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Autore: Mariam Kasinaga    28/09/2014    3 recensioni
Aaron, comandante del galeone Victoria, parte per una traversata oceanica lasciando sua moglie, incinta, a Belfast. Di notte, nella sua cabina, una misteriosa ombra gli farà visita.
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Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Finché morte non ci separi

Galeone “Victoria”, rotta Belfast-New York, 1837

“Ti prego Aaron, non lasciarmi proprio adesso. Ho bisogno di te!” esclamò la donna, aggrappandosi disperatamente al mantello del marito.
“Sybil, è il mio lavoro!” esclamò adirato, spingendola via.

La penna d’oca graffiava la carta, incidendola con parole colme di amarezza: l’aveva abbandonata nel bel mezzo di una gravidanza difficile, ma non aveva avuto scelta. Il Victoria era stato reclutato come nave d’appoggio in un’operazione marittima e lui ne era il capitano. Erano in mare da una settimana e, se ben ricordava le parole del medico, Sybil avrebbe dovuto partorire proprio in quei giorni. Forse avrebbe potuto chiedere al generale di essere esonerato dal comando, ma quando si era ritrovato davanti alla porta dell’ufficiale si era detto che, prima di lui, numerosi marinai avevano dovuto abbandonare le proprie famiglie.

Lui non era un’eccezione.
Sybil l’aveva stregato fin dal loro primo incontro alla Messa di Natale: una ragazza minuta, dal volto delicato ed incorniciato da un’indomabile massa di capelli rossi. Durante l’omelia i loro sguardi si erano incrociati per un attimo, prima che lei abbassasse gli occhi, le guance lievemente arrossate. Aaron aveva continuato a spiarla durante tutta la funzione, chiedendo mentalmente perdono a Dio se una donna distraeva i suoi pensieri: era delizioso il modo in cui teneva il libretto dei canti, corrucciando leggermente le sopracciglia in un moto di concentrazione.
Si erano sposati pochi anni dopo, nella cattedrale di San Patrick, durante il breve congedo di lui dalla Marina. Sua moglie era rimasta incinta due volte, ma entrambe le gravidanze non erano andate a buon fine.
Il capitano sospirò, prendendosi la testa tra le mani e scuotendola lentamente: si era comportato da vigliacco, era questa la verità. Non voleva torturarsi ancora sentendola gridare di dolore, piangere e stringere convulsamente a sé un feto privo di vita.
Aaron aprì un cassetto della scrivania e ne estrasse una scatola di sigari cubani. Ne prese uno e lo accese, aspirando avidamente il fumo: Sybil era in travaglio? Aveva già partorito? L’uomo si passò una mano sul volto, giocherellando con un galeone d’oro che aveva sulla scrivania. Con la coda dell’occhio vide un’ombra scivolare all’interno della cabina e sedersi sulla sponda del letto. Il capitano faceva fatica a distinguere chi fosse, complice la scarsa illuminazione della stanza.
“Fletcher, sei tu?” domandò, aguzzando la vista. Il vicecapitano aveva l’abitudine di entrare nella sua cabina per discutere sulla rotta migliore da seguire, ma sarebbe stata la prima volta che si prendeva una tale libertà. L’uomo aguzzò la vista, mentre i suoi occhi tentavano inutilmente di scandagliare l’oscurità che avvolgeva gran parte della stanza: “Fletcher!” esclamò una seconda volta, alzandosi dalla sedia e facendo qualche passo incerto verso il letto spartano.
All’improvviso, d’istinto, si fermò: c’era un qualcosa di misterioso in quella figura, un’aurea che sembrava metterlo in guardia su ciò che stava per fare. L’ombra era come avvolta da un’impalpabile cortina scura, impenetrabile agli occhi umani del capitano: riusciva soltanto a distinguere vagamente i contorni di chi, in quel momento, si trovava insieme a lui.
“Chi sei, cosa vuoi?” domandò, appoggiando lentamente il sigaro sull’orlo del posacenere.
Era superstizioso, come tutti i marinai, nonostante sua moglie l’avesse più volte deriso per la sua convinzione nel credere ancora a folletti e fantasmi. Nei lunghi anni di servizio, il Victoria era stato coinvolto in alcuni spiacevoli fatti di cronaca, molti dei quali sfociati nel sangue.

Tuttavia, non poteva ancora escludere che quella presenza non appartenesse al mondo degli uomini.
Gli parve di vedere l’ombra sussultare, un attimo prima che nella stanza si sentisse una voce flebile: “Dovresti riconoscermi, Aaron. Siamo stati insieme così a lungo, dopotutto. Devo forse credere che i tuoi occhi siano accecati da una qualche remora? Strano, per una persona convinta che il castello di Dublino sia la dimora di streghe e spettri” commentò.

Il comandante si aggrappò ad un angolo della scrivania: “Sybil?” mormorò, tentando di riordinare i suoi pensieri. Quella sera non aveva bevuto, ne era sicuro. Dopo aver chiacchierato con il timoniere aveva compilato il diario di bordo e, una volta rientrato nella sua cabina, aveva iniziato a scrivere una lettera di scuse da inviare alla moglie. Forse si trattava di uno scherzo del suo subconscio, un miscuglio di rimorso e senso di colpa.

Sybil si trovava nella loro casa a Belfast, amorevolmente assistita dalla madre e, forse, anche dal medico. Per quanto potesse credere nelle leggende e miti del suo Paese, non vi era una giustificazione logica a ciò che stava accadendo.
Stancamente, Aaron tornò a sedersi: “Cosa vuoi da me?” domandò, passandosi una mano sul volto.

L’ombra crepitò, per poi scivolare verso uno l’angolo più buio della cabina: “Cosa posso risponderti? Voglio solo stare con te, come ogni moglie desidera. Non ti biasimo per avermi abbandonato, per aver voluto onorare i tuoi obblighi da comandante. Ti aspetterò, come ho sempre fatto, fino a quando non tornerai nuovamente da me. Ti accoglierò a braccia aperte, insieme ai nostri figli” aggiunse, la voce leggermente incrinata.

Il capitano si accese l’ennesimo sigaro, soppesando quelle parole: “Tu non sei reale, Sybil. Dio solo sa cosa stai facendo in questo momento” replicò, tracciando pigramente il contorno del galeone d’oro.
Una risata cristallina ruppe il silenzio, facendogli alzare lo sguardo. L’ombra non appariva più nebulosa ai suoi occhi, ma sembrava aver acquisito una propria fisicità: riusciva a scorgere una figura minuta completamente velata di nero, con un abito del medesimo colore e le mani guantate delicatamente appoggiate sul ventre. La figura fece qualche passo nella sua direzione: “Sarebbe stata una bellissima bambina, sai? Però c’era qualcosa di sbagliato, come le altre volte. No, non come quando ho cercato di dare alla luce nostro figlio. Questa volta è stato peggio, molto peggio. C’era sangue dappertutto, Aaron. Mia madre urlava ed il medico tentava disperatamente di far nascere la nostra piccola, ma io mi sentivo così debole. La sentivo morta dentro di me. Non riesco a donare la vita, amore mio” concluse, ormai a pochi passi dalla scrivania.

Aaron pigiò con forza il sigaro, incurante di averne consumato solo metà: “Non sei reale. Tra qualche mese tornerò a casa e, se Dio vuole, abbraccerò te e nostro figlio. Oppure, sempre secondo il volere di Dio, piangerò sulle vostre tombe” mormorò, alzandosi nuovamente e ponendosi davanti a ciò che pareva essere lo spettro di sua moglie. Afferrò il velo di pizzo e lo sollevò: “Non sei altro che un mio tormento” ripeté, perdendosi nei grandi occhi verdi di lei.

Il volto di Sybil era pallido, profondamente sofferente: “So che è difficile da comprendere. Sono io, sono veramente io” bisbigliò, accarezzandogli dolcemente una guancia.
Aaron le prese la mano, avvicinandola alle labbra e baciandole la punta delle dita: poteva sentire il profumo di sua moglie, quella fragranza di rododendro che lo faceva impazzire. “Tu non puoi essere morta” cominciò a singhiozzare, cingendole la vita e spingendola contro di sé. Era fredda, molto fredda, come se il sangue avesse smesso di circolare all’interno del suo corpo. Eppure, nonostante il suo volto esprimesse una grande sofferenza, i suoi occhi lo stavano guardando in modo terribilmente vivo.

Le labbra della donna si incurvarono in un piccolo sorriso: “Ti amo Aaron, nulla di tutto questo è colpa tua. Mi sono comportata come un’egoista, chiedendoti di restare. Hai semplicemente fatto il tuo dovere” aggiunse, dandogli un lieve bacio sulla guancia.

L’uomo le prese delicatamente il volto con entrambe le mani: “Sarei potuto rimanere con te” ribatté, baciandola sulle labbra. Era uscito di casa infuriato, pieno di dolore e, come spesso accadeva, aveva riversato tutti questi sentimenti su sua moglie.
Si sentì avvolgere da quel profumo avvolgente e pungente, mentre le mani della donna si aggrappavano debolmente alla sua camicia bianca. Si staccò dolcemente dalle sue labbra, asciugandole con il dorso della mano una lacrima: “Fammi venire con te” mormorò, osservando decine di impalpabili gocce trasparenti impigliate tra le sue ciglia.

Sybil scosse la testa: “Aspetterò. Devi vivere la tua vita, amore mio” mormorò.

Il corpo del Capitano Aaron McCullen, responsabile del Victoria, non fu mai recuperato. Nella sua cabina, intensamente profumata di rododendro, furono trovati soltanto un sigaro consumato ed un galeone sporco di sangue. 

   
 
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