Tornò
in cucina e l’altra
madre era ancora lì che lo aspettava, in piedi di fronte al
tavolo sul quale
giaceva la scatola – “come aveva
promesso” pensò Carlos.
«Sei
tornato, spero tu ti sia
divertito. Ora è giunto il momento…»
incominciò l’altra madre, ma questa volta
fu il turno di Carlos di interrompere qualcuno.
«Non
ancora» disse lapidario.
L’altra
madre si irrigidì,
visibilmente seccata e nei suoi occhi Carlos vide di nuovo quella furia
che
fino ad ora aveva solo creduto di intravedere.
Non
si fece spaventare – o
meglio, era spaventato, ma si fece forza e non lo diede a vedere.
«Prima
voglio proporti una
sfida, un gioco se preferisci.» sentendo queste parole,
l’altra madre sembrò
agitarsi ulteriormente e il suo sguardo si fece sempre più
minaccioso, mentre
il suo sorriso si allargò a dismisura.
«Oh,
davvero? E che tipo di
sfida sarebbe, sentiamo» rispose piegando la testa di lato.
Era come se si
sforzasse di restare ferma e posata mentre invece avrebbe voluto
sfogare la
rabbia – probabilmente direttamente su Carlos – il
che non era così
improbabile.
«Se
io riesco a ritrovare i
miei genitori e ciò che hai rubato alle due ragazze del
luogo oltre lo
specchio, tu ci lascerai liberi tutti quanti»
spiegò Carlos, sforzandosi di non
far tremare la voce.
L’altra
madre quasi rise.
Carlos rabbrividì. Non voleva sentire la sua risata.
«E
se… mettiamo il caso… se
tu perdessi?» chiese in tono palesemente ironico.
«Se
perdo resterò qui con te
e mi pianterai le viti nella faccia o qualunque altra cosa sia che fai
ai poveri
malcapitati che cadono nella tua rete.» riuscì a
dire tutto d’un fiato,
soprendendosi da solo del proprio coraggio. Infatti quella non gli
sembrava una
possibilità così remota e rischiava sempre
più di diventare reale.
«Va
bene allora. Accetto la
tua sfida.» stava dicendo l’altra madre, ma Carlos
la interruppe ancora.
«Aspetta!
Devi darmi qualche
indizio prima. Che aspetto hanno la libertà e la
volontà?» chiese, ma non
ottenne risposta.
L’altra
madre si limitò a
prendere in mano una delle viti dalla scatola e a rigirarsela tra le
dita come
un gioiello prezioso.
Carlos
dubitava che quello
fosse l’indizio che cercava. Capì che non avrebbe
ottenuto niente e quindi si
girò e si diresse fuori.
Da
dove cominciare?
Si
guardò intorno, ma era già
stato nel giardino poco prima e non aveva notato niente. Non sapeva
neanche se
cominciare dai propri genitori o dalle ragazze, non sapeva dove cercare
e, a
dire il vero, neanche cosa cercare
di
preciso.
Poi
si ricordò di ciò che gli
avevano detto nel deserto dietro lo specchio.
“Guarda
l’orologio” si
ripeté, e fu ciò che fece. Lo estrasse dalla
tasca e lo osservò. Si rese conto
che c’era qualcosa di strano.
Le
lancette giravano come
impazzite, in direzioni diverse e molto velocemente, finché
non si
posizionarono in un certo modo. Non aveva senso che quella fosse
l’ora esatta.
Era ormai convinto da tempo che in quel luogo non esistesse nemmeno
un’ ora
esatta – né alcun tempo, in realtà.
Forse
non aveva sentito bene.
Non capiva come un orologio rotto potesse essergli utile.
Provò a spostarsi,
pensieroso, e vide che le lancette si muovevano ancora fino a tornare
ad
indicare la direzione che indicavano in precedenza, come una strana
bussola con
tre diversi nord.
Allora
gli fu chiaro che le
tre direzioni indicavano tre posti diversi in cui cercare. Eppure le
cose che
doveva trovare erano quattro, quindi forse avrebbe trovato due cose
nello
stesso posto, oppure una sarebbe rimasta esclusa… o non
l’avrebbe trovata
affatto.
Si
disse che non era il
momento di pensarci. Doveva trovare tutto ciò che riusciva a
trovare prima che
l’altra madre escogitasse qualcosa.
Seguì
la lancetta sei
secondi.
Questa
lo portò di fronte
alla porta dell’appartamento della signora Josie –
cioè, della giovane altra
Josie.
Fece
un respiro profondo
prima di aprire la porta e poi entrò di soppiatto, ma dentro
tutto sembrava
vuoto. Apparentemente non c’era nessuno, o almeno
così credeva.
In
fondo ad una pista c’era
una cosa grande e informe, come un grumo di cose mescolate insieme.
Carlos
guardò ancora la
lancetta e questa puntava esattamente verso quella cosa.
Cautamente
si avvicinò, ma
non accadde nulla.
Da
vicino poté vedere che la
grossa massa era ricoperta di piume.
“Gli
angeli” pensò.
La
toccò e risultò
appiccicosa, ma non viscida. Era morbida, fredda, incolore.
Riuscì
ad aprire un varco e
dentro quella sorta di guscio vide la cosa più orribile e
spaventosa che avesse
mai visto. Anche più spaventosa del sorriso
dell’altra madre, forse.
Sicuramente più disgustosa.
C’era
una creatura lì dentro,
ma anche questa era come un grumo di cose spiaccicate insieme.
Al
centro riuscì a
riconoscere i lineamenti della giovane Josie, mentre altre teste che
spuntavano
dalle spalle avevano volti irriconoscibili. Alcuni avevano solo occhi,
altri
solo bocche, altri assolutamente nulla.
In
più, quella creatura aveva
moltissime braccia che le spuntavano dai fianchi e dalla schiena. Le
gambe non
erano immediatamente riconoscibili e Carlos giunse alla conclusione che
fossero
tutte fuse insieme e che quindi quella cosa non dovesse essere in grado
di
muoversi – almeno così sperava.
Portò
l’orologio davanti a sé
e lo guardò ancora una volta, per sicurezza, e vide che la
lancetta dei secondi
puntava proprio in direzione di quella creatura.
Carlos
deglutì e mise via
l’orologio. Qualunque cosa fosse, doveva trovarsi
lì dentro.
Osservò
meglio e notò che
effettivamente c’era qualche cosa.
Quattro
delle grandi mani
della creatura erano strette insieme e si rese conto che stringevano un
oggetto. Era un rettangolo grigio scuro e lucido.
Molto
lentamente e molto
delicatamente, le manine di Carlos si avvolsero intorno a quelle grandi
mani e
un dito alla volta riuscì a liberare quasi del tutto
l’oggetto che ora –
essendo più visibile – si rivelò essere
un cellulare.
Ora
solo una mano lo
stringeva ancora. Gli mancava poco per riuscire a liberarlo
completamente, ma
proprio quando ormai c’era quasi riuscito, la mano si chiuse
di scatto e gli
occhi del volto di Josie di aprirono di scatto, neri come sempre,
scintillanti
di furore puro.
Carlos
fece un balzo indietro
per lo spavento. Il cellulare che era riuscito ad afferrare gli cadde a
terra,
mentre la sua mano era intrappolata nella morsa della creatura.
«Ladro!
Ladro!» gridò con una
voce acuta e graffiante la creatura. Tutte le varie bocche sparse per
il corpo
si muovevano all’unisono e gridavano una singola parola,
sempre più forte: «Ladro!»
Carlos
strattonò con tutta la
forza che aveva.
«Non
sono un ladro! Non sono
un ladro! Lei è una
ladra! Questo
oggetto non le appartiene, lo ha rubato! Lasciamelo
prendere!» gridò con tutta
la voce che aveva in corpo, tanto che la gola prese a fargli male non
appena
smise di parlare.
Le
sue parole non sembrarono
avere alcun effetto sulla creatura, ma per fortuna Carlos
riuscì comunque a
liberarsi dalla presa con uno strattone un po’ più
forte. Indietreggiò e poi si
fermò, osservando la cosa contorcersi a allungare tutte le
braccia nella sua
direzione, ma fortunatamente aveva immaginato bene: non poteva muoversi
da lì.
Un
po’ più tranquillo, si
guardò intorno alla ricerca del cellulare, che
scoprì giacere a terra poco
distante da lui. Lo afferrò velocemente e si
allontanò più rapidamente che poté
da quel luogo infernale.
Ora
che era uscito, non aveva
tempo da perdere. Doveva immediatamente mettersi alla ricerca del
prossimo
oggetto.
Guardò
l’orologio e sta volta
decise di seguire la lancetta dei minuti.
Puntava
dritta verso il
giardino, così Carlos si avviò allontanandosi
dalla casa.
Tutto
era silenzioso, come
era sempre stato in realtà, ma questa volta quel silenzio
fece paura a Carlos,
perché non sapeva cosa aspettarsi, ma sapeva che non sarebbe
stato nulla di
piacevole.
Arrivato
al centro del
giardino, scorse la tovaglia del picnic e tutti gli arbusti che una
volta
avevano ondeggiato e cantato per lui, ma adesso erano solo dei rami
secchi e
informi.
Anche
la tovaglia poggiata a
terra sembrava sporca e solitaria. Come se avesse qualcosa di vecchio
che prima
non aveva, e la schiena di Carlos fu percorsa da un brivido poco
rassicurante.
Si
fece forza e avanzò, ma si
arrestò immediatamente quando sentì una sorta di
brontolio provenire dai
cestini da picnic posti disordinatamente sulla tovaglia.
Solo
allora si accorse che in
mezzo a quelli c’era qualcosa.
Non
avrebbe saputo dire cosa
da così lontano, quindi decise di avvicinarsi ancora un
po’, fermandosi di
nuovo quando sentì ancora quel brontolio.
In
realtà da più vicino non
era più un brontolio, era più un ronzio, come
quello di un ingranaggio bloccato
che non riesce a mettersi in moto e quindi ripete sempre lo stesso
movimento
nel tentativo di ripartire.
Carlos
sospirò e guardò
l’orologio. La lancetta dei minuti indicava proprio quel
punto, ne era certo,
quindi si fece coraggio e avanzò ancora di qualche passo.
«Cecil!»
gridò, portandosi
una mano alla bocca per lo spavento, mentre fissava con gli occhi
spalancati lo
spettacolo davanti a sé.
Infatti,
buttato a terra come
una bambola rotta, giaceva l’altro
Cecil. I suoi arti erano piegati in modi anormali e la sua testa,
anch’essa
girata in modo innaturale, era come stata scuoiata, ma sotto di essa
non c’era
né carne né sangue, solo freddo metallo, circuiti
esposti che ogni tanto
ronzavano – ecco spiegata l’origine del suono che
aveva sentito prima – e un
liquido denso e scuro che colava dal suo orecchio e dal lato della
bocca spalancata.
L’altro
Cecil dovette vedere
Carlos ad un certo punto, perché ebbe come un singulto,
più come una vera e
propria scossa, come cercò di muoversi, che gli percorse
tutto il corpo per poi
farlo tornare a giacere come prima.
Carlos,
spaventato, ma soprattutto
impietosito da quella scena, si avvicinò fino ad
inginocchiarsi vicino
all’altro. Non abbassò la guardia, ovviamente, ma
in qualche modo sentiva di
doversi avvicinare, e non solo per prendere l’oggetto
misterioso, ma per
qualche strano motivo che gli toccava il cuore.
In
fondo, da quello che aveva
capito dalla registrazione, l’altro Cecil non poteva essere
cattivo, o almeno
non del tutto, e forse non si fidava di lui, ma vederlo in quello stato
gli
fece molto male, come un pugno nello stomaco.
Capì
che l’altro Cecil stava
cercando di dire qualcosa perché si sforzava di muovere la
bocca ed emetteva
dei suoni sconnessi.
Finalmente
riuscì a parlare,
anche se la sua voce era distorta e le parole difficili da capire.
«Tu
hai il mio registratore»
disse, non sembrava una domanda, ma più una constatazione.
Carlos
annuì e quasi senza
pensarci lo tirò fuori dalla tasca e glielo fece vedere.
L’altro
Cecil fece una
smorfia. Era impossibile capire se fosse un sorriso, una smorfia di
dolore o
cos’altro, perché la sua faccia era parzialmente
scoperchiata da quella specie
di pelle che aveva e quindi inespressiva, mentre l’altra,
ancora intatta,
sorrideva sempre, come al solito.
«Cosa
ti è successo?» chiese
Carlos con voce tremante. Aveva paura di chiederlo perché
temeva che la
spiegazione fosse più orribile del vederlo così.
Non è che non immaginasse già
cosa potesse essere successo, in realtà.
«Tu
cosa pensi?» domandò
ironicamente il bambino biondo, con non poca fatica.
«E’
stata lei, vero?» chiese
l’altro bambino.
«Non
è stata contenta di
sapere che avevi ascoltato le mie registrazioni. Pensava di averle
cancellate
tutte» spiegò e questa volta la smorfia che fece
fu molto più simile ad un vero
e proprio sorriso, anche se era evidente che gli costava fatica
mantenerlo,
perché lo fece solo per un paio di secondi e poi
aggrottò le sopracciglia.
Carlos
impiegò alcuni secondi
a capire il senso delle parole che aveva ascoltato, poi lentamente i
suoi occhi
si fecero lucidi e cominciarono a riempirsi di lacrime,
finché la vista divenne
tutta sfocata e non fu più in grado di distinguere forme
precise. Cercò di
asciugarsi gli occhi con la manica del camice, ma la situazione
migliorò solo
parzialmente.
Improvvisamente
aveva capito:
il registratore non gli era stato rubato, o almeno non a sua insaputa.
L’altro
Cecil avrebbe voluto aiutarlo fin dall’inizio, ma non gli era
stato possibile,
poi l’altra madre lo aveva scoperto ed era finito in quel
modo.
“E’
tutta colpa mia” queste
parole si formarono spontaneamente nella mente di Carlos e non riusciva
a
scacciarle via. Come faceva a non sentirsi in colpa?
«Grazie»
fu l’unica cosa che
riuscì a dire. Cercare di non singhiozzare gli portava via
molta concentrazione
e la sua mentre era affollata solo da paura e sensi di colpa, quindi
articolare
qualcosa di più complicato era impossibile in quel momento.
Ancora
con il registratore in
mano, fece la cosa che gli sembrò più giusta:
restituirlo al suo legittimo
proprietario. Delicatamente, appoggiò
l’apparecchio nella mano dell’altro Cecil
e gliela chiuse intorno ad esso.
«Devi
scappare via» rispose
incoerentemente l’altro Cecil, cambiando discorso.
«Ma
non posso! I miei
genitori e le altre due--» iniziò a dire Carlos,
ripresosi improvvisamente.
«No,
no, non intendo… devi
scappare via da me perché l’altra madre vuole che
ti faccia del male» spiegò
mentre un evidente velo di preoccupazione oscurava il suo volto.
«Ma
non riesci neanche a
muoverti, come potresti farmi del male?» chiese Carlos,
sempre più spaventato e
preoccupato.
«Tu
non hai idea di cosa lei sia
capace. Dammi retta. Tieni.»
finì di dire aprendo una mano e porgendola a fatica
all’altro bambino.
Conteneva
alcuni fogli di
carta accartocciati.
Carlos
li prese e li distese
meglio che poté e capì che erano pagine di un
libro.
«Questo
è…» iniziò a dire, ma
l’altro lo interruppe.
«Quello
che stai cercando. Ti
serve. Adesso, per favore, vattene… per…
favore…» pronunciò le ultime parole
con ancora più fatica di prima e lentamente
cominciò a mettersi in piedi.
Carlos
come di riflesso si
alzò e indietreggiò. Capì che
l’altra madre lo stava controllando in qualche
modo.
«Non
devi farlo per forza, lo
so che non vuoi farlo» provò a convincerlo.
«Non
posso, è lei che me lo
fa fare, non capisci? Non posso… Scusa!» fu
l’ultima parola che disse
mettendosi di nuovo in piedi per poi cominciare ad avanzare verso di
lui.
Carlos
indietreggiò,
stringendo tra le mani quei preziosi fogli. Capì che ormai
non c’era nulla da
fare. L’altro Cecil non era più se stesso e non lo
avrebbe più ascoltato,
quindi doveva farsi forza e trovare il modo di fermarlo.
Infilò
i figli in tasca e
iniziò a guardarsi intorno alla ricerca di un’arma
qualsiasi, ma non vedeva
molte speranze, poi finalmente notò qualcosa scintillare sul
prato a poca
distanza da sé e dall’altro.
Capì
di cosa si trattava e
senza avere in tempo di pensare, con uno scatto corse a prenderle:
erano le
grosse forbici da potatura di Telly, che doveva aver dimenticato
lì tra l’erba.
Erano
così pesanti che
dovette tenerle con entrambe le mani e le brandì contro
l’altro per tenerlo
lontano.
L’altro
Cecil non sembrava
affatto spaventato da quelle cose, nonostante fossero grandi e
affilate, e
Carlos non sapeva davvero cosa fare.
Non
osava spingerle troppo
avanti per paura di ferire l’altro, ma sapeva che si sarebbe
reso necessario
farlo. Non c’era altro modo di fermarlo, e se non
l’avesse fatto ci avrebbe
rimesso lui stesso e non poteva permetterselo, non ora ch era arrivato
così
avanti nella sua ricerca per salvare tutti quanti. Però
sapeva anche che non
avrebbe potuto considerarsi soddisfatto, pur salvando tutti, se non
avesse
salvato anche l’altro Cecil.
Mentre
indietreggiava, sempre
tenendo le forbici puntate davanti a sé, e rifletteva su
tutto questo e su cosa
fare, accadde qualcosa che lo colse di sorpresa e congelò il
suo fiume di
pensieri all’istante.
L’altro
Cecil era ad una
distanza fin troppo ravvicinata e gli sorrideva con un ghigno enorme e
sporco
di quella sostanza nera e viscosa.
Le
mani di Carlos tremavano
tanto che riusciva a stento a reggere ancora le pesanti forbici.
Forbici che
erano profondamente infilzate nel corpo dell’altro Cecil
all’altezza dello
stomaco. Carlos si sarebbe chiesto se lo avessero trapassato da parte a
parte,
ma non voleva pensarci e anche volendo non avrebbe potuto
perché in quel momento
si sentiva come se fosse stato lui quello trafitto nello stomaco.
Boccheggiò
e trattenne il
respiro senza neanche accorgersi.
Avrebbe
voluto urlare e
avrebbe sicuramente pianto, ma per lunghissimi secondi, invece, rimase
immobile
e in silenzio, osservando impotente il corpo dell’altro
fermarsi piano piano.
Le braccia del biondo scivolarono lungo i fianchi, la testa cadde da un
lato e
poi le gambe cedettero e precipitò al suolo, trascinandosi
dietro le forbici e
per poco anche Carlos stesso.
«Cosa
hai fatto?» riuscì a
dire Carlos, inginocchiatosi di nuovo accanto all’altro, con
una voce così
flebile da essere quasi inudibile.
«Non
è finita qui. Corri.
Non… hai… molto tempo» rispose
l’altro Cecil con voce leggermente metallica,
incapace di fare altro che parlare, anche se anche questo si sarebbe
reso
presto impossibile probabilmente.
«No,
no! Non… non posso
farcela da solo! Per favore, per favore…»
mormorò ancora Carlos, stringendo
così forte le mani dell’amico – che a
loro volta stringevano ancora il registratore
– che se l’altro Cecil fosse stato un semplice
essere umano, probabilmente gli
avrebbe fatto male.
Carlos
vide la vita scivolare
via dagli occhi completamente neri dell’altro, anche se
questi rimasero aperti
e il suo sorriso ancora intatto, e capì che era finita per
il suo amico.
Per
lui però non era affatto
finita. C’erano ancora delle cose che doveva trovare
– persone che doveva
salvare.
Se
non aveva salvato l’altro
Cecil, avrebbe comunque salvato tutti gli altri – questa fu
una sorta di
promessa che fece a se stesso e all’altro Cecil.
Tirò
su col naso e si asciugo
velocemente gli occhi con una manica e poi guardò
l’orologio.
La
lancetta delle ore puntava
verso l’appartamento del piano di sopra, dove viveva
l’altro Telly.
Salì
le scale di corsa, fino
a trovarsi davanti alla porta.
Nel
suo mondo, non aveva mai
voluto attraversare quella soglia perché
l’appartamento del vero Telly puzzava
in modo disgustoso.
In
realtà, non aveva idea di
cosa avrebbe trovato lì dentro.
Aprì
lentamente la porta e
con molta cautela osservò bene tutti intorno prima di
entrare.
Era
buio e non sembrava
esserci nessuno. Sarebbe stato difficile trovare qualcosa lì
dentro.
Improvvisamente
una piccola
luce si accese e Carlos sobbalzò trovandosi davanti proprio
Telly, illuminato a
mala pena.
Era
malconcio, seduto su una
sedia da barbiere al centro della stanza.
Non
era ridotto diversamente
dall’altro padre, quando lo aveva trovato nel suo studio.
Pensò che forse anche
lui aveva provato a fare una foto a Khoshekh, ma non ebbe tempo di
portare
avanti le sue elucubrazioni perché l’uomo
parlò.
«Perché
non resti qui? Potrei
fare altri spettacoli per te e potrei tagliarti i capelli se tu lo
volessi. La
tua altra madre ti vuole bene, vuole che tutti siamo produttivi al
massimo per
rendere questo posto perfetto per te»
disse borbottando al limite del comprensibile.
«Allora
proprio non capisci?
Io non voglio un mondo perfetto, e poi questo qui non è
perfetto in ogni caso.
L’altra madre non sta facendo un bel lavoro»
ribatté secco Carlos, ancora pieno
di rancore per ciò che era successo poco prima.
«Hai
ragione, non capisco.
Del resto sono solo un povero barbiere… anzi, non sono
sicuro di essere neanche
questo, ormai» Carlos non capì questa risposta, ma
non se ne curò e iniziò a
guardarsi intorno alla ricerca di qualunque cosa che potesse aiutarlo,
ma non
sapeva neanche cosa stava cercando.
Prese
in mano l’orologio e
guardò la lancetta delle ore: puntava dritta verso
l’altro Telly.
Carlos
deglutì. Non voleva
avvicinarsi, ma sembrava essere l’unico modo per recuperare
l’oggetto.
Fece
qualche passo e l’altro
Telly non si scompose.
«Dove
lo tieni? Dammelo
subito» provò ad ordinargli, sforzandosi di
sembrare più forte e sicuro che
poté, sperando di fargli almeno un po’ di paura,
ma Telly non si mosse.
«Io
so cosa cerchi, piccolo
Carlos, ma non ce l’ho io» rispose Telly atono,
senza modificare la propria
espressione mesta.
«Cosa
significa che non ce
l’hai tu? Bugiardo, lo so che ce l’hai!»
incalzo Carlos, dopo un istante di
confusione, ma fece giusto in tempo a finire la frase che
l’altro Telly fece
qualcosa di strano.
Carlos
restò immobile ad
osservare con disgusto.
Telly
aveva improvvisamente
buttato la testa all’indietro e aveva spalancato la bocca. Da
essa era
fuoriuscito un essere scuro e ricoperto di peluria. Aveva tanti piccoli
occhi
neri e si mosse velocemente con tutte le sue zampine.
Era
un ragno e teneva tra le
zanne acuminate qualche cosa che sembrava essere il caricatore di un
cellulare.
Carlos
non ebbe molto tempo
per pensare a quanto fosse disgustoso, perché la bestia
sgambettò via e
passandogli tra le gambe, in un batter d’occhio,
sgusciò fuori dalla porta.
Carlos,
anche se colto di
sorpresa, si voltò immediatamente con tutta
l’intenzione di rincorrerlo, ma si
sentì bloccato e sollevato da terra.
L’altro
Telly, alle sue
spalle, lo stringeva con le braccia.
Carlos
si dimenò più che poté
e lo riempì di calci, ma nulla sembrava fare effetto. Vide
il ragno correre giù
per le scale. Doveva liberarsi subito, o l’avrebbe
definitivamente perso di vista.
«Lasciami!»
gridò al culmine
della frustrazione, non sapendo più cosa inventarsi.
Poi
ebbe un’idea. Era
stupido, ma doveva provarci.
«Ti
lascerò tagliarmi i
capelli. L’altra madre sarà fiera di
te!» non appena pronunciò queste parole,
la presa sul suo corpo su allentò quel tanto che
bastò per farlo scivolare di
nuovo a terra. L’altro Telly allungò le braccia
per afferrarlo e costringerlo
ad adempiere alla sua proposta, ma Carlos non aveva alcuna intenzione
di
perdere tempo. Si lanciò all’inseguimento del
ragno e gli chiuse la porta in
faccia, il che gli diede un po’ di vantaggio.
Vide
il ragno in fondo alle
scale e corse più veloce che poté, ma ad un certo
punto mancò un gradino ed
inciampò, volando letteralmente giù per le scale.
Per
un momento pensò che
sarebbe morto. Avrebbe potuto battere la testa e tutto sarebbe finito
lì. E
poi, anche se fosse sopravvissuto, non sarebbe mai più
riuscito a raggiungere
il ragno e quindi non avrebbe recuperato il caricatore e
l’altra madre avrebbe
vinto. Gli avrebbe piantato le viti in faccia e gli avrebbe rubato
tutto ciò
che faceva di lui “Carlos lo scienziato”.
Atterrò
con un tonfo e si
rannicchiò, restando ad occhi chiusi. Non osava aprirli.
Aveva paura di
scoprire di avere le gambe rotte, di essere morto, o peggio: di non
vedere più
il ragno.
Si
sentiva tutto indolenzito.
«Credo
che questo ti serva»
sentì dire ad una voce familiare.
Aprì
subito gli occhi e trovò
davanti a sé Khoshekh.
Poco
più in là giaceva il
ragno in una pozza nera e proprio di fronte ai propri occhi, Carlos
vide il
caricatore.
«Sei
stato tu? Grazie,
Grazie!» esclamò abbracciando il gatto, che
però si divincolò e sfuggì
all’abbraccio.
«Credevo
di averti già detto
che non mi piacciono i ragni» commentò con
indifferenza il felino.
Carlos
rise, anche se qualche
secondo dopo emise un potente starnuto.
Si
asciugò il naso e mise in
tasca il caricatore.
Ora
gli restava soltanto un’
ultima cosa da trovare: i suoi genitori.