto ed incrociai le braccia al petto, impedendomi di commettere un gesto che certo non sarebbe stato cavalleresco. Quella sciocca ragazzina stava prendendo in giro me! Come si permetteva?!
"Non credevo ci fosse bisogno di ricevere una risposta affermativa. Mi pareva assolutamente chiaro che saresti uscita con me, stasera."
Fece un passo ed arrivò praticamente a sfiorarmi, guardandomi dal sotto in su "Mio caro principino, non è che perché mi hai fatto una corte serrata per una settimana, inviando rose e belle parole io debba per forza uscire con te! Non è che perché ti presenti davanti alla misera dimora in un'auto che Dio solo sa cosa costa, io debba cadere ai tuoi piedi! Non ti ho degnato di una risposta, vuol dire, evidentemente, che non ho nessuna intenzione di uscire con te!"
Rimasi esterrefatto da quelle parole. Nessuna, mai nessuna aveva rifiutato un mio invito!
"Come ti permetti!? Ma chi ti credi di essere, stupida ragazzina?!" Non riuscii a terminare la frase, piantò le mani ai fianchi e fece un altro passo, sorprendendomi e costringendomi ad arretrare "Chi ti credi di essere tu! Solo perché ti sei comprato tre quarti di scuola coi tuoi dannatissimi soldi, non è detto che tutti siano disposti a farsi comprare da te! Non puoi credere di ottenere tutto ciò che vuoi col denaro! Volevi me? Beh, io non sono in vendita!" Detto questo girò sui tacchi senza darmi tempo di controbattere e mi sbatté la porta in faccia.
Ero furioso, letteralmente furioso. Nessuno si era mai permesso di umiliarmi a quel modo!
Inoltre, il giorno seguente, durante gli allenamenti, ci fece visita Morell. Era evidentemente alterato e quando terminammo mancò poco che strappasse il cancello del campo dai cardini per entrare.
"Owairan!" sibilò a denti stetti, venendo avanti a pugni chiusi con un'aria tanto minacciosa che le mie guardie personali fecero per bloccarlo. Li fermai con un gesto, incuriosito dall'atteggiamento di quello sconosciuto che mi chiamava per nome.
Intanto il rosso si era portato a pochi metri da me e mi fissava con aria torva.
"Non ho il piacere di conoscerti. Il tuo nome, prego?" mi avvicinai a mia volta con disinvoltura, lanciando però un avvertimento alle guardie con uno sguardo d'intesa.
"Non osare mai più avvicinarti a lei!"
"Lei?" ripetei corrugando la fronte, perplesso.
"Rosalie."
"Ah." Era spiegato l'arcano: lo sconosciuto doveva essere l'amichetto della ragazzina impertinente.
"Vedi di starle alla larga, capito?"
Sospirai, dandogli le spalle "Prima o poi cederà. Lo fanno tutte. E' solo questione di tempo." Non avevo intenzione di mollare la presa. Non ero mai stato rifiutato e per il mio orgoglio era uno smacco incredibile. Ci avevo pensato a lungo ed alla fine avevo trovato la soluzione: era ovvio, con lei non bastavano pochi giorni e qualche rosa. Servivano tempo, pazienza e, soprattutto, soldi. Presto o tardi le avrebbero fatto gola, ed allora avrei goduto del mio premio.
"Rose non è come le altre! Lei non è come tutti quelli di cui ti circondi che ti vengon dietro solo perché sei ricco sfondato!" così dicendo lanciò un'occhiata eloquente alla mia squadra.
Azzerai la distanza tra noi due in poche falcate e lo fulminai "Sbaglio o non mi hai ancora detto chi sei, caro signor sputasentenze?"
"Edwinn Morell."
In quell'istante ricordai dove l'avevo già visto e perché il suo viso mi fosse vagamente famigliare. Ricordai anche con che squadra avremmo giocato la settimana successiva e gli scoppiai a ridere in faccia.
"Oh oh, signori! Il capitano del Bristol, nonché terzultima classificata in campionato! Non vi sta andando molto bene la stagione, eh, Morell? Forse avreste bisogno di qualche giocatore nuovo..."
Divenne livido mentre gli altri si univano alla mia risata "Vedremo, Owairan! Vedremo sul campo cosa conta davvero!"
Mi voltai, sempre ridacchiando "E cosa mi dimostrerai? Che la tua squadretta è in grado di batterci? Continua a sognare!" Feci per allontanarmi, ma mi fermai, colpito da un'idea "Settimana prossima Rosalie avrà l'ennesima dimostrazione che ha sbagliato comportandosi come ha fatto!"
"Ti ho detto di lasciarla in pace" ringhiò ancora l’altro, stringendo i pugni pericolosamente.
"Ok, ok." Acconsentii mentre mi avvicinavo di nuovo "Mettiamola così: se voi riuscite a segnarci anche solo un gol, rinuncerò ad ogni tentativo con lei. Anche se doveste perdere. Basta un gol."
"Ok," annuì "un gol e ti leverai dai piedi. Peccato che non ne prenderete solo uno!"
Di nuovo scoppiai a ridere, dandogli definitivamente le spalle per mettere in chiaro che la discussione era chiusa "Non dirmi che pensate di vincere?! Questa sì che è bella! Grazie, Morell, ti devo un favore! Avevo proprio bisogno di una battuta come questa per rallegrarmi la giornata!"
Sentii che si allontanava, sibilando qualcosa come un: "Vedremo" che m’aveva fatto sorridere.
Come avevo pronosticato la partita stava volgendo al meglio per noi. Dopo la prima rete, segnata a pochi minuti dallo scadere del primo tempo, tenemmo il gioco senza nessuna fatica, impedendo agli avversari anche solo di sfiorare la nostra area. Rientrammo in campo per la ripresa che la pioggia s’era fatta più consistente ed il campo evidentemente più insidioso. Nonostante tutto, l’ordine era di segnare almeno altri due goal. Volevo insegnare cosa fosse il rispetto a quell’attaccante da strapazzo. Il rientro degli avversari mi sorprese: sorridevano, si scambiavano battute e avevano l’aria del tutto rilassata. "Per forza" pensai "sono abituati a perdere!" Eppure tutta quell’allegria mi mise a disagio.
Ripartimmo con vigore, Stevens e Roy in avanti, il resto della squadra direttamente alle loro spalle, pronta ad intercettare un eventuale contrattacco. I nostri movimenti erano precisi e veloci, il Bristol non ci stava dietro né come rapidità, né come tecnica. Roy servì uno splendido assist alla nostra punta, un’occasione favolosa che venne però vanificata dal salvataggio in extremis di Custer, il quale rilanciò mettendo in moto l’attacco avversario. Mi trovai nuovamente davanti Morell e di nuovo gli diedi una lezione di tecnica, lasciandolo a terra, ubriacato dal mio dribbling. Brown ricevette il mio passaggio ma ancora fummo fermati dalla difesa avversaria che si serrava. Ripeterono il solito schema, con i laterali che salivano rapidi sulle fasce. Senza aspettare che arrivassero a servire il loro capitano, avanzai e rubai palla, correndo da solo a segnare la seconda rete. Morell rientrò, sorprendendomi, e mi affrontò. Lo scavalcai, senza degnarlo di uno sguardo, tirando direttamente in porta. Cooper era spiazzato ma il loro numero cinque era in traiettoria e deviò. Mi accorsi solo in quell’istante che Stevens era in posizione migliore della mia…
Il rinvio giunse direttamente sui piedi del capitano del Bristol. Ordinai ai difensori di chiuderlo, di marcare le ali ma lo schema era cambiato: Morell avanzava triangolando continuamente con i numeri dieci ed undici, imitando la nostra tecnica d’attacco e arrivando così in area. Parker, costretto ad uscire, si trovò battuto. Uno a uno, eravamo pari e stavo perdendo la mia scommessa.
Ero furibondo.
Ricominciammo, più determinati che mai a non farci battere da quella squadra di pezzenti ma sembrava ormai che ogni nostra tattica fosse inutile. Gli avversari reagivano ai nostri assalti come fossero stati un tutt’uno, coordinandosi tra loro perfettamente, sopperendo agli errori dell’uno con la buona volontà, il coraggio, la velocità dell’altro. Non riuscivamo più ad avanzare e, quel che era peggio, non riuscivamo più ad essere pericolosi in attacco.
Udii urlare degli ordini dalla panchina: più di metà del secondo tempo era andata, il terreno non era favorevole e un pareggio era più che sufficiente, inutile correre rischi…
La mia rabbia crebbe ancor di più: quel pareggio per me significava sconfitta.
"Andiamo, ragazzi!" urlai "Non vorremo accontentarci di un pareggio con gli ultimi in classifica!"
Roy mi passò accanto mentre tornava in posizione e mi sorrise intanto che s’asciugava il viso con una mano "Dai capitano, il mister ha ragione! Tanto siamo primi lo stesso!"
Serrai il pugno e presi la mia decisione, sfidando ancora una volta Morell con lo sguardo.
Non passarono trenta secondi che l’ebbi davanti. Il campo era ormai un pantano ed il pallone difficile da governare, soffiarglielo fu uno scherzo. Feci per avanzare ma mi ritrovai a terra: concentrato com’ero su Edwin non avevo visto sopraggiungere un suo compagno da dietro. Mi rialzai e la situazione fu subito chiara ai miei occhi. Gridai due ordini secchi mentre correvo indietro. Marvel e Lion erano spiazzati, Parker praticamente solo ad affrontare due avversari. Cieco di rabbia e frustrazione, mi lanciai in scivolata su Morell ma ero in ritardo ed avevo calcolato male i tempi. Il fischio dell’arbitro mi aprì gli occhi sull’errore madornale che avevo commesso: era rigore.
Mezz’ora dopo, negli spogliatoi, il silenzio era glaciale. Se qualcuno aveva osato sussurrare il suo scontento, era stato fulminato da una mia più che eloquente occhiataccia.
Avevamo perso.
Avevo perso.
Era la prima volta ed il sapore della sconfitta era amaro più di quel che credessi.
Fuori incrociammo i nostri avversari, vocianti ed euforici. Non potei fare a meno di notare tra loro il riflesso dorato di una fluente chioma bionda: Rosalie era in mezzo a loro e scherzava con Edwin, scompigliandogli i capelli ancora bagnati. La udii scherzare e i ragazzi intorno controbattere allegri "Adesso paghi da bere, cugino! Accidenti, li hai stracciati!" rise.
"Cosa non si fa per difendere l’onore della cuginetta adorata, eh capitano?"
"Gli abbiamo dato una bella lezione!" continuò un altro mentre si avvicinavano all’uscita dove mi ero fermato ad ascoltarli.
Rose si accorse di me e, contro ogni mia aspettativa, mi sorrise, restando appesa al braccio di colui il quale avevo ormai capito essere niente altri che suo cugino "Toh, il nostro principino!" mi apostrofò "Allora, Principe Owairan, hai capito finalmente che con tutto il denaro del Mondo certe cose non si comprano?"
Sollevai un sopracciglio, irritato e sistemai la sacca sulla spalla con un gesto meccanico "Tutto ha un prezzo, mia cara. Convengo che dipende dall’onestà dell’acquirente decidere cosa o chi sia lecito comprare…"
Lei scosse il capo, stringendo le labbra e la vidi serrare il braccio di Morell che stava per scattare, sul viso un’evidente stizza.
"L’amicizia non si compra e non ha prezzo. E neppure l’onestà e l’amor proprio l’hanno." Sentenziò, puntando il suo sguardo verde smeraldo dritto nel mio "Puoi desiderare un mucchio di cose, ne puoi comprare un buon numero è vero e te ne do atto. Ma non puoi avere tutto ciò che ti aggrada. Sai, dalle mie parti esiste un detto: l’erba Voglio non cresce neppure nel giardino del Re." Sorrise nuovamente passandomi accanto "Me lo ripetevano spesso quand’ero piccola. Pensaci. Non hai più l’età per fare il bimbo capriccioso…"



Il cielo è ormai azzurro sopra di noi ed i raggi del sole cominciano a scaldare la sabbia che scivola veloce sotto gli zoccoli affusolati del mio stallone.
Un bimbo capriccioso…
Sorrido dietro la sciarpa e ripenso a un tempo che credevo dimenticato: non sono più un bimbo, e neppure un bimbo capriccioso, anche se in un lontano passato lo sono stato.
Vedo una sagoma frastagliata interrompere la linea regolare dell’orizzonte e chiedo a Kahara di affrettare il passo.
Avevo otto anni la prima volta che venni qui. Ero fuggito a dorso di un cammello dalla gabbia dorata del palazzo di mio padre. Non avevo amici là, solo servitori e consiglieri, tutta gente che stava con me ed esaudiva ogni mio più piccolo desiderio solo perché nelle mie vene scorre sangue reale.
Avevo bisogno di aria.
Giunsi in un piccolo villaggio costruito ai margini di una grande oasi e subito m’imbattei in un gruppo disomogeneo di persone che giocavano a calcio.
Mi misi d’un canto ad osservarli, stando bene attento a tenere il cammello perché non fuggisse, e vidi quanto quella gente si stava divertendo. Li invidiai non poco e desiderai di essere dei loro ma non avevo mai giocato e non mi azzardai a chiedere.
D’un tratto, un uomo piuttosto corpulento e dal sorriso gentile mi si fece vicino "Ehi, tu, ragazzino! Ti andrebbe di giocare?"
Non me lo feci ripetere due volte.
All’inizio mi trovai spiazzato, disorientato, gli altri mi rubavano la palla con una facilità incredibile eppure quel gioco mi piaceva. Poi, quando afferrai il meccanismo e riuscii per la prima volta a conquistare il pallone ed a tenerlo, cominciai davvero a divertirmi. Me la cavavo bene, anzi! L’uomo di prima mi disse che ero davvero bravo.
A riprova di quelle parole, pochi secondi dopo finii a terra, senza sfera e con una sbucciatura alle ginocchia.
"Ehi, ragazzo!" mi gridò un tipo grosso che era dei nostri "Il calcio è un gioco di squadra! Passala quella palla, guardati in giro!"
Ascoltai quel consiglio e capii: ciò che cercavo era lì, intorno a me. Amici. Amici veri, non gente consenziente comprata col denaro di mio padre.
Purtroppo il divertimento finì presto, il mio tutore mi rintracciò ma prima che mi portasse via diedi un ultimo calcio a quel pallone e mi voltai sorridente verso Al-Zico, dichiarando convinto: "Mi sono divertito un mondo! Diventerò un calciatore!"
Ero un bimbo capriccioso e, ora mi rendo conto, molto viziato.
Mio padre dapprima osteggiò la mia decisione poi, vinto dalla mia testardaggine, decise di assecondarmi, sperando fosse una semplice mania fanciullesca.
Mi fornì un campo, un allenatore e, infine, una piccola squadra.
Ma non ero felice.
I continui "Sì, principino." "Certo, altezza." E così via, mi urtavano. Non mi divertivo, ero punto e a capo.
Una mattina presi il padre di Kahara dalle scuderie e fuggii via, diretto al villaggio. Durante la lunga galoppata sognai di giocare coi miei primi compagni di squadra, di mostrare loro cosa avevo imparato, di correre, ridere e sentirmi finalmente libero.
I miei sogni s’infransero non appena misi piede nella piazza dove era avvenuto il fatidico incontro. Era deserta, solo il pozzo campeggiava nel centro e le strade intorno erano vuote.
Scesi dalla sella col cuore che martellava e le lacrime agli occhi. Da buon beduino afferrai la corda alla quale era legato il secchio e diedi da bere allo stallone, prima di dissetarmi io stesso.
Non mi accorsi del ragazzo che era sopraggiunto fino a che non vidi la sua grande ombra allungarsi accanto alla mia. Mi voltai, sorpreso e dovetti sollevare lo sguardo per incrociare il suo, parecchi centimetri sopra la mia testa.
"Ciao." Disse, allungando una mano enorme.
Tentennando la strinsi "Ciao." Risposi.
"Cosa ci fai qui a quest’ora del mattino?" Chiese mentre si serviva a sua volta d’acqua.
"Ero venuto a giocare a calcio…"
"A calcio?" Mi fece eco, squadrandomi dall’alto in basso con aria perplessa.
"Sì. L’altra volta qui c’era gente che giocava e io…"
Un grande sorriso si allargò sul viso abbronzato "Ma certo che c’erano, ma era di pomeriggio tardi! Qui la gente di mattina va a lavorare!" e rise, ributtando il secchio nel pozzo "Comunque" continuò facendomi l’occhiolino "siccome stamane non ho tanta voglia di andare a scuola, cosa ne dici di fare due tiri con me?"
Ricordo che sentii il cuore balzarmi in petto ed un sorriso enorme formarsi sulle mie labbra.
"Ma certo!"
"Bene! Ma prima, presentiamoci! Io mi chiamo Vulcan!"
"Io Mark!"
Passammo tutta la mattina a giocare nella piazza deserta, utilizzando un vecchio e malconcio pallone di cuoio, fino a che il mio povero tutore non riuscì nuovamente a rintracciarmi.
Ridacchio a quel ricordo, espirando e rilassandomi così da mettere il cavallo al trotto.
Il profilo frastagliato ora è una forma distinta: basse palazzine candide sono incorniciate da alte palme. Al centro della piazza un cammello si sta abbeverando al pozzo, accanto a lui il suo cavaliere mi attende a braccia conserte.
"Vulcan!" Lo saluto, scendendo al volo dalla sella e togliendo la sciarpa dal viso.
"Ehi, Mark!" Il suo sorriso è quello di sempre, la mano che mi tende enorme e più abbronzata ancora di quanto ricordassi, la sua stretta micidiale.
"Ti è mancato il deserto, eh?"
Sì, mi è mancato.
Mi è mancato avere degli amici, mi è mancato divertirmi davvero giocando a calcio.
Rosalie aveva ragione: i miei desideri più belli si sono avverati per tutto fuorché il denaro. No, l’erba Voglio non cresce neppure nel mio giardino.
Lascio che Kahara si disseti e comincio a palleggiare con Vulcan.
Con lui, con i miei amici, non sono il Principe Owairan, solo Mark.
Stavo scordando perché quel pomeriggio di dieci anni fa decisi che sarei diventato un calciatore…
Sorrido, dribblando il mio compare che impreca e mi insegue per la piazza, e penso a un paio di grandi occhi verdi come i prati d’Inghilterra.







   
 
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