Film > Coraline e la Porta Magica
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Autore: AllHailTheGlowCloud    02/10/2014    0 recensioni
Crossover tra "Coraline e la porta magica" (in parte il film e in parte il libro) e il podcast "Welcome to Night Vale", ovvero i personaggi e vicende di WtNV riadattati e ambientati nel mondo di Coraline.
Dal testo: "«Oh, fantastico!» esclamò sarcasticamente, «un loop geografico!» per fortuna aveva già imparato a scuola come ci si deve comportare: mai evitare il centro del loop. Bisogna camminare dritti verso di esso e così facendo ci si troverà alla sua destra o alla sua sinistra.
Sì, ma non era quello che aveva fatto camminando nel corridoio? Aveva camminato dritto ed era finito di nuovo nel soggiorno! Si stava domandando come fare ad uscirne illeso, con una certa calma, sorprendentemente, quando sentì una voce chiamarlo dalla cucina. Sembrava la voce di sua madre."
Accenni di Cecilos (Cecil/Carlos).
Genere: Horror, Science-fiction, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: AU, Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Tornò in cucina e l’altra madre era ancora lì che lo aspettava, in piedi di fronte al tavolo sul quale giaceva la scatola – “come aveva promesso” pensò Carlos.

«Sei tornato, spero tu ti sia divertito. Ora è giunto il momento…» incominciò l’altra madre, ma questa volta fu il turno di Carlos di interrompere qualcuno.

«Non ancora» disse lapidario.

L’altra madre si irrigidì, visibilmente seccata e nei suoi occhi Carlos vide di nuovo quella furia che fino ad ora aveva solo creduto di intravedere.

Non si fece spaventare – o meglio, era spaventato, ma si fece forza e non lo diede a vedere.

«Prima voglio proporti una sfida, un gioco se preferisci.» sentendo queste parole, l’altra madre sembrò agitarsi ulteriormente e il suo sguardo si fece sempre più minaccioso, mentre il suo sorriso si allargò a dismisura.

«Oh, davvero? E che tipo di sfida sarebbe, sentiamo» rispose piegando la testa di lato. Era come se si sforzasse di restare ferma e posata mentre invece avrebbe voluto sfogare la rabbia – probabilmente direttamente su Carlos – il che non era così improbabile.

«Se io riesco a ritrovare i miei genitori e ciò che hai rubato alle due ragazze del luogo oltre lo specchio, tu ci lascerai liberi tutti quanti» spiegò Carlos, sforzandosi di non far tremare la voce.

L’altra madre quasi rise. Carlos rabbrividì. Non voleva sentire la sua risata.

«E se… mettiamo il caso… se tu perdessi?» chiese in tono palesemente ironico.

«Se perdo resterò qui con te e mi pianterai le viti nella faccia o qualunque altra cosa sia che fai ai poveri malcapitati che cadono nella tua rete.» riuscì a dire tutto d’un fiato, soprendendosi da solo del proprio coraggio. Infatti quella non gli sembrava una possibilità così remota e rischiava sempre più di diventare reale.

«Va bene allora. Accetto la tua sfida.» stava dicendo l’altra madre, ma Carlos la interruppe ancora.

«Aspetta! Devi darmi qualche indizio prima. Che aspetto hanno la libertà e la volontà?» chiese, ma non ottenne risposta.

L’altra madre si limitò a prendere in mano una delle viti dalla scatola e a rigirarsela tra le dita come un gioiello prezioso.

Carlos dubitava che quello fosse l’indizio che cercava. Capì che non avrebbe ottenuto niente e quindi si girò e si diresse fuori.

Da dove cominciare?

Si guardò intorno, ma era già stato nel giardino poco prima e non aveva notato niente. Non sapeva neanche se cominciare dai propri genitori o dalle ragazze, non sapeva dove cercare e, a dire il vero, neanche cosa cercare di preciso.

Poi si ricordò di ciò che gli avevano detto nel deserto dietro lo specchio.

“Guarda l’orologio” si ripeté, e fu ciò che fece. Lo estrasse dalla tasca e lo osservò. Si rese conto che c’era qualcosa di strano.

Le lancette giravano come impazzite, in direzioni diverse e molto velocemente, finché non si posizionarono in un certo modo. Non aveva senso che quella fosse l’ora esatta. Era ormai convinto da tempo che in quel luogo non esistesse nemmeno un’ ora esatta – né alcun tempo, in realtà.

Forse non aveva sentito bene. Non capiva come un orologio rotto potesse essergli utile. Provò a spostarsi, pensieroso, e vide che le lancette si muovevano ancora fino a tornare ad indicare la direzione che indicavano in precedenza, come una strana bussola con tre diversi nord.

Allora gli fu chiaro che le tre direzioni indicavano tre posti diversi in cui cercare. Eppure le cose che doveva trovare erano quattro, quindi forse avrebbe trovato due cose nello stesso posto, oppure una sarebbe rimasta esclusa… o non l’avrebbe trovata affatto.

Si disse che non era il momento di pensarci. Doveva trovare tutto ciò che riusciva a trovare prima che l’altra madre escogitasse qualcosa.

 

Seguì la lancetta sei secondi.

Questa lo portò di fronte alla porta dell’appartamento della signora Josie – cioè, della giovane altra Josie.

Fece un respiro profondo prima di aprire la porta e poi entrò di soppiatto, ma dentro tutto sembrava vuoto. Apparentemente non c’era nessuno, o almeno così credeva.

In fondo ad una pista c’era una cosa grande e informe, come un grumo di cose mescolate insieme.

Carlos guardò ancora la lancetta e questa puntava esattamente verso quella cosa.

Cautamente si avvicinò, ma non accadde nulla.

Da vicino poté vedere che la grossa massa era ricoperta di piume.

“Gli angeli” pensò.

La toccò e risultò appiccicosa, ma non viscida. Era morbida, fredda, incolore.

Riuscì ad aprire un varco e dentro quella sorta di guscio vide la cosa più orribile e spaventosa che avesse mai visto. Anche più spaventosa del sorriso dell’altra madre, forse. Sicuramente più disgustosa.

C’era una creatura lì dentro, ma anche questa era come un grumo di cose spiaccicate insieme.

Al centro riuscì a riconoscere i lineamenti della giovane Josie, mentre altre teste che spuntavano dalle spalle avevano volti irriconoscibili. Alcuni avevano solo occhi, altri solo bocche, altri assolutamente nulla.

In più, quella creatura aveva moltissime braccia che le spuntavano dai fianchi e dalla schiena. Le gambe non erano immediatamente riconoscibili e Carlos giunse alla conclusione che fossero tutte fuse insieme e che quindi quella cosa non dovesse essere in grado di muoversi – almeno così sperava.

Portò l’orologio davanti a sé e lo guardò ancora una volta, per sicurezza, e vide che la lancetta dei secondi puntava proprio in direzione di quella creatura.

Carlos deglutì e mise via l’orologio. Qualunque cosa fosse, doveva trovarsi lì dentro.

Osservò meglio e notò che effettivamente c’era qualche cosa.

Quattro delle grandi mani della creatura erano strette insieme e si rese conto che stringevano un oggetto. Era un rettangolo grigio scuro e lucido.

Molto lentamente e molto delicatamente, le manine di Carlos si avvolsero intorno a quelle grandi mani e un dito alla volta riuscì a liberare quasi del tutto l’oggetto che ora – essendo più visibile – si rivelò essere un cellulare.

Ora solo una mano lo stringeva ancora. Gli mancava poco per riuscire a liberarlo completamente, ma proprio quando ormai c’era quasi riuscito, la mano si chiuse di scatto e gli occhi del volto di Josie di aprirono di scatto, neri come sempre, scintillanti di furore puro.

Carlos fece un balzo indietro per lo spavento. Il cellulare che era riuscito ad afferrare gli cadde a terra, mentre la sua mano era intrappolata nella morsa della creatura.

«Ladro! Ladro!» gridò con una voce acuta e graffiante la creatura. Tutte le varie bocche sparse per il corpo si muovevano all’unisono e gridavano una singola parola, sempre più forte: «Ladro!»

Carlos strattonò con tutta la forza che aveva.

«Non sono un ladro! Non sono un ladro! Lei è una ladra! Questo oggetto non le appartiene, lo ha rubato! Lasciamelo prendere!» gridò con tutta la voce che aveva in corpo, tanto che la gola prese a fargli male non appena smise di parlare.

Le sue parole non sembrarono avere alcun effetto sulla creatura, ma per fortuna Carlos riuscì comunque a liberarsi dalla presa con uno strattone un po’ più forte. Indietreggiò e poi si fermò, osservando la cosa contorcersi a allungare tutte le braccia nella sua direzione, ma fortunatamente aveva immaginato bene: non poteva muoversi da lì.

Un po’ più tranquillo, si guardò intorno alla ricerca del cellulare, che scoprì giacere a terra poco distante da lui. Lo afferrò velocemente e si allontanò più rapidamente che poté da quel luogo infernale.

 

Ora che era uscito, non aveva tempo da perdere. Doveva immediatamente mettersi alla ricerca del prossimo oggetto.

Guardò l’orologio e sta volta decise di seguire la lancetta dei minuti.

Puntava dritta verso il giardino, così Carlos si avviò allontanandosi dalla casa.

Tutto era silenzioso, come era sempre stato in realtà, ma questa volta quel silenzio fece paura a Carlos, perché non sapeva cosa aspettarsi, ma sapeva che non sarebbe stato nulla di piacevole.

Arrivato al centro del giardino, scorse la tovaglia del picnic e tutti gli arbusti che una volta avevano ondeggiato e cantato per lui, ma adesso erano solo dei rami secchi e informi.

Anche la tovaglia poggiata a terra sembrava sporca e solitaria. Come se avesse qualcosa di vecchio che prima non aveva, e la schiena di Carlos fu percorsa da un brivido poco rassicurante.

Si fece forza e avanzò, ma si arrestò immediatamente quando sentì una sorta di brontolio provenire dai cestini da picnic posti disordinatamente sulla tovaglia.

Solo allora si accorse che in mezzo a quelli c’era qualcosa.

Non avrebbe saputo dire cosa da così lontano, quindi decise di avvicinarsi ancora un po’, fermandosi di nuovo quando sentì ancora quel brontolio.

In realtà da più vicino non era più un brontolio, era più un ronzio, come quello di un ingranaggio bloccato che non riesce a mettersi in moto e quindi ripete sempre lo stesso movimento nel tentativo di ripartire.

Carlos sospirò e guardò l’orologio. La lancetta dei minuti indicava proprio quel punto, ne era certo, quindi si fece coraggio e avanzò ancora di qualche passo.

«Cecil!» gridò, portandosi una mano alla bocca per lo spavento, mentre fissava con gli occhi spalancati lo spettacolo davanti a sé.

Infatti, buttato a terra come una bambola rotta, giaceva l’altro Cecil. I suoi arti erano piegati in modi anormali e la sua testa, anch’essa girata in modo innaturale, era come stata scuoiata, ma sotto di essa non c’era né carne né sangue, solo freddo metallo, circuiti esposti che ogni tanto ronzavano – ecco spiegata l’origine del suono che aveva sentito prima – e un liquido denso e scuro che colava dal suo orecchio e dal lato della bocca spalancata.

L’altro Cecil dovette vedere Carlos ad un certo punto, perché ebbe come un singulto, più come una vera e propria scossa, come cercò di muoversi, che gli percorse tutto il corpo per poi farlo tornare a giacere come prima.

Carlos, spaventato, ma soprattutto impietosito da quella scena, si avvicinò fino ad inginocchiarsi vicino all’altro. Non abbassò la guardia, ovviamente, ma in qualche modo sentiva di doversi avvicinare, e non solo per prendere l’oggetto misterioso, ma per qualche strano motivo che gli toccava il cuore.

In fondo, da quello che aveva capito dalla registrazione, l’altro Cecil non poteva essere cattivo, o almeno non del tutto, e forse non si fidava di lui, ma vederlo in quello stato gli fece molto male, come un pugno nello stomaco.

Capì che l’altro Cecil stava cercando di dire qualcosa perché si sforzava di muovere la bocca ed emetteva dei suoni sconnessi.

Finalmente riuscì a parlare, anche se la sua voce era distorta e le parole difficili da capire.

«Tu hai il mio registratore» disse, non sembrava una domanda, ma più una constatazione.

Carlos annuì e quasi senza pensarci lo tirò fuori dalla tasca e glielo fece vedere.

L’altro Cecil fece una smorfia. Era impossibile capire se fosse un sorriso, una smorfia di dolore o cos’altro, perché la sua faccia era parzialmente scoperchiata da quella specie di pelle che aveva e quindi inespressiva, mentre l’altra, ancora intatta, sorrideva sempre, come al solito.

«Cosa ti è successo?» chiese Carlos con voce tremante. Aveva paura di chiederlo perché temeva che la spiegazione fosse più orribile del vederlo così. Non è che non immaginasse già cosa potesse essere successo, in realtà.

«Tu cosa pensi?» domandò ironicamente il bambino biondo, con non poca fatica.

«E’ stata lei, vero?» chiese l’altro bambino.

«Non è stata contenta di sapere che avevi ascoltato le mie registrazioni. Pensava di averle cancellate tutte» spiegò e questa volta la smorfia che fece fu molto più simile ad un vero e proprio sorriso, anche se era evidente che gli costava fatica mantenerlo, perché lo fece solo per un paio di secondi e poi aggrottò le sopracciglia.

Carlos impiegò alcuni secondi a capire il senso delle parole che aveva ascoltato, poi lentamente i suoi occhi si fecero lucidi e cominciarono a riempirsi di lacrime, finché la vista divenne tutta sfocata e non fu più in grado di distinguere forme precise. Cercò di asciugarsi gli occhi con la manica del camice, ma la situazione migliorò solo parzialmente.

Improvvisamente aveva capito: il registratore non gli era stato rubato, o almeno non a sua insaputa. L’altro Cecil avrebbe voluto aiutarlo fin dall’inizio, ma non gli era stato possibile, poi l’altra madre lo aveva scoperto ed era finito in quel modo.

“E’ tutta colpa mia” queste parole si formarono spontaneamente nella mente di Carlos e non riusciva a scacciarle via. Come faceva a non sentirsi in colpa?

«Grazie» fu l’unica cosa che riuscì a dire. Cercare di non singhiozzare gli portava via molta concentrazione e la sua mentre era affollata solo da paura e sensi di colpa, quindi articolare qualcosa di più complicato era impossibile in quel momento.

Ancora con il registratore in mano, fece la cosa che gli sembrò più giusta: restituirlo al suo legittimo proprietario. Delicatamente, appoggiò l’apparecchio nella mano dell’altro Cecil e gliela chiuse intorno ad esso.

«Devi scappare via» rispose incoerentemente l’altro Cecil, cambiando discorso.

«Ma non posso! I miei genitori e le altre due--» iniziò a dire Carlos, ripresosi improvvisamente.

«No, no, non intendo… devi scappare via da me perché l’altra madre vuole che ti faccia del male» spiegò mentre un evidente velo di preoccupazione oscurava il suo volto.

«Ma non riesci neanche a muoverti, come potresti farmi del male?» chiese Carlos, sempre più spaventato e preoccupato.

«Tu non hai idea di cosa lei sia capace. Dammi retta. Tieni.» finì di dire aprendo una mano e porgendola a fatica all’altro bambino.

Conteneva alcuni fogli di carta accartocciati.

Carlos li prese e li distese meglio che poté e capì che erano pagine di un libro.

«Questo è…» iniziò a dire, ma l’altro lo interruppe.

«Quello che stai cercando. Ti serve. Adesso, per favore, vattene… per… favore…» pronunciò le ultime parole con ancora più fatica di prima e lentamente cominciò a mettersi in piedi.

Carlos come di riflesso si alzò e indietreggiò. Capì che l’altra madre lo stava controllando in qualche modo.

«Non devi farlo per forza, lo so che non vuoi farlo» provò a convincerlo.

«Non posso, è lei che me lo fa fare, non capisci? Non posso… Scusa!» fu l’ultima parola che disse mettendosi di nuovo in piedi per poi cominciare ad avanzare verso di lui.

Carlos indietreggiò, stringendo tra le mani quei preziosi fogli. Capì che ormai non c’era nulla da fare. L’altro Cecil non era più se stesso e non lo avrebbe più ascoltato, quindi doveva farsi forza e trovare il modo di fermarlo.

Infilò i figli in tasca e iniziò a guardarsi intorno alla ricerca di un’arma qualsiasi, ma non vedeva molte speranze, poi finalmente notò qualcosa scintillare sul prato a poca distanza da sé e dall’altro.

Capì di cosa si trattava e senza avere in tempo di pensare, con uno scatto corse a prenderle: erano le grosse forbici da potatura di Telly, che doveva aver dimenticato lì tra l’erba.

Erano così pesanti che dovette tenerle con entrambe le mani e le brandì contro l’altro per tenerlo lontano.

L’altro Cecil non sembrava affatto spaventato da quelle cose, nonostante fossero grandi e affilate, e Carlos non sapeva davvero cosa fare.

Non osava spingerle troppo avanti per paura di ferire l’altro, ma sapeva che si sarebbe reso necessario farlo. Non c’era altro modo di fermarlo, e se non l’avesse fatto ci avrebbe rimesso lui stesso e non poteva permetterselo, non ora ch era arrivato così avanti nella sua ricerca per salvare tutti quanti. Però sapeva anche che non avrebbe potuto considerarsi soddisfatto, pur salvando tutti, se non avesse salvato anche l’altro Cecil.

Mentre indietreggiava, sempre tenendo le forbici puntate davanti a sé, e rifletteva su tutto questo e su cosa fare, accadde qualcosa che lo colse di sorpresa e congelò il suo fiume di pensieri all’istante.

L’altro Cecil era ad una distanza fin troppo ravvicinata e gli sorrideva con un ghigno enorme e sporco di quella sostanza nera e viscosa.

Le mani di Carlos tremavano tanto che riusciva a stento a reggere ancora le pesanti forbici. Forbici che erano profondamente infilzate nel corpo dell’altro Cecil all’altezza dello stomaco. Carlos si sarebbe chiesto se lo avessero trapassato da parte a parte, ma non voleva pensarci e anche volendo non avrebbe potuto perché in quel momento si sentiva come se fosse stato lui quello trafitto nello stomaco.

Boccheggiò e trattenne il respiro senza neanche accorgersi.

Avrebbe voluto urlare e avrebbe sicuramente pianto, ma per lunghissimi secondi, invece, rimase immobile e in silenzio, osservando impotente il corpo dell’altro fermarsi piano piano. Le braccia del biondo scivolarono lungo i fianchi, la testa cadde da un lato e poi le gambe cedettero e precipitò al suolo, trascinandosi dietro le forbici e per poco anche Carlos stesso.

«Cosa hai fatto?» riuscì a dire Carlos, inginocchiatosi di nuovo accanto all’altro, con una voce così flebile da essere quasi inudibile.

«Non è finita qui. Corri. Non… hai… molto tempo» rispose l’altro Cecil con voce leggermente metallica, incapace di fare altro che parlare, anche se anche questo si sarebbe reso presto impossibile probabilmente.

«No, no! Non… non posso farcela da solo! Per favore, per favore…» mormorò ancora Carlos, stringendo così forte le mani dell’amico – che a loro volta stringevano ancora il registratore – che se l’altro Cecil fosse stato un semplice essere umano, probabilmente gli avrebbe fatto male.

Carlos vide la vita scivolare via dagli occhi completamente neri dell’altro, anche se questi rimasero aperti e il suo sorriso ancora intatto, e capì che era finita per il suo amico.

Per lui però non era affatto finita. C’erano ancora delle cose che doveva trovare – persone che doveva salvare.

Se non aveva salvato l’altro Cecil, avrebbe comunque salvato tutti gli altri – questa fu una sorta di promessa che fece a se stesso e all’altro Cecil.

Tirò su col naso e si asciugo velocemente gli occhi con una manica e poi guardò l’orologio.

La lancetta delle ore puntava verso l’appartamento del piano di sopra, dove viveva l’altro Telly.

Salì le scale di corsa, fino a trovarsi davanti alla porta.

Nel suo mondo, non aveva mai voluto attraversare quella soglia perché l’appartamento del vero Telly puzzava in modo disgustoso.

In realtà, non aveva idea di cosa avrebbe trovato lì dentro.

Aprì lentamente la porta e con molta cautela osservò bene tutti intorno prima di entrare.

Era buio e non sembrava esserci nessuno. Sarebbe stato difficile trovare qualcosa lì dentro.

Improvvisamente una piccola luce si accese e Carlos sobbalzò trovandosi davanti proprio Telly, illuminato a mala pena.

Era malconcio, seduto su una sedia da barbiere al centro della stanza.

Non era ridotto diversamente dall’altro padre, quando lo aveva trovato nel suo studio. Pensò che forse anche lui aveva provato a fare una foto a Khoshekh, ma non ebbe tempo di portare avanti le sue elucubrazioni perché l’uomo parlò.

«Perché non resti qui? Potrei fare altri spettacoli per te e potrei tagliarti i capelli se tu lo volessi. La tua altra madre ti vuole bene, vuole che tutti siamo produttivi al massimo per rendere questo posto perfetto per te» disse borbottando al limite del comprensibile.

«Allora proprio non capisci? Io non voglio un mondo perfetto, e poi questo qui non è perfetto in ogni caso. L’altra madre non sta facendo un bel lavoro» ribatté secco Carlos, ancora pieno di rancore per ciò che era successo poco prima.

«Hai ragione, non capisco. Del resto sono solo un povero barbiere… anzi, non sono sicuro di essere neanche questo, ormai» Carlos non capì questa risposta, ma non se ne curò e iniziò a guardarsi intorno alla ricerca di qualunque cosa che potesse aiutarlo, ma non sapeva neanche cosa stava cercando.

Prese in mano l’orologio e guardò la lancetta delle ore: puntava dritta verso l’altro Telly.

Carlos deglutì. Non voleva avvicinarsi, ma sembrava essere l’unico modo per recuperare l’oggetto.

Fece qualche passo e l’altro Telly non si scompose.

«Dove lo tieni? Dammelo subito» provò ad ordinargli, sforzandosi di sembrare più forte e sicuro che poté, sperando di fargli almeno un po’ di paura, ma Telly non si mosse.

«Io so cosa cerchi, piccolo Carlos, ma non ce l’ho io» rispose Telly atono, senza modificare la propria espressione mesta.

«Cosa significa che non ce l’hai tu? Bugiardo, lo so che ce l’hai!» incalzo Carlos, dopo un istante di confusione, ma fece giusto in tempo a finire la frase che l’altro Telly fece qualcosa di strano.

Carlos restò immobile ad osservare con disgusto.

Telly aveva improvvisamente buttato la testa all’indietro e aveva spalancato la bocca. Da essa era fuoriuscito un essere scuro e ricoperto di peluria. Aveva tanti piccoli occhi neri e si mosse velocemente con tutte le sue zampine.

Era un ragno e teneva tra le zanne acuminate qualche cosa che sembrava essere il caricatore di un cellulare.

Carlos non ebbe molto tempo per pensare a quanto fosse disgustoso, perché la bestia sgambettò via e passandogli tra le gambe, in un batter d’occhio, sgusciò fuori dalla porta.

Carlos, anche se colto di sorpresa, si voltò immediatamente con tutta l’intenzione di rincorrerlo, ma si sentì bloccato e sollevato da terra.

L’altro Telly, alle sue spalle, lo stringeva con le braccia.

Carlos si dimenò più che poté e lo riempì di calci, ma nulla sembrava fare effetto. Vide il ragno correre giù per le scale. Doveva liberarsi subito, o l’avrebbe definitivamente perso di vista.

«Lasciami!» gridò al culmine della frustrazione, non sapendo più cosa inventarsi.

Poi ebbe un’idea. Era stupido, ma doveva provarci.

«Ti lascerò tagliarmi i capelli. L’altra madre sarà fiera di te!» non appena pronunciò queste parole, la presa sul suo corpo su allentò quel tanto che bastò per farlo scivolare di nuovo a terra. L’altro Telly allungò le braccia per afferrarlo e costringerlo ad adempiere alla sua proposta, ma Carlos non aveva alcuna intenzione di perdere tempo. Si lanciò all’inseguimento del ragno e gli chiuse la porta in faccia, il che gli diede un po’ di vantaggio.

Vide il ragno in fondo alle scale e corse più veloce che poté, ma ad un certo punto mancò un gradino ed inciampò, volando letteralmente giù per le scale.

Per un momento pensò che sarebbe morto. Avrebbe potuto battere la testa e tutto sarebbe finito lì. E poi, anche se fosse sopravvissuto, non sarebbe mai più riuscito a raggiungere il ragno e quindi non avrebbe recuperato il caricatore e l’altra madre avrebbe vinto. Gli avrebbe piantato le viti in faccia e gli avrebbe rubato tutto ciò che faceva di lui “Carlos lo scienziato”.

Atterrò con un tonfo e si rannicchiò, restando ad occhi chiusi. Non osava aprirli. Aveva paura di scoprire di avere le gambe rotte, di essere morto, o peggio: di non vedere più il ragno.

Si sentiva tutto indolenzito.

«Credo che questo ti serva» sentì dire ad una voce familiare.

Aprì subito gli occhi e trovò davanti a sé Khoshekh.

Poco più in là giaceva il ragno in una pozza nera e proprio di fronte ai propri occhi, Carlos vide il caricatore.

«Sei stato tu? Grazie, Grazie!» esclamò abbracciando il gatto, che però si divincolò e sfuggì all’abbraccio.

«Credevo di averti già detto che non mi piacciono i ragni» commentò con indifferenza il felino.

Carlos rise, anche se qualche secondo dopo emise un potente starnuto.

Si asciugò il naso e mise in tasca il caricatore.

Ora gli restava soltanto un’ ultima cosa da trovare: i suoi genitori.

 

  
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