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Autore: Heartless Girl    27/09/2014    2 recensioni
One-shot nata dal seguente esercizio di scrittura: scrivi una one shot ambientata in una scuola, dove il narratore è il professore di latino che vede nascere e svilupparsi una storia d’amore.
Dal testo:
-C’è qualcun altro, Ellis? – lunga pausa. Giulia sapeva sempre su quale tasto premere, senza dubbio.
-Forse. –
-Che vuol dire forse? –
-Che non ne sono sicura. – stavolta fu Giulia a restare un po’ in silenzio.
-Ok. Mi dici chi è? –
-Non posso. –
-Non puoi o non vuoi? –
-Entrambe le cose. -
Spero di avervi incuriositi, buona lettura...
Genere: Comico, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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One-shot non poi così breve, nata dal seguente esercizio di scrittura: scrivi una one shot ambientata in una scuola, dove il narratore è il professore di latino che vede nascere e svilupparsi una storia d’amore. Buona lettura a tutti :)

Let me love you

Cominciò tutto il giorno che vidi un cardellino nel cortile della scuola. Mi chiesi cosa ci facesse lì, un cardellino, e anche come facessi a sapere che era un cardellino. Possibile che andando a scuola tutti i giorni avessi imparato qualcosa? Rimasi fermo a guardarlo per un po’, chiedendomi che cosa mi ricordasse. A volte me lo chiedo ancora. So solo che in seguito mi fu molto utile, quel cardellino. Fatto sta che scesi dalla bicicletta e come ogni ripetitiva mattina dei giorni da lunedì a sabato, escluso il venerdì, dei mesi da settembre a giugno cercai nella valigetta il catenaccio e la legai al portabici. Sentii i freni di un’altra bici stridere sulla ghiaia del viale che portava a scuola e un secondo dopo il veicolo si arrestò accanto a me. Ne scese una diciassettenne dai lunghi capelli biondi e gli occhi di un indefinibile verde-azzurro che conoscevo molto bene. Elisabetta, la mia giovane vicina di casa, mi rivolse un ampio sorriso. Come diavolo faceva a essere così allegra alle otto meno venti del mattino? –Buongiorno prof! Ha passato un buon weekend? – mi salutò mentre legava la bici. –Buongiorno Elisabetta, tutto bene grazie. E tu? – lei alzò le spalle, sempre sorridendo. –Al solito, prof. In casa a studiare. – mi fece l’occhiolino e non riuscii a trattenere un sorriso, dato che sapevamo entrambi che non era vero. –Dovresti smetterla di chiamarmi prof, sai. – dissi distrattamente aprendole la porta. In effetti mi aveva sempre chiamato così, anche se non ero mai stato il suo professore, ed era diventato quasi un soprannome per lei ormai. Infatti ridacchiò. –È più forte di me, prof. Ci vediamo. – ricambiai il cenno che mi aveva fatto con la mano e raggiunsi alcuni colleghi, osservandola di sottecchi correre verso le amiche. Ripensai a quando da piccola veniva a giocare a basket nel cortile di casa mia, e mi sentii più vecchio dei miei quarant’anni. –Ehi, a che stai pensando? – mi chiese qualcuno, forse quel matto del professore di matematica del biennio. –Ai cardellini. – risposi. Ehi, chi l’ha detto che solo i prof di matematica possono essere matti? Anche noi col latino non scherziamo. Per non parlare di filosofia...

Prima ora, latino in quarta ginnasio. Mentre entravo in classe decisi di non interrogare, perché era una settimana che li tenevo sotto con il congiuntivo perfetto, ormai lo avevano imparato, ma soprattutto perché non ne avevo voglia. Le due ore successive le trascorsi nel silenzio tombale che dominava l’aula durante una versione, in particolar modo nelle classi del triennio. Per quell’anno ne avevo solo una, la seconda B, tranquilla, laboriosa, unita, tra quelle che mi sarebbe dispiaciuto salutare ma che non avrei fatto fatica a dimenticare. Quando suonò la campana dell’intervallo, alcuni studenti avevano già consegnato e stavano aspettando fuori dall’aula. Aprii la porta e mi appoggiai sulla soglia, mi toccava la sorveglianza del piano quel giorno. Lasciai girare lo sguardo intorno, rivolgendo un cenno alla collega di inglese. La mia attenzione fu catturata dal sorriso di saluto che Elisabetta mi rivolse mentre si dirigeva verso un’amica. La riconobbi, si chiamava Giulia, era proprio nella mia seconda B, quel giorno una delle prime a consegnare la versione. Una buona studentessa, intelligente e dalla curiosità vivace, a volte un po’ chiacchierona, e una bella ragazza dai grandi occhi nocciola e lunghi capelli castani che si mischiarono alle ciocche chiare di Elisabetta quando si abbracciarono. Migliori amiche, era evidente. Sempre insieme, pur essendo in classi diverse. Ed entrambe rappresentanti di classe, ricordai mentre mi si avvicinavano. –Come posso fare per voi, ragazze? – chiesi anticipandole. –Volevamo chiederle di accompagnarci in gita, prof. – esordì Elisabetta con un mezzo sorriso di supplica. –Io accompagno già la seconda B. – risposi calmo accennando col capo in direzione di Giulia. –Volevamo organizzare una gita congiunta, prof. Potremmo risparmiare sul costo dell’autobus, e poi ovviamente pensiamo che potrebbe essere più divertente... – cominciò a spiegare lei girandosi una ciocca di capelli sulle dita, come faceva sempre anche quando la interrogavo. Elisabetta rimase abbastanza silenziosa. Mentre l’amica parlava, la osservava con sguardo assorto, girando solo ogni tanto gli occhi su di me annuendo. Acconsentii alla loro proposta e Elisabetta parve riscuotersi, per poi rivolgermi un sorriso sempre in silenzio. Trovai questo comportamento insolito. Era venuta alcune volte a parlare con me insieme all’altro rappresentante della sua classe, in genere interveniva molto, sempre guardandomi negli occhi, cosa non comune tra gli studenti. Giulia mi ringraziò e si allontanarono discutendo ancora della gita, prevista per la settimana successiva. Sospirai. Chissà chi erano gli altri accompagnatori. Il viaggio in pullman era abbastanza lungo, e sperai di non doverlo trascorrere a fianco di qualche collega come il prof di matematica del biennio. Sarebbe stato capace di chiedermi dei cardellini.

Ebbi fortuna. Ad accompagnare la seconda B con me c’era la professoressa di educazione fisica, mentre la classe di Elisabetta era sotto la tutela dell’anziano prof di scienze e di Lucia Garretti. Lucia era la mia collega preferita. Insegnava latino, come me, e greco al biennio, che era il suo dominio. Gli studenti l’adoravano, riusciva sempre a coinvolgerli nonostante la difficoltà delle sue materie. Trentacinque anni portati con stile, due occhi castani luminosi e una chioma inspiegabilmente bionda, sempre sui tacchi nonostante la bici, la neve, l’altezza nella media. Era solare, acuta e, quel che apprezzavo più di tutto, autoironica e modesta. Mi rallegrava sempre la giornata. Sedette accanto a me con un sorriso quando lasciammo il parcheggio della scuola alle sei e mezza del mattino (orario deciso da Elisabetta, quella pazza) e passai le due ore di viaggio a chiacchierare piacevolmente con lei, girandomi di tanto in tanto a controllare i ragazzi. Quando la ringraziai sorridendo per avermi tenuto compagnia, arrossì. Timida come sempre. A mezzogiorno ci fermammo con i ragazzi in un parco per lasciarli mangiare il pranzo che si erano portati. Radunammo i rappresentanti di classe, avvisandoli che saremmo andati a mangiare in un ristorante lì vicino. Mi beccai un’occhiata maliziosa di Elisabetta mentre mi allontanavo con Lucia, e la lasciai mentre divideva un pacchetto di patatine con Giulia.
Al ritorno Lucia ricevette una telefonata che la tenne impegnata quasi un’ora, e pochi minuti dopo mi accorsi che si era addormentata. Mi chinai sulla borsa per recuperare il giornale, gettando un’occhiata in direzione dei ragazzi. Erano ormai abbastanza stanchi, alcuni sonnecchiavano, la maggior parte chiacchierava con il vicino. Notai che Elisabetta e Giulia erano proprio sul sedile dietro il mio, ognuna con una cuffietta nell’orecchio, la testa di Giulia sulla spalla di Elisabetta. Aprii una pagina a caso del giornale, ascoltandole senza sapere bene perché.
-Alex non mi ha più richiamata. –                                                                                    
-Allora lascialo perdere, Giuls. È un idiota. –
-O forse io non sono abbastanza carina. –
-Sciocchezze. Tu sei bellissima. – la risata soffocata di Giulia mi arrivò appena.
-Grazie, Ellis. E tu invece, come va con Luca? –
-Mi ha chiesto di uscire. –
-E...? –
-E niente. –
-Come niente? Che gli hai detto? – breve pausa. La mia attenzione era tanto inopportuna quanto completa.
-Gli ho detto che non mi sento pronta per uscire con nessuno. –
-E perché? –
-Perché è vero. –
-Non sarà ancora per...? –
-No, Giuly, no. Lo sai che non era così importante. –
-E allora cosa ti spaventa? – la dolcezza con cui venne posta quella domanda era tale che non riuscii a impedirmi di sorridere. Ero anche molto curioso di sentire la risposta. Conoscevo bene i genitori di Elisabetta e sapevo che non aveva mai avuto una storia seria con un ragazzo.
-Niente. È solo che non me la sento. –
-C’è qualcun altro, Ellis? – lunga pausa. Giulia sapeva sempre su quale tasto premere, senza dubbio.
-Forse. –
-Che vuol dire forse? –
-Che non ne sono sicura. – stavolta fu Giulia a restare un po’ in silenzio.
-Ok. Mi dici chi è? –
-Non posso. –
-Non puoi o non vuoi? –
-Entrambe le cose. E ora smettila con questo interrogatorio e sdraiati, stai sbadigliando da mezz’ora. – alzai lo sguardo nello specchietto retrovisore dell’autista per vedere Giulia che lasciava scivolare la testa in grembo a Elisabetta e chiudeva gli occhi. Lei si chinò a baciarle la guancia.
-Ti sveglio quando arriviamo. –
-Ok. Ti voglio bene, Ellis. –
-Anche io Giuls. –
Sorrisi. Lucia si mosse nel sonno e il suo capo scivolò sulla mia spalla. Per la restante ora di viaggio non osai muovermi per non svegliarla. Lo stesso fece Elisabetta, per non svegliare Giulia.

Rividi il cardellino un mercoledì mattina, alla terza ora, che di solito dedicavo al ricevimento genitori, ma dato che questo sarebbe ripreso solo il mese successivo, preferii rifugiarmi nella biblioteca. Il liceo disponeva di questa biblioteca abbastanza grande e ben fornita. Era grande più o meno quanto un paio di aule normali, con alcune finestre affacciate  nel cortile di fronte all’ingresso e gli scaffali disposti a formare lunghi corridoi intervallati da piccoli tavoli per la consultazione. All’entrata c’era la scrivania del bibliotecario, sempre gentilissimo, e qualche altro tavolo in genere occupato dalle copie consunte dei dizionari di greco e latino a disposizione degli studenti. Ero appunto seduto a uno di questi e osservavo distrattamente fuori dalla finestra, quando vidi il familiare uccellino zampettare intorno. Non posso giurare che fosse sempre quello, ovviamente, ma riconoscerlo mi fece sorridere. Lucia entrò in quel momento, l’immancabile valigetta nera alla mano, e mi rivolse un sorriso stanco. –Ciao Stefano. – le scostai la sedia di fronte a me, e vi sedette con grazia. –Mi cercavi? – chiese abbassando lo sguardo. –Sì, volevo sapere se potevi sostituirmi giovedì alla quarta ora, devo andare dal dentista. – la vidi sospirare leggermente e me ne chiesi il motivo. Ma poi tornò a sorridermi. –Certamente. – rispose. Ricambiai il sorriso cercando lo sguardo penetrante dei suoi begli occhi castani. –Però vorrei chiederti un favore. – annuii. Lucia si riportò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, accarezzandola con le dita sottili. –Starò via un paio di giorni nel weekend, e devo correggere un esercizio di scrittura che ho assegnato ad alcuni studenti del triennio. Sai, per il corso che la scuola organizza al pomeriggio. Deve consegnare solo una ragazza ancora, posso dirle di affidare il lavoro a te? – annuii ancora, a quanto pareva avevo trovato qualcosa per riempire il fine settimana. Lucia si allungò sul tavolo a darmi una pacca sul dorso della mano. –Grazie mille, Stefano. – le sorrisi. Sapevo bene quanto le dispiacesse mancare a un impegno. –Figurati, è un piacere. – Mi chiesi chi fosse la ragazza del corso di Lucia.

-Mattioli, lo sai che “interrogazione orale” non significa che devi metterci un’ora per rispondere? – chiesi cinico. Tenni lo sguardo fisso sul ragazzo mentre i compagni ridevano. Fu salvato dal suono della campana, ma dovette comunque avvicinarsi per sapere la sua condanna. –Beh Francesco, se vai avanti così un quattro non te lo leva nessuno. Facciamo che ti risento domani, con una versione non copiata magari. – lo guardai fisso mentre annuiva scontento. Quel quartino stava tirando un po’ troppo la corda. Mi avviai verso l’aula insegnanti pensando che dovevo preparare la lezione di filosofia per la prima A. Sospirai, entrando nella stanza. C’era solo quella strega della bidella nei paraggi. Di solito a quell’ora mi prendevo un caffè con Lucia...ricordai  improvvisamente che dovevo andare in biblioteca per incontrare la sua allieva. Raccolsi in fretta le mie carte e mi fiondai giù dalle scale, pensando che un caffè mi ci voleva proprio. E forse qualche buon farmaco per la memoria. Quando dico che i professori di latino sono matti non scherzo. Insomma, come è possibile ricordare a memoria mezzo dizionario di latino e dimenticare cosa si è mangiato al mattino? Mi fermai un istante per ricompormi davanti alla porta della biblioteca, passandomi una mano tra i capelli. Di sicuro l’ultima persona che mi aspettavo di vedere in biblioteca era Elisabetta, anche se un po’ ci avevo sperato. Fatto sta che ad attendermi c’era proprio lei, seduta comodamente accanto a uno dei tavoli. Mi salutò con un sorriso che le fece brillare gli occhi cristallini. –Salve prof! –
-Ciao Elisabetta, spero mi scuserai per il ritardo. –
-Oh, non si preoccupi. La prof Garretti mi ha detto di consegnare a lei il mio lavoro. –
-Sì, puoi darlo a me. – mi allungò una cartellina azzurra sul tavolo. –Di cosa si tratta di preciso? – chiesi. Sapevo che al corso Lucia generalmente assegnava un tema ai ragazzi, che poi dovevano scrivere le loro riflessioni al riguardo. Ogni tanto mi aveva fatto leggere alcuni di quei lavori, che avevo trovato davvero belli. Al liceo classico ci sono sempre certe teste...
-Dovevamo parlare di cosa significhi per noi essere incompresi. Ha presente, sono un genio e nessuno se ne accorge eccetera... – disse enfatizzando il concetto con un gesto delle mani. Risi. –Capisco. Cercherò di restituirtelo in alcuni giorni. –
-Non si preoccupi prof, nessuna fretta. Lo legga con attenzione. E le sarei grata se non lo divulgasse. – annuii, tornando serio. Elisabetta raccolse lo zaino e si avviò verso la porta. La fermai richiamandola sulla porta. –Puoi darmi del tu, Elisabetta, lo sai. – le dissi. Lei rise, scostandosi i capelli chiari dalla fronte. –Va bene. Se lei mi chiama solo Elisa, però. – mi regalò un altro sorriso e se ne andò. Con la prima A improvvisai la lezione perché avevo passato l’ora con il naso infilato dentro la cartellina blu di Elisabetta, anzi Elisa, con un cardellino che mi osservava di tanto in tanto.

Venerdì mattina andai a pescare con Luigi, il padre di Elisabetta. Era una nostra tradizione da tanto tempo, da quando avevamo frequentato l’università. Dopo, strade diverse, ma case affiancate, e un’amicizia che non ne voleva sapere di morire. Fatto di cui eravamo entrambi piuttosto contenti.  Per nessuna ragione avremmo rinunciato alle nostre battute di pesca del venerdì mattina, alcune ore rilassanti passate tra una chiacchiera e un aneddoto, piene di quei silenzi né pesanti né imbarazzanti che solo i veri amici sanno creare. –Tua figlia ha talento per la scrittura, Luigi. – gli raccontai di Lucia e del tema e vidi un sorriso affacciarsi sul suo viso allegro. –Sono molto fiero di lei, Stefano. – annuii. –E tu invece? –
-Io cosa? –
-Per via di farti una famiglia, Ste. –
-Prima dovrei trovarmi una donna. –
-Non dirlo come se fosse così complicato. –
-Non lo è? –
-No. Basta guardarsi intorno. – per un attimo pensai a Lucia, poi mi diedi mentalmente dello sciocco. Scossi la testa e cambiai argomento, ma sentivo lo sguardo di Luigi addosso. Aveva gli stessi identici occhi di Elisabetta.
 Volete sapere qual è la più grande piaga dell’umanità? I compiti di verbi di latino. Gli studenti li odiano, e dunque si impegnano al massimo per scrivere le castronerie più assolute e, devo ammetterlo, anche più geniali che possano passare per le loro instancabili menti. Davvero, Mattioli, pensi che un verbo come “sequerissemur” possa esistere?? Cosa dovrebbe essere? Un infinito passivo? Un deponente? Una castroneria, ecco cos’è. Gli misi tre calcando forse un po’ troppo con la penna rossa. Mi abbandonai contro lo schienale della poltrona passandomi le mani sul viso. Lo sguardo mi cadde sulla cartellina azzurra di Elisabetta. La presi. Forse sarebbe passata più tardi a prenderla. Scorsi rapidamente i fogli protocollo che conteneva, soffermandomi sulle frasi che avevo sottolineato a matita. I passaggi più belli.

“Di sicuro capita spesso di sentirsi incompresi, incluso quando si fa affidamento su qualcuno, ci si confida, e poi si capisce di aver scelto la persona sbagliata.”
“Probabilmente quelli in grado di comprenderci di più sono i genitori. Anche se spesso sono anche quelli che capiscono e fanno finta di niente, con la solita scusa del ‘devi imparare da te’.”

Sorrisi. Era una frase che Luigi ripeteva spesso. A quanto pareva però non era la preferita di Elisabetta. Voltai il foglio, scorrendo le righe fin verso la fine. Fino alla mia parte preferita.

“Ma la forma d’incomprensione più dolorosa la causa l’amore, ne sono certa. È la cosa peggiore, quando provi qualcosa di forte, di vero, per una persona che non lo sospetta minimamente. E la cosa assurda è quella persona potrebbe anche ricambiare i tuoi sentimenti, se solo sapesse di esserne l’oggetto.”

Avevo riflettuto a lungo su quella frase. Ormai avevo capito quanto fosse sensibile Elisabetta, e mi dispiaceva sapere che stava soffrendo in quel modo. Mi chiesi chi potesse essere “l’oggetto”, come l’aveva definito nel tema. Sentii bussare in quel momento, ma non mi disturbai a dire nulla. Elisabetta conosceva la strada per il mio studio da quando aveva sette anni e veniva a farsi leggere quelli che chiamava “i libroni gialli”, che altro non erano che vecchi libri di mitologia che entrambi adoravamo. E infatti qualche istante dopo vidi la sua testa bionda affacciarsi sulla porta. Mi rivolse un cenno della mano avanzando nella stanza. –Mio padre ha detto di passare per il mio tema. Disturbo? –
-Certo che no. – riposi con cura il foglio che avevo ancora in mano nella celebre cartellina azzurra e la richiusi. –Mi è piaciuto molto, Elisa. – mi corressi all’ultimo momento prima di pronunciare il suo nome completo. –Penso che tu abbia del vero talento, sai. – lei si sminuì immediatamente con uno svolazzo della mano, ma potevo vedere il compiacimento nei suoi occhi. –Nulla di eccezionale. – prese la cartellina e si fermò qualche minuto a chiacchierare. Alla fine mi salutò con un sorriso e si avviò verso la porta. La richiamai sulla soglia.
-Sei una persona profonda, Elisa. Mi dispiace che la tua persona non se ne accorga. –
-Grazie, prof. – il suo sorriso tirato mi fece pensare a un cardellino con le ali spezzate. –Dispiace anche a me. Tu cerca di non fare lo stesso errore. –
-A cosa ti riferisci? –
-Alla professoressa Lucia Garretti. – rispose con un sorrisetto impertinente. Aprii la bocca per rispondere, la richiusi. Il sorriso di Elisabetta si allargò. –Ci vediamo in giro, prof. –
-Ciao Elisab...Elisa. –

Durante il fine settimana pensai spesso a Elisabetta. Alla particolarità del mio rapporto con lei, alla mia amicizia con Luigi, a fino a che punto potessi ficcanasare nella sua vita. Ero curioso, devo ammetterlo. Avevo alcuni sospetti...ma probabilmente mi dedicavo tanto alle congetture per non pensare alle ultime parole di Elisabetta e a quei pensieri sopiti che già la conversazione con Luigi aveva smosso dal cantuccio dove li avevo relegati.
Lunedì mattina non vidi Lucia fino all’intervallo. La incontrai in vicepresidenza, appena uscita da un incontro con un genitore. Le avevo portato un caffè. Espresso, una sola tacca di zucchero. Tralasciando che l’avevo quasi rovesciato quando mi ero reso conto che sapevo perfettamente come prendeva il caffè, ero un po’ in imbarazzo quando bussai alla porta della vicepresidenza. Ma si dissipò rapidamente quando la vidi. Mi accorsi subito che qualcosa non andava. Aveva gli occhi spenti, segnati dalle occhiaie, e il viso stanco. Vidi lo sforzo che fece per sorridermi prendendo il bicchiere caldo dalle mie mani. –Grazie mille, Stefano. – annuii e  mi sedetti accanto a lei. –Come è andato il weekend? – chiesi cauto. Non sapevo per quale motivo fosse stata via, ma dalla sua espressione era palese che non fosse andata bene. Infatti la vidi scuotere la testa, prima piano, poi sempre con maggiore energia. Le lacrime trattenute le facevano brillare gli occhi. non riuscii a trattenermi, e le misi un braccio attorno alle spalle. Sembrò quasi appoggiarsi a me mentre le lacrime bagnare le sue guance e la mia camicia.
-Cosa è successo, Lucia? – chiesi allarmato.
-È per mio padre...è malato. – la abbracciai più forte. I sussulti la scuotevano.
-È cancro, Stefano. –
-Va tutto bene, Lucia. Sono qui io. –
Non so perché lo dissi. Insomma, “va tutto bene” non è la frase migliore quando ti viene detto che qualcuno sta morendo. E poi, che fossi lì lo sapeva. Ero io che volevo farle capire che poteva contare su di me. Ma ero rimasto spaventato dalle mie stesse azioni ed ero confuso. Quella conversazione e l’immagine di Lucia in lacrime mi rimasero in testa tutta la mattina. Ma non mi impedirono di notare che doveva essere successo qualcosa a Elisabetta. All’intervallo non venne a trovare Giulia, né lei andò a cercarla. In classe Giulia era distratta e pareva stanca. Quando all’uscita le vidi prendere direzioni diverse, pensai che potessero aver litigato e sospirai. A quanto pareva non era stato un gran fine settimana per nessuno.

Mercoledì molti studenti della seconda B si assentarono per il torneo di basket. Lo stesso accadde alla classe di Elisabetta, così i due gruppi furono uniti e messi a fare un’esercitazione di latino con un collega. Io mi rifugiai in biblioteca in cerca di un po’ di pace. Era una bella giornata, i cardellini cantavano e io mi persi negli scaffali senza un filo di polvere. Ero fermo in piedi con un libro in mano quando sentii la porta aprirsi. Da dove mi trovavo potevo vedere la scrivania del bibliotecario attraverso lo scaffale, ma difficilmente qualcuno si sarebbe accorto di me. A entrare furono proprio Elisabetta e Giulia, le braccia cariche di dizionari da restituire. Elisabetta osservava Giulia, che però fuggiva il suo sguardo.
-Perché mi stai evitando, Giuly? –
-Non ti sto evitando. –
-Sì invece. Parlami, ti prego. –
-Non so cosa dirti, mi dispiace. – disse con un filo di voce. Il suo tono era sincero, ma freddo. Elisabetta sospirò. Mi ci volle qualche minuto per digerire le parole che seguirono, ma in fondo non posso dire di esserne stato del tutto sorpreso.
-Ok, non avrei dovuto farlo. Ho rovinato tutto. – disse Elisabetta e costrinse l’amica a guardarla negli occhi. –Non avrei dovuto baciarti, Giulia. Non così. Ma non mi scuserò, perché lo volevo fare da troppo tempo e tu non te ne sei mai accorta. Non ti sei mai resa conto di come ti guardo, di come cerco il tuo abbraccio, di come ascolto la tua risata. Di tutto il tempo che ho passato a fissare le tue labbra mentre parli, di tutti i sorrisi che ti ho strappato per illuminare la mia giornata. Sono anni che sono innamorata di te e quindi sì, forse ho mandato tutto in malora domenica sera ma almeno adesso te ne sei accorta. Non mi scuserò per averti baciata, Giulia. – calò un silenzio irreale. Elisabetta aveva le lacrime agli occhi, io e Giulia non respiravamo. Lei probabilmente per lo shock e/o l’emozione, io per il terrore che mi scoprissero. Avevo sentito molto più del lecito. Elisabetta, che in quel momento mi sembrava di una forza e una debolezza devastanti, prese un lungo respiro tremante per ricomporsi, poi fece per andarsene.
-Ellis aspetta... – lei si voltò e tornò verso l’amica.
-Mi dispiace, io... – Elisabetta la bloccò mettendole un dito sulle labbra e facendola sobbalzare.
-Non dispiacerti, non scusarti. È tutta colpa mia. Credevo che mi avrebbe fatto stare meglio, ma ha fatto ancora più male, perché quando tu hai esitato, quando...per un attimo...non mi hai respinta, ho quasi creduto...- scosse la testa dopo quell’ennesima confessione. Adesso era Giulia ad essere quasi commossa. Tuttavia non fermò Elisabetta mentre usciva a testa bassa dalla biblioteca. Non partì al suo inseguimento appena la porta si chiuse dietro le sue spalle. Rimase immobile qualche istante, un cardellino infreddolito, un prof di latino con un caffè espresso in mano, con una sola tacca di zucchero. Poi se ne andò, e io ripresi a respirare.

Nei giorni seguenti le tenni d’occhio, un po’ per curiosità (la quale mi faceva sentire come una vecchia pettegola), un po’ per affetto e preoccupazione verso Elisabetta, un po’ perché speravo in un lieto fine per quelle due straordinarie ragazze e mi chiedevo se avrei potuto aiutarle in qualche modo. Il giorno dopo la discussione in biblioteca, rimasero molto fredde l’una con l’altra. Me ne accorsi dai loro sguardi che si evitavano e dagli abbracci che non cercavano. Parlavano, scherzavano quasi, stavano insieme forse per non far capire nulla agli altri forse perché erano troppo legate per stare lontane, anche se qualcosa nel loro rapporto era cambiato per sempre. Il loro equilibrio si era spezzato ma erano abbastanza sagge da non avere fretta di ripristinarlo, da lasciare che prendesse una nuova direzione, magari. Alla fine tutto quel che potei fare fu lasciare tranquilla Giulia quando la vedevo rimuginare con aria a metà tra l’assorto e il confuso in classe. Quasi una settimana dopo, fui costretto a fermarmi a scuola nel pomeriggio per i consigli di classe. Ovviamente Giulia fu presente, e intravidi anche Elisabetta nella sua classe. Alla fine dei consigli fui fermato da alcuni genitori. Elisabetta mi rivolse un cenno, che ricambiai, mentre usciva, ma poi vidi che veniva fermata proprio da Giulia. Si scambiarono qualche parola, vidi la sorpresa sul viso di Elisabetta, poi se ne andarono insieme usando l’uscita che dava sul parchetto della scuola.

Liberatomi dei genitori, salii di un piano di mia affacciai alle finestre del corridoio, stanco. Lasciai vagare lo sguardo sul parco. Un movimento attirò la mia attenzione: seguii la planata di un cardellino verso terra, e vidi proprio Elisabetta e Giulia sedute su una panchina poco lontano. Sentendomi uno stalker, rimasi ad osservarle. Non sentivo le parole, ma le loro espressioni erano sufficientemente eloquenti. Stavano sedute a poca distanza l’una dall’altra, Elisabetta con le gambe accavallate e lo sguardo fisso su Giulia, che invece si torceva le mani unite in grembo. Parlava a testa bassa, i capelli sciolti come a proteggerla dallo sguardo dolce di Elisabetta. Finalmente Giulia alzò gli occhi e disse ancora qualcosa, guardando l’altra in viso. Elisabetta esitò un istante, poi si sciolse in un sorriso e si allungò a prenderle una mano. Sorrisi quando Giulia arrossì. Tenendo lo sguardo fisso sulle loro mani unite, Elisabetta parlò a Giulia, con un mezzo sorriso dipinto sulle labbra. Alla fine lasciò le dita dell’altra, che annuì. Elisabetta si alzò per prima, imitata da Giulia, che allargò leggermente le braccia sorridendo. Si abbracciarono a lungo. Elisabetta lasciò un piccolo bacio sulla guancia di Giulia e si voltò per andarsene con un leggero cenno. Il suo volto sembrava speranzoso. Richiusi la finestra, pensando che ero contento che si fossero chiarite. Avanzai un po’ nel corridoio, fino alla finestra successiva, dalla quale udii l’urlo che mi fermò e mi fece affacciare nuovamente. Era la voce di Giulia.
-Ellis, Aspetta! –
Quando Elisabetta si voltò Giulia l’aveva raggiunta di corsa. Elisabetta la guardò interrogativamente. Giulia le mise una mano sulla nuca attirandola a sé e la baciò. Elisabetta spalancò gli occhi celesti un istante, poi li chiuse e si strinse a Giulia. Ancora una volta sorrisi, per loro, per la situazione assurda in cui ero, per quel momento che avevo rubato, per i cardellini e per Luigi. Diceva spesso che gli sarebbe piaciuto che sua figlia trovasse qualcuno da amare.

Quando il mattino dopo mi sedetti accanto a Lucia in aula insegnanti fui contento di non aver preso il caffè quella mattina. Ero già abbastanza nervoso così. A quanto pareva lei no, infatti mi rivolse un gran sorriso. –Ciao Stefano. –
-Buongiorno. Come stai? –
-Non mi lamento. – osservai la pila di compiti di greco che stava correggendo e pensai che ne avrebbe avuto ragione. Prima che potessi aprire bocca per un altro tentativo di conversazione, si era avvicinata la professoressa di storia dell’arte, una signora di mezz’età dal contegno generalmente allegro nonostante l’aspetto grave. Aveva fatto il suo ingresso poco prima insieme ad alcuni colleghi e si era immediatamente diretta verso Lucia. Sovrappose la mano alla sua, senza sedersi, il viso già corrugato in un’espressione preoccupata. –Mi dispiace molto per tuo padre, Lucia. Sappi che ti sono vicina. – il sorriso di Lucia si cancellò in meno di un secondo, i suoi occhi si velarono e sembrò quasi farsi più piccola. Percepii l’istinto di proteggerla, di abbracciarla, e affondai le mani nelle tasche stringendo la mascella, sorpreso e scioccato da me stesso, irritato verso l’innocente collega.
-Grazie, davvero. –
-Ma figurati! Spero davvero che si riprenda. –
-Anche io. – il sorriso tirato sul suo volto parve accontentare la donna, che si ritirò lasciandole un’altra pacca sul dorso della mano. Lei si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio sospirando. Rimasi a guardarla qualche istante, mentre la sala si svuotava. –Va tutto bene? – mi decisi a chiedere infine. Lei scosse appena la testa in un gesto che mi parve quasi inconscio. –Certo. – seguì un altro silenzio, più corto.
-Volevo chiederti una cosa Lucia. –
-Dimmi pure. – rimasi zitto. Lei alzò la testa dai compiti di greco e mi inchiodò con la profondità dei suoi occhi. –Allora, Stefano? – esitai ancora, perso nel suo sorriso.
-Posso portarti un caffè all’intervallo? – lei abbassò di nuovo la testa di scatto. –Certo. –
-Espresso, giusto? –
-Con una sola tacca di zucchero. –
Annuii e lasciai la stanza dandomi mentalmente dell’idiota almeno una decina di volte.

Mentre inserivo i soldi nella macchinetta, pensai che per recuperare un minimo di dignità il caffè non sarebbe bastato. Era comunque un inizio. Sospirai, selezionando il caffè espresso. Mentre aspettavo che la bevanda fosse pronta, non potei fare a meno di notare Giulia ed Elisabetta. Erano sulla soglia dell’aula di Giulia, parlavano sottovoce con i volti vicini. Si avvicinò un’altra loro amica e la conversazione si alzò di tono, riempiendosi di sorrisi e risate. Elisabetta cinse i fianchi di Giulia e poggiò la testa sulla sua spalla, come le avevo visto fare tante volte. Ma stavolta Giulia parve sprofondare nelle sue braccia e il suo sorriso divertito divenne sereno e dolce. Elisabetta osservava il suo viso, anche lei sorridendo. Il segnale acustico della macchinetta del caffè richiamò la mia attenzione. Presi il bicchiere di plastica e passandolo da una mano all’altra per non  scottarmi andai da Lucia, che quel giorno faceva sorveglianza al primo piano. La trovai appoggiata alla porta di un’aula, e ricambiai nervosamente il suo sorriso porgendole il caffè.
-Grazie mille, Stefano. –
-Figurati. – rimasi in silenzio qualche istante, dritto di fronte a lei.
-Lucia, volevo... –
-...chiederti una cosa. La stessa di stamattina immagino. Quella che non ha niente a che fare col caffè. – mi anticipò. Rimasi immobile a bocca socchiusa. Lei mi sorrise gentilmente. –Avanti, Stefano. Che cosa c’è? –
-Lascia perdere. –
-No. – fissai gli occhi nei suoi, sorpreso.
-Tu non vuoi lasciarmi perdere, lo so. E neanche io voglio che tu lo faccia. –
-Davvero? – ormai tentavo solo di guadagnare tempo.
-Davvero. – e il suo sguardo mi diceva che non potevo più farlo.
Presi un lungo respiro. La mia non era più paura di un rifiuto, ma puro terrore di quello che sarebbe successo dopo che mi avesse detto sì. Ma non riuscivo a trattenermi dal provare a scoprirlo.
-Ti andrebbe di uscire a cena con me qualche volta? –
-Certo. – quella risposta fu un sospiro di sollievo, come se avesse trattenuto il fiato.
-Venerdì? –
-Venerdì. Alle otto? –
-Perfetto. Passo a prenderti. –
-Va bene. –
-Va bene. – ancora mezzo stordito, mi voltai per andarmene. Avevo già percorso mezzo corridoio, la campanella era già suonata, quando mi voltai e corsi di nuovo indietro. –Lucia! Io non so dove abiti. –
Sì, lo so, sono una bestia.

Passai i giorni che mi dividevano da venerdì quasi in confusione. Da un lato ero molto sollevato di avere quel tempo per prepararmi, dall’altro l’attesa mi stava torturando. Eppure incrociando Lucia nei corridoi non riuscivo a trattenere un sorriso, da lei sempre timidamente ricambiato. Chiacchieravamo come sempre, ma come per tacito accordo non rimanemmo mai soli, come a voler preservare le parole per quella sera, tanto desiderata e temuta. In quei giorni mi accorsi anche con piacere della crescente felicità di Elisabetta, che vedevo in giro per la scuola a svolazzare come un cardellino, spesso sorridente e raggiante. Una volta la beccai a fischiettare fuori dalla segreteria. Se prima lei e Giulia erano inseparabili, adesso si erano letteralmente trasformate in due calamite. Sapevo che al mattino arrivavano insieme, perché qualche volta avevo visto Giulia in bici davanti a casa di Elisabetta. Non mi sfuggiva neanche l’ansia che coglieva Giulia pochi minuti prima della campana, quando sapeva che Elisabetta era fuori dall’aula ad aspettarla. Erano discrete, il loro legame sarebbe tranquillamente passato inosservato a chiunque le conoscesse nella loro amicizia fraterna. Ma io vedevo la dolcezza celata nelle parole che si sussurravano all’orecchio, nel luccichio degli sguardi e dei sorrisi che si rivolgevano. Proprio venerdì mattina mi ritrovai a sbirciarle in corridoio, che ridevano abbracciate in un angolo, osservando il cellulare di Elisabetta. Come tutti i professori, finsi che non ci fosse nulla di irregolare in un cellulare acceso durante l’intervallo. Almeno i ragazzi non li fanno suonare in classe, a differenza di alcuni colleghi... Elisabetta si chinò a sussurrare qualcosa all’orecchio di Giulia, che per tutta risposta le afferrò la mano e la trascinò in classe, rimasta vuota. Portai il caffè alle labbra per nascondere una risata divertita per la fretta di Giulia. Mi chiesi quanto ne sapessero i loro genitori, dato che, almeno a scuola, evidentemente non volevano che la loro relazione divenisse pubblica. In quel momento vidi Mattioli che si avviava verso l’aula. Lo chiamai rapidamente, e lui si avvicinò controvoglia. –Allora, hai detto ai tuoi genitori che vorrei vederli? –
-Sì, prof, vengono lunedì. –
-Molto bene. – e lo congedai con un gesto, avendo visto che Elisabetta e Giulia erano uscite. Sorrisi vedendo il viso rosso di Giulia e i loro sguardi incatenati. La campanella suonò ed Elisabetta si avviò verso la sua classe. La fermai un istante.
-Ciao prof! –
-Ciao...Elisa. – la mia scarsa memoria esultò di sé stessa. –Se posso darvi un consiglio, forse vi converrebbe chiudere la porta la prossima volta... – disse indicando con il capo l’aula di Giulia. Elisabetta arrossì leggermente (era la prima volta che glielo vedevo fare), ma sorrise.
-Scusa prof. Era solo un bacio... –
-Oh, stai tranquilla, ti assicuro che la cosa non mi disturba affatto. – le feci persino un occhiolino, e sorrisi con lei.
-Grazie, prof. Per Mattioli. –
-Figurati. – se ne andò, e io me ne tornai in classe incrociando lo sguardo curioso di Giulia.
 
Mi tolsi per la quinta volta la cravatta, sbuffando. Afferrai quella blu e cominciai ad annodarla attorno al collo, nervoso. Non avevo nemmeno la più remota idea di quale cravatta stesse meglio. In quel momento sentii Elisabetta bussare alla porta. Sapevo che era lei, perché aveva quel modo particolare di bussare, in basso, vicino alla maniglia, leggermente.
-Avanti. – sapeva di dover spingere forte la maniglia per entrare. Erano anni che dovevo oliarla. Raggiunsi il corridoio per accoglierla e la trovai insieme a Giulia, che si guardava timidamente intorno. –Buonasera, ragazze. –
-Prof. – disse Elisabetta con un cenno, mentre Giulia mi salutava cortesemente.
-Ci puoi prestare un dvd per stasera? Giulia si ferma da me. –
-Certamente. – le condussi in salotto, sempre con la cravatta slacciata intorno al collo, chiedendo a Elisabetta dei suoi genitori. Le ragazze si misero a esaminare il mio infinito scaffale dei dvd, frutto dei miei molti anni da scapolo, ed io provai ad aggiustarmi la cravatta.
-Esci stasera? – mi chiese Elisabetta.
-Già. –
-Con chi? – incrociai il suo sguardo malizioso. Giulia ridacchiò.
-Allora è vero che esce con la prof Garretti? – chiese.
–È così evidente? – Elisabetta annuì convinta e mi si avvicinò. Mi tolse la cravatta e aggiustò il collo della camicia, poi mi invitò a sistemarmi i capelli.
-Ora è pronto. –
-Grazie, Elisa. –
-Non c’è di che. – mi avvicinai a Giulia.
-Avete scelto un dvd? –
-Mmm...sa, quando Ellis mi ha detto che aveva il dvd di “Mangia prega ama” non ci credevo... – ridemmo tutti e tre. Giulia prese il disco e le accompagnai alla porta. Ormai era ora che anche io uscissi. Mi chiusi la porta alle spalle e tirai fuori le chiavi. Le ragazze mi salutarono e si avviarono verso casa di Elisabetta. Vidi Giulia che prendeva timidamente la mano di dell’altra. Sorrisi, cercando di scacciare il nervosismo.
 
Per quella serata avevo delle aspettative, e molti timori. In particolare temevo che le mie aspettative sarebbero state deluse, e sospettavo che sarebbe stato a causa di quella che dovevo rassegnarmi a definire timidezza. Eppure, nonostante tutto, nonostante me, andò benissimo. Lucia mi era sempre piaciuta, la trovavo intelligente e simpatica, ma quella sera mi resi conto di quanto fosse bella, al di là del senso più semplicistico del termine, anche se devo dire che pure dal punto di vista estetico era una visione. Se quando la vidi ad aspettarmi sotto la sua porta avevo ammesso di essere veramente infatuato di lei, quando ve la riaccompagnai dopo cena sentivo che ormai ne ero completamente innamorato, anche se forse lo ero sempre stato. Ora però non volevo più negarlo, anzi desideravo solo disperatamente di essere capace di suscitare in lei un minimo di quello stesso sentimento che avevo finalmente riconosciuto. Ci fermammo davanti alla sua porta e guardai i suoi occhi castani, sorridendo perché la sua risata mi risuonava ancora nelle orecchie. Lei ricambiò il sorriso.
-Mi sono divertita molto Stefano. Grazie. –
-Anche io Lucia... – e il panico mi assalì proprio quando pensavo che sarei riuscito a chiederle di nuovo di uscire. Probabilmente ero più imbranato di molti dei miei alunni. Lucia si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchi, mentre io rimanevo zitto.
-Allora ci vediamo a scuola. – sospirò infine, come delusa dal mio silenzio. Annuii, deglutendo il nodo in gola.
-Sì, a domani. – mi voltai per andarmene, ma pensai che mi sarei pentito amaramente di salutarla senza rinnovare il mio invito, e mi decisi a tornare a girarmi verso di lei. –Lucia... –
Venni bloccato nell’ultima maniera che mi aspettavo. Lucia posò rapidamente le sue morbide labbra sulle mie, per appena un istante, dandomi modo di sentirne la forma e indovinarne il sapore, poi si scostò. Affogai nei suoi occhi, sbalordito. Non vidi la sua espressione, perché ero perso nella sua bellezza.
-Buonanotte Stefano. –
-B...buonanotte. – risposi. Lei mi sorrise raggiante, poi rientrò in casa. Rimasi immobile qualche istante davanti alla sua porta, con il canto di un cardellino dell’orecchio, sentendomi di nuovo un ragazzino. Poi me ne andai sorridendo come un bambino.
 
Il padre di Lucia venne ricoverato nel week-end. Lo seppi quando mi telefonò domenica mattina, chiedendomi di sostituirla il giorno dopo a scuola.
-Certo, ci penso io, non ti preoccupare. –
-Grazie. –
-Dove sei? –
-Ancora in ospedale. Operano mio padre tra un’ora. –
-Vuoi che venga lì? –
-Ma non ti disturbare Stefano, davvero. – la sua voce era così stanca e lontana.
-Ti dispiace se vengo lo stesso? – interpretai il breve silenzio che seguì come un sorriso, o almeno l’ombra di esso. –No, certo che no. –
Mezz’ora dopo mi sedevo accanto a lei nella sala d’aspetto dell’ospedale, porgendole un caffè. Lei lo prese ringraziandomi flebilmente, e io annuii. Abbandonò la mano sul bracciolo della sedia scomoda. Gliela presi, e lei strinse forte la mia.
 
Lunedì mattina sostituii Lucia in alcune classi del ginnasio, e non mi fermai un minuto fino alla quinta ora. A quel punto ero esausto e non vedevo l’ora di andare da Lucia nel pomeriggio per consegnarle i compiti che mi aveva chiesto di prendere dal suo cassetto. E no, non volevo andarci per nessun altro motivo. Purtroppo mentre mettevo via le mie cose fui bloccato dal preside, un uomo troppo arzillo oltre la cinquantina che faceva molta fatica a ricordare i nomi dei suoi professori. Mi correggo, dei suoi professori maschi.
-Buongiorno preside. –
-Buongiorno Leoni! –
-Veramente io sarei Lupi, preside. –
-Ah, bravo. Allora, ha trovato qualche baldo giovine per i certamina di latino? –
-Sì, ho già dato l’elenco dei nomi in segreteria, preside. –
-Bravo, bravo Volpi! –
-Lupi. –
-Ah sì. E chi sono? – mi trattenni dall’alzare gli occhi al cielo. Come se fosse in grado di ricordare i nomi degli studenti.
-Alcune ragazze di seconda B. –
-Molto bene, molto bene, terranno alto l’onore della scuola! –
-Certamente. – cercai di avvicinarmi alla porta, ma faticai ad aggirare la figura ingombrante del mio superiore.
-Deve già andare? –
-Eh purtroppo sì. Buona giornata. –
-Altrettanto, Tigri, altrettanto. –
-Lupi, preside, Lupi. – e finalmente riuscii a svicolare fuori dall’aula. Raggiunsi l’aula insegnanti per recuperare la giacca ma fui incuriosito da alcune voci provenienti dal corridoio.
-Ellis aspetta! –
-Lasciami stare, Giulia. –
-Ellis... –
-Davvero, Giulia. Ti prego. – la sua voce era vicina al pianto.
-Non fare così, Ellis... –
-Non mi toccare. –
-Mi lasci parlare? Voglio spiegarti... –
-Che cosa? Che cosa vuoi spiegarmi Giulia? Che vuoi stare con me solo a condizione che non lo sappia nessuno? Che ogni volta che c’è qualcuno nei paraggi io non sono nulla per te? –
-Ma no, io... –
-È quello che hai appena detto, Giulia. –
-Non è quello che intendevo! –
-Sì invece! –
-Ti sbagli... –
-Allora dimostramelo! Dimostrami che è me che vuoi. Volevo darti il tuo tempo, volevo aspettarti perché tu ne vali davvero la pena, Giulia. Ma non posso più essere il tuo segreto. –
-Credevo che ti andasse bene così! –
-Sai che non è vero. Sai che mi stai facendo male così. Ma non t’importa. –
-No, Ellis, ti prego non dire così. –
-Mi dispiace, Giulia. Ma non ce la faccio più, a evitare i tuoi genitori, le nostre amiche, e soprattutto la mia famiglia. Io sono innamorata di te e non voglio più nasconderlo. – adesso la sua voce era rotta. Sentii un singhiozzo, ma non avrei saputo dire da chi provenisse.
-E allora cosa vuoi fare, Elisabetta? – stavolta lei era fredda.
-Mi dispiace tanto, Giulia. – mi affacciai in corridoio. Elisabetta lasciò le mani di Giulia e se ne andò. Ancora una volta aspettai che lei la inseguisse, che la fermasse, che le dicesse cosa provava. Invano. Giulia era ferma, non piangeva, aveva i pugni stretti. –Sei tu quella che scappa, Ellis! Non io! – gridò, e anche lei se ne andò.
 
Quando arrivai a casa Elisabetta era seduta sulla soglia di casa sua, con le ginocchia strette al petto e il cappuccio della felpa tirato sul viso. Alzò lo sguardo quando aprii la porta, e incrociai i suoi occhi lucidi. Le feci un cenno con la testa ed entrai in casa lasciando la porta socchiusa. Andai in cucina e tirai fuori un barattolo di gelato e un cucchiaio, posandoli sul tavolo. Elisabetta si sedette di fronte ad essi una decina di secondi dopo. –Tu non mangi? – chiese aprendo il barattolo.
-Ho mangiato da Lucia. –
-Solo mangiato? – ma anche la sua solita battuta maliziosa era spenta.
-Sì. E tu?  -
-Non fingere di non aver sentito. – non si accorse che avevo alzato gli occhi al cielo.
-Intendi parlarle? –
-No. È lei che deve decidersi. –
-Perché non glielo hai detto prima? –
-Perché la amo. – annuii, presi un altro cucchiaio per me.
Elisabetta riprese a piangere, le spalle scosse da sussulti silenziosi. Decisi di fare qualcosa. Per prima cosa mi alzai e la abbracciai. Purtroppo non sono mai stato bravo in situazioni del genere. In realtà non sono mai stato bravo in qualunque situazione che preveda del contatto umano. O dei sentimenti. Ma c’erano persone per cui ero disposto a provare a migliorare. Così diedi una piccola pacca sulla schiena di Elisabetta. –Andrà tutto bene. – dissi.
E mi fu chiaro che la strada del miglioramento sarebbe stata lunga e impervia.
 
Mi bastò un giorno per decidere di immischiarmi in quella faccenda. In fondo l’avevo vista nascere, così come avevo visto crescere Elisabetta. Mi rendeva triste vederle così. Vedere le occhiate di fuoco che si scambiavano, la loro freddezza, la rabbia che non si sforzavano neanche tanto di nascondere quando erano una nelle vicinanze dell’altra. Ma appena una delle due si allontanava, potevo vedere il dolore negli occhi dell’altra. Avevo saputo da Elisabetta di un tentativo di dialogo, risoltosi in una lite abbastanza accesa. Ormai passava molto tempo a casa mia, e sospettavo fosse perché temeva che i suoi genitori si accorgessero che stava male. Era sempre stata così, Elisabetta. Molto acuta riguardo di sentimenti degli altri, sensibile e per questo sempre attenta a proteggere le persone cui voleva bene, ma a volte era lei a farsi male così. Alla fine, decisi di adottare la stessa tecnica con lei. Se non voleva fare niente per stare meglio, l’avrei fatto io per lei. Per prima cosa chiamai Luigi, con la scusa di dover annullare la nostra battuta di venerdì, scusa che poi era vera perché volevo uscire con Lucia.
-Sono molto felice di sentire queste belle notizie, Stefano. – fu la prima cosa che mi disse. È senza dubbio pettegolo quanto sua figlia.
-Già, già. Senti, Elisabetta mi ha chiesto di fermarsi a cena. – Luigi sospirò.
-Certamente. Ma tu per caso sai cosa sia successo? –
-Eh Luigi, qualcosa sarà successo, ma io poi non so... –
-Mi era sembrata così felice nei giorni scorsi...sempre con Giulia... –
-Forse hanno litigato. Ne hai parlato con lei? –
-No. Forse non è una buona idea... –
-Avanti, Luigi. Perché non ci vai con lei a pesca, venerdì? –
-Sì, sì si può fare. È tanto che non andiamo insieme... –
Finita la telefonata tornai in salotto soddisfatto. Elisabetta mangiava patatine sul mio divano.
-Venerdì credo che andrai a pescare con tuo padre. –
-Io odio pescare. –
-Lo so. Chiamo la pizzeria. –
-Nah, ordina al cinese. –
-Va bene. Parla con tuo padre. – dissi andando in cucina.
-Grazie! – mi urlò lei dal salotto. Sorrisi, pensando che presto avrebbe avuto davvero motivo di ringraziarmi.
 
Mi avvalsi della complicità di Lucia. Le avevo spiegato a grandi linee l’accaduto, non senza grande imbarazzo, ma con mia sorpresa lei era sembrata d’accordo con me su tutto. E anzi, mi aveva aiutato a elaborare un piano. Ok, detta così sembra una riunione tra geni del male per rapinare una banca. In realtà volevano solo farle incontrare. –Pensi che torneranno insieme? – chiesi a Lucia. Lei appoggiò la testa sulla mia spalla e raccolse le gambe sul divano. Le misi una braccio attorno alle spalle, chiudendola istintivamente nel mio abbraccio. –Spero di sì. Credo che per nessuna delle due sia davvero finita. – annuii pensieroso.
-Hanno solo bisogno di ammettere quello che provano. – disse, e sorrise guardandomi.
-Spero siano più veloci di me. – osservai, facendola ridere di gusto.
 
Il giorno dopo avevo l’ultima ora con Giulia. Come spesso negli ultimi giorni, la vidi sovrappensiero e distratta. La fermai mentre usciva dopo il suono  della campano. Mi rivolse uno sguardo assente.
–Potresti fermarti alcuni minuti, per favore? –
-Certamente, prof. –
-Grazie. Vorrei darti qualche esercitazione di latino per il certamen... –
Lei annuì e la invitai a sedersi al primo banco. In quel momento qualcuno bussò alla porta socchiusa dell’aula. Un battere leggero di nocche accanto alla maniglia. Incontrai gli occhi verdi-azzurri di Elisabetta compiacendomi mentalmente del tempismo di Lucia. –Entra pure. – le dissi.
-La prof Garretti mi ha detto che volevi parlarmi... – rispose, ma si bloccò vedendo Giulia, che abbassò subito lo sguardo. –Siediti, Elisa. – dissi alzandosi.
-Prof... – cominciò Giulia.
-Vi prego, ragazze. Due persone in questa stanza hanno davvero bisogno di parlarsi, e sono certo di non essere una di quelle. – Elisabetta mi lanciò un’occhiata di fuoco, e andò a sedersi anche lei in prima fila, ma non accanto a Giulia. Soddisfatto, andai verso la porta. –Se avete bisogno di me, sono qui fuori. – dissi. Giulia giocherellava con la treccia castana, Elisabetta continuava a fulminarmi con gli occhi chiari, la mascella serrata. Le mimai un “prego” con le labbra e mi andai a sedere fuori dall’aula, in una delle “cattedre” usate dai bidelli in corridoio. Avevo studiato quella posizione. Riflesso nel vetro che costituiva la parte superiore della porta dell’aula, ne potevo vedere l’interno. Non che volessi spiare Elisa e Giulia, ma volevo essere certo di poter intervenire in caso litigassero di nuovo. Fu per puro caso che nel silenzio che regnava a scuola dopo la quinta ora riuscii a sentire anche le loro parole. Ripeto, per puro caso. Fu Elisabetta a muoversi per prima. Si alzò e si andò ad appoggiare alla coppia di banchi accanto a quella dove era seduta Giulia. Restarono ancora in silenzio, poi Elisa sospirò.
-Senti, se non ne vuoi parlare per me va bene. Ma sei sicura di voler far finta che non sia mai successo? – ancora silenzio.
Elisabetta fece per andarsene. Giulia si alzò di scatto.
-Mi manchi, Ellis. – la bionda sospirò.
-Anche tu. Ma non posso tornare indietro. –
-Perché?  - il suo tono era supplichevole.
-Andava tutto così bene, Ellis. –
-Non andava bene. – sussurrò l’altra  abbassando lo sguardo.
Giulia le si mise davanti.
-Mi dispiace, Elisabetta. Davvero. L’ultima cosa che volevo era farti male. Ma riuscivo a pensare solo a me stessa. –
-È stata anche colpa mia. Non avrei dovuto metterti fretta, né trattarti come se non ti importasse di me. So che non è vero... – esitò; poi, con estrema lentezza, la vidi muovere le mani.
Capii che aveva preso quelle di Giulia.
-Non sono sicura di essere pronta, Ellis. –
-Lo so. –
-Ho paura di rovinare di nuovo tutto. –
-Non lo farai. Ma devi lasciare che io ti ami. Lo so che tutto questo è un gran casino, ma io penso che possiamo farlo funzionare. Se...se è ancora quello che vuoi. –
Nel silenzio che seguì lo sconforto si fece strada sul viso di Elisabetta. Ma poi fu Giulia a parlare.
-Sì, è quello che voglio. Avevo paura di sentirmi vulnerabile, ma ora ho capito che tu sei l’unica che mi fa sentire al sicuro. Scusa se ci ho messo tanto a capirlo. –
Non vedevo bene il viso di Giulia, ma credo fosse arrossita. Elisabetta l’abbracciò, all’inizio timidamente, poi stringendola sempre di più.
-Ci riproviamo? – sussurrò sulla spalla di Giulia.
-Riproviamoci. – annuì l’altra.
Mi alzai di soppiatto, sorridendo, e lasciai il corridoio.
 
Lucia stava slegando la bici quando la raggiunsi.
-Come è andata? –
-Benissimo. – risposi e la baciai cogliendola di sorpresa.
Quando ci staccammo, le mie mani ancora ad accarezzarle le spalle sottili, mi guardò a bocca aperta.
-Credo che il preside ci abbia appena visti. –
-Credo che non mi importi. –
-E di cosa t’importa? –
-Di te. Voglio migliorare per te. – mi sorrise.
-Sei già migliorato, ma non credo che sia solo merito mio... –
-Già, in fondo devo ringraziare soprattutto i cardellini. –
Lucia mi guardò perplessa. La presi per mano, e ci avviammo insieme.
 
Fine
 
 
 
Note dell’autrice...
Ok, lo so che è tremenda ed è venuta troppo lunga e la trama fa schifo. Ma cosa devo dire? Non è stata colpa mia, sono stati i cardellini.
Sono seria, ho deciso di scrivere questa storia quando, proprio come Stefano, ho visto un cardellino nel cortile della scuola. Ci tengo a precisare che è tutto frutto della mia fantasia e che sebbene mi sia ispirata ad alcuni cliché della mia scuola, non faccio riferimento a nessuna persona e/o fatto reale. Sperando che vi sia piaciuta, un saluto a tutti :)
 
-Heartless Girl
 
P.S. ho pubblicato un missing moment relativo a questa storia, lo trovate qui http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2884236&i=1 Grazie per essere passati di qui :)   
  
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