Tre
ore di gioco. Tre ore di dritti, rovesci e finte
in un clima tipico del febbraio inglese, in quanto era in Inghilterra
che la
Muscle League aveva giocato il suo primo -ed ultimo- torneo di tennis.
Tre.
Lunghissime.
Ore.
E
tutto questo per cosa?
«dai
Robin…è stata comunque una finale molto
combattuta…abbiamo dato loto filo da torcere».
Alla
moglie, Mr. Mask rispose con un mezzo sbuffo e
mezzo ringhio dopo aver rotto la racchetta in un moto di pura stizza.
«i
secondi sono solo i primi tra i perdenti!»
Ecco,
quella sua fissa per la vittoria era uno dei
tanti motivi per i quali Alisa iniziava proprio a non poterne
più. A pensare di
lasciare suo marito e basta, invece di accontentarsi di qualche
scappatella…anche
se quella con Quarrelman, che andava avanti ormai da agosto
dell’anno prima,
sembrava stare diventando qualcosa di molto più serio.
Quarrelman,
buon Dio. Quarrelman. O
Neptuneman, che dir si voglia. Se ad Alisa lo
avessero detto un anno prima, non ci avrebbe creduto. Eppure era andata
proprio
in quel modo, si erano incontrati, si erano piaciuti, e
poi…era accaduto quel
che era accaduto.
E
che continuava ad accadere da ben sette mesi.
Alisa
non osava immaginare la reazione che avrebbe
avuto Robin se disgraziatamente avesse scoperto per puro caso della sua
relazione extraconiugale anche se, sinceramente, l’amore e
l’affetto che li
avevano indotti a sposarsi non esistevano più da tempo. Il
troppo odio verso i
Kinniku, con i quali solo di recente aveva finito per seppellire
l’ascia di
guerra, aveva consumato il suo Robin al punto che spesso stentava a
riconoscerlo. Più volte Alisa si era trovata ad avere a che
fare con il
Barracuda, invece che con il suo amato. E non era facile.
Per
niente.
«…e
ora che
fa?!...»
E
c’era da dire che il cosiddetto “migliore
amico” di
suo marito -con il quale peraltro era stata a letto circa sei anni
prima- non
facilitava le cose.
«grazie,
grazie, vi ringrazio, eh si, una vittoria
tanto sudata quanto meritata, grazie, grazie…»
Nonostante
il bene che gli voleva, in quel momento
Robin avrebbe soltanto voluto avere un’altra racchetta tra le
mani per poterla
spaccare in testa al ventiquattrenne che, come aveva appena pensato
anche
Alisa, avrebbe dovuto essere il suo “migliore
amico”. O qualcosa del genere.
«grazie,
grazie…un autografo? Ma certo! Anche due! Come
si chiama la bambina?...”ad Eloisa con
simpatia”…»
Ma
Robin non era il solo poco contento da quel che
stava facendo Howard, ossia fare il giro dello stadio per stringere la
mano e
fare autografi a tutti quelli che glielo chiedevano, nemmeno avesse
appena
vinto a Wimbledon; infatti nemmeno Lionel Lancaster apprezzava quel
lato del
cugino, tanto che alzò gli occhi al cielo emettendo un breve
sbuffo con aria
piuttosto seccata.
Voleva
bene ad Howard, ma non per questo era cieco
riguardo i suo difetti, come la sua megalomania, la sua
teatralità a volte
quasi eccessiva anche -e soprattutto- quando questa non era minimamente
necessaria.
Come
in quell’occasione, per esempio. Avevano vinto
di poco, e nemmeno grazie a lui, ma ad un rovescio micidiale di Lionel
stesso,
quindi Howard avrebbe avuto ben poco per cui andare in giro a stringere
mani e
fare autografi. Iniziava a pentirsi di essersi lasciato convincere a
venire via
da Belfast, nella quale si era trasferito da appena un anno, per farsi
coinvolgere in quel torneo. Ma Howard era stato in grado di toccare la
corda
giusta, ossia la sua grande passione per il tennis, ed ecco che -come accadeva quasi sempre-
aveva ottenuto quel
che voleva.
Di
una cosa però era certo…
«…siete
tutti invitati nella mia villa per festeggiare
degnamente questa vittoria!»
…non
lo avrebbe portato con sé nel viaggio in
Croazia che intendeva fare a breve.
Assolutamente
no.
“aveva
detto che non avrebbe dato feste folli, scemo
io che ho voluto credergli!” pensò il marchese
trentatreenne trovandosi a
scuotere la testa con aria ancor più seccata di prima.
Eppure Howard lo sapeva
che lui non amava granché la vita mondana. Soprattutto come
la intendeva lui,
ed il modo in cui Howard la intendeva non era cambiato quasi per nulla
nonostante
fosse sposato da passa quattro anni e lui e Janice stessero provando ad
avere
figli.
Ad
ogni modo vedendo le occhiate mortifere che Robin
Mask stava rivolgendo ad Howard, che probabilmente non se ne stava
accorgendo
nemmeno, decise di provare a calmare un po’gli animi. Si
avvicinò alla rete.
«non
prendertela» Howard aveva presentato lui e
Robin già da prima, e si era deciso di darsi reciprocamente
del “tu” «lo sai
che ad Howard piace fare teatro. I megalomani sono
megalomani».
«ma
chi diamine si crede di essere, John McEnroe?!»
sbottò l’inglese mascherato afferrando la
racchetta della moglie e…rompendo
pure quella.
«Robin!!! La
racchetta!» protestò Alisa.
«non
seccarmi, non è il momento!» fu la dura
risposta dell’inglese, che a Lionel non piacque affatto, ma
non essendo fatti
suoi rimase in silenzio a riguardo «ma guardatelo, nemmeno
avesse appena vinto
gli Open statunitensi! Che poi, il punto che vi ha fatti vincere
l’hai fatto tu. Ma non
sei andato a stringere la
mano a tutto lo stadio!»
Poteva
sembrare assurdo che ce l’avesse con Howard
pure se ad averli battuti era stato Lionel. Ma Lionel era il tipo di
persona
che non rompeva minimamente le scatole al prossimo -privo, oltretutto,
anche
della mania di ficcanasare posseduta da vari Lancaster di discendenza
diretta- e
non sembrava eccentrico come il cugino, sul quale peraltro non si era
risparmiato nel dare un giudizio non proprio edificante ma oltremodo
realista.
«beh,
mettila così… i parenti non si possono
scegliere» e comunque nonostante i difetti Lionel ad Howard
voleva bene, al di
là di quel che stava dicendo «ma gli amici
sì. Puoi sempre togliergli il
saluto».
«giusta
osservazione» disse Alisa, tentando di
entrare nella conversazione.
“i
parenti non te li scegli…ma ti scegli sia gli amici
che i mariti!”
pensò la donna, il cui
pensiero tornò a Neptuneman.
Alle
parole del marchese Robin iniziò a borbottare
insensatezze varie, sempre guardando male Howard che ancora era a poco
più
della metà del suo giro.
Lionel
poteva non avere torto, ma per quante
arrabbiature l’atteggiamento di Howard potesse provocargli,
Robin sapeva che
difficilmente avrebbe finito per togliergli veramente il saluto.
Avrebbe dovuto
capitare qualcosa di veramente grave tra loro due
perché
questo succedesse, e francamente Robin
sperava che ciò non avvenisse mai.
Era
vero. Howard Lancaster era megalomane.
Teatrale.
Con
la tendenza a prendere troppo sul serio il motto
di famiglia, “We can”.
Eccentrico
al punto che chi, come lui, lo conosceva
particolarmente bene a volte avrebbe potuto arrivare quasi a definirlo
un
pazzo.
Un
pazzo spericolato che guidava a trecento all’ora
sbagliando strada e portando la gente in locali equivoci, per poi far
bere come
una spugna la suddetta gente -ossia Robin stesso- e ballare Y.M.C.A.
sempre con
suddetta gente ed un mucchio di drag queen.
Un
pazzo che da più giovane si era divertito a fare
lo spogliarellista.
Che
suonava divinamente il violino, ma non era in
grado di disegnare un pallone da calcio.
Che
in quel periodo stava contemporaneamente dietro
agli studi universitari alla Winchester, alla moglie,
all’insegnare nella
Scuola di Ercole ed anche alle attività del padre Hogan, e
tanto riusciva a
trovare pure il tempo di uscire con lui, come se avesse avuto a
disposizione
una giornata di trenta ore invece che ventiquattro.
«mpf.
Tsk. Meglio lasciar perdere và…lasciamogli
fare il cretino».