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Autore: melory_    04/10/2014    2 recensioni
“Dio, è meraviglioso.” Pensai.
-Acida. Volgare. Presuntuosa. Egoista. Stupida. Egocentrica. Bassa. Incapace. Idiota. Distratta…-
Era lì, così vicino a me, ma allo stesso tempo lontano, lontanissimo, irraggiungibile.
E infine, conobbi la promessa più forte che nessuno mi aveva mai fatto “ci vediamo domani.”
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Era una giornata qualunque e non c’era un gran sole là fuori, alcune nuvole coprivano il cielo celeste e gli alberi stavano appena fiorendo. Sì, era primavera, ma non quelle primavere che tutti sognano, quelle composte dai fiori rosati dei ciliegi, quelle con il sole splendente o con le rose completamente fiorite, no. Quella era la mia primavera, quando non fa troppo caldo per stare sotto le coperte o troppo freddo per non mettere le magliette maniche corte.

Non stavo facendo niente, per quanto mi ricordo, forse leggevo, ma non ricordo nemmeno cosa.
Allora mi cambiai, misi dei jeans azzurri e una canottiera verde. Raccolsi i capelli in uno chignon, lasciando alcuni capelli fuori. Non mi truccai, non lo faccio mai, non copro mai i miei occhi color cioccolato e nemmeno metto il profumo, in modo che chiunque possa sentire il mio odore naturale.
Uscii.
Misi le cuffiette nelle orecchie, le converse ai piedi e il telefono in tasca.
La città era quasi vuota, non esce mai nessuno il pomeriggio, perché abito in un piccolo paese. Gli alberi erano bellissimi, ricordo ancora come splendeva il loro sorriso. Era tutto meraviglioso, finché non lo vidi.
Lui, con i suoi occhi celesti e profondi, il suo sorriso, i suoi capelli marroni, il suo stile. Lui.
“Dio, è meraviglioso.” Pensai e mi accorsi di iniziare ad arrossire.
“No, no. Cosa?! No.”
Era così alto ed io così bassa. Mi sentivo inferiore, brutta, inutile, mi attraversarono la mente tutti i miei difetti.
-Acida. Volgare. Presuntuosa. Egoista. Stupida. Egocentrica. Bassa. Incapace. Idiota. Distratta…-
Era lì, così vicino a me, ma allo stesso tempo lontano, lontanissimo, irraggiungibile. Abbassai un po’ il volume della musica, in modo che lui non possa sentirla, mi sistemai al meglio, deglutii velocemente e presi il telefono per far finta di scrivere un messaggio, così da evitare il suo sguardo.
Mi batteva forte il cuore e sudavo. Perché sudavo? Stavo male, perché?
Passò vicino a me facendo un sorrisetto per salutarmi ed io non ricambiai. Che stupida che sono stata, avrà sicuramente pensato che sono maleducata. Ma aveva un profumo buonissimo, che non dimenticherò mai.  Chiusi gli occhi per un momento alzando lo sguardo al cielo.
Mi sedetti su una panchina ad ascoltare musica per un po’, finché non mi stancai e tornai a casa.
Quella notte lo sognai, eravamo io e lui che lo facevamo. Ci amavamo alla follia e facevamo l’amore.
Sorridevamo, stanchi e sudati, ma ci amavamo.
Era il sogno più bello che abbia mai fatto in tutta la mia vita, era tutto tranne che realizzabile.
Lui era come quelle cose che vuoi e non puoi. Come quelle scarpe, che però costano troppo, come quel viso che hai sempre voluto, come quel fisico che non possederai mai, come quei capelli dannatamente perfetti. Tutto, ma niente.
Quella mattina non mangiai, come non facevo da un po’, non feci nulla, tranne che restare con le cuffiette infilate nelle orecchie a sentire le stesse tre canzoni. Quel giorno pioveva, perciò indossai una felpa che mi stava piuttosto grande, era nera e grigia e andai a scuola.
Lui era sulla porta del liceo ad aspettare i suoi amici, mentre io ero con i miei in fondo alle scale e parlavano del più e del meno. Io non lo fissavo, però sapevo che era lì ed avrei preferito mille volte di più stare tra le sue braccia a fissare i suoi occhi invece che stare qui.
Non parlai del mio sogno con nessuno, mi sembrava stupido, come tutto quello che faccio.
Ogni volta che devo parlare davanti ad un pubblico, ogni volta che devo attraversare una stanza, ogni volta che devo dare la mia opinione, ogni volta che devo fare qualcosa alla quale non mi sento all’altezza ho paura, sudo e mi batte forte il cuore e naturalmente mi sento stupida.
Così non vivo bene, mi racchiudo sempre in me fino ad esplodere.
Vorrei solo essere felice, vorrei semplicemente che i miei genitori non si siano separati, che mio fratello non se ne sia andato e vorrei solo avere un vero amico su cui contare. Probabilmente chiedo troppo, già.
Tornai a casa a piedi come faccio di solito e lui era con i suoi amici e rideva.
Era felice, come sempre.
Io lo ero per lui e quando gli passai accanto, mi esplose il cuore e rimasi senza fiato per un po’, come quando sei sulle montagne russe e fai una discesa, quella sensazione di vuoto quando pensi di cadere dal letto e stai ancora dormendo. Accesi una sigaretta e mi sedetti sulla mia panchina.
“Ok, devo smetterla di essere così” pensai, stringendo l’accendino nella mano sinistra “non ne vale la pena, lui nemmeno mi conosce. Non sa il mio nome. Non sa nemmeno che esisto.”
Che esistessi, lo sapevano ben in pochi. I miei professori quando dovevano interrogarmi, mia mamma e basta.
Mi scrollai quei pensieri dalla mente e spensi la sigaretta sulla panchina, lasciandone il segno.
Appena arrivai a casa mia mamma non c’era –come sempre- mi feci un caffè.
Bevevo quel caffè, reso dolce dalle zollette di zucchero, come se fosse l’unica cosa dolce che potessi permettermi. Mi dedicai alla stesura di un tema, il cui titolo era “il mio sogno”.
Ma cosa potevo scrivere? L’unico sogno che avevo in quel momento era lui. Magari averlo lì con me, mentre ci abbracciavamo e ci baciavamo.
Buttai giù qualche idea, ma non era sufficiente. La cosa m’importava ben poco.
Il giorno dopo successe la stessa cosa, io che mi alzavo, che mangiavo, andavo a scuola, lo vedevo a ricreazione, lo rivedevo tornare a casa, fumavo, bevevo caffè su caffè e dormivo.
Ormai era diventata una routine e ogni giorno vedevo il mio sogno, quel sogno dagli occhi azzurri e dal sorriso smagliante, scomparire davanti alla mia vista.
Ma accadde una cosa, un venerdì, lui venne da me. Ero sulla mia panchina e mi chiese:
“Hai da accendere?”
Sentii il mio viso diventare più caldo, significa, che stavo arrossendo. Era solo, i suoi amici non c’erano e anche io ero sola. Io l’accendino ce l’avevo in mano, ma mi piegai verso lo zaino per far finta di prenderlo e glielo porsi sulla mano che avevo steso davanti a me.
Accese la sigaretta e poi me lo tornò.
“Tienilo.” Dissi con il tono più freddo che c’era in me. Mi sentivo stupida e mi sentii ancora di più quando si sedette lì accanto a me.
“Grazie, sei gentile.” Rispose sorridendo. Non mi voltai nemmeno a guardarlo. Mi sarei imbarazzata
ancora di più.
“In che classe sei tu?” Mi domandò.
“Seconda a, tu?” Cercai di apparire più cordiale possibile, ricordo che sorrisi, o almeno ci provai.
“Terza c, sembravi più grande.”
Non capii se quel “sembravi più grande”, era ironico oppure no. Quindi mi limitai a sorridere, facendo finta di aver capito. Quando entrambi finimmo la sigaretta, io, come al solito, la spensi sulla panchina, mentre lui la gettò a terra, calpestandola.
“Come mai la spegni lì?”
“Abitudine, non è un bel gesto gettarla a terra.”
“Ah, nemmeno fumare è un bel gesto, sai?”
“Si lo so.”
Sapevo che non è bello vedere una ragazza fumare e con l’odore di caffè che la circonda, ma poco m’importava.
“è strano” continuò alzandosi “non mi hai detto il tuo nome.”
“Kedrinne. Il tuo?”
“Josh. Kedrinne, eh? Allora ci vediamo domani.” Sorrise e se ne andò.
“Si chiama Josh.” Pensai. Sapevo il suo nome e ci avevo parlato. Sapevo anche in quale classe andava. E conoscevo il suo sorriso, così candido, così bello, solo perché era suo e doveva diventare mio.  E infine, conobbi la promessa più forte che nessuno mi aveva mai fatto “ci vediamo domani.”
Stanne sicuro, Josh.
Non bevvi caffè e non fumai, non lo feci per giorni, perché in quei giorni continuavamo a vederci e ogni tanto fumavamo, ma mai tanto. Mi trovava simpatica, mi trovava e basta. Questa era l’unica cosa importante, veramente. Mi trovava ogni giorno lì sulla panchina, mentre leggevo, o mangiavo.
Stavamo crescendo insieme.
Giorno dopo giorno, tra risate e gelati ci conoscevamo sempre meglio. Sapevo quasi tutto di lui.
Mi disse com’era stata la sua prima volta. Disse che non era bello come tutti se lo immaginano, non era bello come viene descritto nei libri, non era bello per niente. La ragazza stava male.
E lui pure.  Mi raccontò solamente questo, ma io non gli parlai. Non avevo avuto una “prima volta”. Volevo fosse lui, non dicevo di amarlo, perché è difficile amare qualcuno, solo i bambini piccoli sanno amare veramente; gli adulti no.
Non lo amavo. Per niente, mi piaceva soltanto. Infatti era come quella piccola stella luminosa che vedi quando brilla nel cielo e sai che non riuscirai mai a vederla da vicino che ti scotterai. Ogni volta che lo vedevo pensavo:
“Guarda Dio che diamine ha creato.”
Nei suoi occhi potevo annegarci e nel suo sorriso sprofondare. Ma, oh no, questo non amore. Amore non è quando due si baciano, quando due stanno sempre insieme, quella è una cotta. Amore è quando lo vedi girato di spalle, distante tre chilometri da te e lo riconosci nella massa. Amore è quando vi salutate con un sorriso, senza dire “ciao”, è quando chiudi gli occhi e ti addormenti pensando solo a lui. A me questo non succedeva.
Quel giorno pioveva, misi le cuffiette nelle orecchie e m’ incamminai, d’altronde la pioggia non era molto violenta, anzi era quasi piacevole sentire delle gocce sulla testa.
Quel giorno lo rividi, come accadeva sempre, da ormai un anno.  Si, era già passato un anno. Intanto lui era stato con una ragazza e con molte “da una botta e via.” Eravamo diventati amici.
Hai presente quegli amici che non si salutano mentre sono per strada, ma si corrono direttamente incontro? Quelli che tutti vedono e dicono “quei due  sono insieme ogni giorno.”
Lui non era mai venuto a casa mia e io nemmeno a casa sua, ma forse era meglio. Se fosse entrato in casa mia avrebbe visto un disastro.
Mi tirò verso di lui stringendomi per il fianco sotto l’ombrello. Mi sorrise e mi diede un bacio sulla fronte.
“Ei.” Sussurrò.
Lo presi anche io per il fianco e lo strinsi salutandolo.
L’ odore dell’ umidità aumentava e anche un po’ il freddo. Ricordo quel giorno come se fosse ieri, faceva un po’ freddo, novembre era alle porte. Entrambi avevamo smesso di fumare, bevevamo caffè solo per stare insieme. Quel giorno andammo in biblioteca, era un luogo comune dove ci incontravamo quando pioveva.
“Andiamo a casa tua?” mi chiese.
L’ aveva fatto. Era la prima volta che mi chiedeva di venire a casa mia, non volevo perché avevo paura di quello che potesse accadere. Lo avremmo fatto?
Avevo paura, tanta. Ero ansiosa di rispondergli, il caldo mi soffocava, la biblioteca perse il suo colore arancione e avvenne tutto lì, in quella stanza circondata dall’odore del caffè che avevamo appena bevuto, con i sussurri dei bambini mentre leggevano.
“Scusa, ma…”
Mi capii. Nessuno aveva mai capito le mie parole. Anche se erano tre misere sillabe, lui mi capì:
“Tranquilla, vieni a casa mia.”
Non sapevo il motivo, ma casa sua sembrava più sicura e poi, di lui mi fidavo, eccome.
Ci incamminammo, la strada era un po’ lunga. Nella mano sinistra avvolgevo un libro che avevo preso in biblioteca, l’altra era avvolta intorno alla sua vita.
Ad un momento si fermò. Prese il pacchetto di sigarette e c’erano ancora due dentro, di cui una capovolta.
“Avevi detto che avevi smesso di fumare.” Dissi.
“Vedi, questo pacchetto l’avevo comprato il giorno in cui ti ho conosciuta. Io ce l’avevo l’accendino, ma volevo conoscerti, all’inizio non avrei mai pensato che questa poteva diventare una storia seria, da allora non ho più fumato. Però avevo girato una sigaretta e avevo espresso un desiderio.” Replicò sorridendo, come solo lui sapeva fare.
“Che desiderio?” Chiesi.
“Eh, non posso dirtelo, altrimenti non si avvera. Adesso, so che non vuoi, ma ti chiedo di fumare un po’ di quella lì capovolta.”
La presi, alzando un po’ le spalle e l’accesi. La pioggia continuava a cadere sull’ombrello ed io fumai, non tutta, ma un po’. Poi la lasciai cadere a terra, lui si chinò e la spense sulla mia panchina, dicendo che non è un bel gesto gettarla per terra. Gli diedi ragione e sorrisi.
Eravamo sotto l’ombrello, non c’era nessuno in quella piccola strada, solo io e lui. Lo guardai negli occhi e sorrisi nuovamente. Lui era serio e tremava, mi prese il mento e lo sollevò. Mi sfiorò le labbra e sorrise, ridemmo entrambi. Misi una mano dietro alla nuca e gli accarezzai i capelli lo baciai.
Lasciò cadere per terra l’ombrello e la pioggia iniziò a cadere sulle nostre teste. Le nostre lingue s’incontravano per la prima volta e giocarono.
Era bellissimo, non potevo dire di amarlo, non lo amavo. Ma quel bacio era il nostro segno, che sarebbe rimasto per sempre.
Una volta arrivati a casa sua, la trovammo deserta.
“Giusto i miei sono a lavoro fino a domani, dovevano fare una conferenza. Scusa, mi ero dimenticato, se vuoi ti riaccompagno a casa…”
“No.” Dissi.
Era tardi, erano le dieci. Josh prese il gelato e ne mangiammo un po’ mentre guardavamo la televisione.
Se ripensavo a quello che era successo prima mi veniva da sorridere, infatti ogni tanto sorridevo e mi chiedeva il motivo. Non rispondevo e mi accovacciavo accanto a lui, sempre più vicino.
Andai in camera sua per mettermi una sua maglia, dato che la mia era ancora bagnata.
A quel punto arrivò anche lui dicendo:
“Ho chiuso la tv, sono un po’ stanco, mi vado a lavare e dopo dormiamo.”
Mi distesi nel suo letto, profumava di lui. Era bellissimo, ero divertita e un po’ impaurita.
Tornò.
Sorrideva, come sempre faceva. Aveva quel sorriso che ti trasmette felicità. Si sedette sul letto e io mi misi accanto a lui.
“Ei, che hai?” chiesi preoccupata.
“Niente.” Rispose ironicamente.
Mi misi di fronte a lui in piedi e incrociai le braccia, rifacendo la domanda. Lui mi prese per i fianchi e mi avvicinò a lui. Il mio viso arrivava al suo.
Mi baciò ancora e ancora. Ad ogni bacio sorridevamo, le sue mani scesero sul mio fondoschiena e mi avvicinò ancora di più a lui. Lo lasciai fare, non so cosa mi spingeva a lasciarglielo fare.
Mi misi in braccio a lui, eravamo ancora seduti e continuavamo a baciarci, senza riuscirci a fermare e ridevamo tantissimo.
Mi tolse la maglia ed io feci lo stesso.
Lo spogliai fino a farlo rimanere in boxer ed io in intimo.
Io sotto e lui sopra, a baciarci fino a sfinire.
E facemmo l’amore come avevo sempre sognato, con i suoi occhi azzurri dentro i miei. Con dei sorrisi maldestri.
Riuscimmo ad addormentarci solo verso le quattro io tra le sue braccia, più vicini che mai, il suo calore contro il mio e la felicità del suo cuore nella mia.
L’unica cosa che mi disse prima di addormantarmi su.
“Ei, ti ricordi della sigaretta che ti avevo fatto fumare ieri pomeriggio? Che ti avevo detto che rappresentava un mio desiderio, un sogno.
Bè, Kedrinne, quel sogno eri tu.”

 

  
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