Note
autore:
Salve a tutte/i!^^
Non
sono certa di come questa storia sia nata nella mia mente, di come si
sia
sviluppata e di come sia arrivata ad essere abbastanza logica da
convincere me
stessa a pubblicarla ma ormai è cosa fatta. Un paio di
precisazione prima di
iniziare, altrimenti non sarei io, che ovviamente potete ignorare. ^^
Prima
cosa: in principio, nella mia testa, doveva venire una cosa leggera di
qualche
riga ma, come sempre, è andata ad espandersi fino a divenire
una storiella tutt’altro
che breve, spero non annoi.
Seconda
cosa: il tema halloweeniano non c’è, è
solo stata l’unione di ottobre e l’inevitabile
presenza di cadaveri nella vita di Sherlock e di quelli che gli sono
intorno ad
ispirarmi ma non preoccupatevi, nulla di troppo
macabro…spero…
Terza
cosa: forse in alcuni, se non in molti e forse addirittura in tutti,
punti i
personaggi sono OOC, per quanto io cerchi sempre di tenerli al
guinzaglio, ma
oramai mi è difficile tornare alle origini; è
passato troppo tempo dall’ultima
stagione e ci vuole ancora troppo tempo per la prossima e io non riesco
più a
controllare la mia mente (Sherlock aiutami tu!)
Quarta
cosa: è piena di puntini di sospensione e punti esclamativi,
scusatemi! Sono la
mia droga!
Detto ciò, mi aspetto le vostre critiche mi raccomando,
sapete che mi
fortificano immensamente! ^^
A
presto,
Anne
Sherlock
Holmes procedeva con passo spedito
lungo i corridoi del Bart’s seguito da un affannato John
Watson.
«Che cosa ha detto Lestrade?»
Il
detective voltò l’angolo repentinamente e, con
aria annoiata, si girò
leggermente verso il collega dietro di sé.
«Donna,
35 anni, probabile avvelenamento….quasi sicuramente un buco
nell’acqua…»
Il
cellulare del Dottore suonò e lui l’estrasse dalla
tasca meccanicamente.
Correre dietro Sherlock e contemporaneamente leggere, un giorno o
l’altro
l’avrebbe portato ad una morte ridicola, ne era certo!
Lesse
il messaggio, alzò le sopracciglia con aria sorpresa e
ripose il telefono.
«Che
c’è?»
John
guardò le spalle dell’uomo di fronte a
sé, in realtà non gli stava prestando
attenzione. La mente proiettata al caso.
«Niente,
un paziente»
Il
detective non rispose ma allungò semplicemente una mano per
aprire la porta
antipanico che li separava dall’obitorio.
John
accelerò il passo per non finire schiacciato da essa.
Un
serio ed attonito Lestrade li aspettava di fronte ad un corpo coperto
da un
telo bianco.
Sherlock
incrociò le braccia dietro la schiena, alzò la
testa e guardò dall’alto in
basso il commissario. John si posizionò accanto a lui. Il
cadavere li divideva
da Lestrade.
«Allora?»
L’uomo
di fronte a sé abbassò gli occhi verso il corpo
che giaceva silenzioso fra loro
ed ingoiò nervosamente.
«Ecco….Sherlock…è»
Il
detective lo stava ignorando, lo sguardo ad ispezionare la stanza.
«Dov’è
Molly?»
Lestrade
irrigidì la mascella e guardò altrove.
Il
detective stava iniziando ad innervosirsi.
«Non
ho tempo da perdere Geoffrey!»
«Greg»
lo corresse il dottore.
Sherlock
lo incenerì con lo sguardo.
«Vogliamo
iniziare?!»
L’ispettore
annuì ma non si mosse. Con uno snervato “santo
cielo!” il detective allungò
rapidamente la mano verso il telo, tirandolo via con un gesto secco.
Non
appena vide il volto della donna si allontanò terrorizzato,
arretrando fino a
scontrarsi con il tavolo dietro di sé.
Iniziò
ad inspirare nervosamente, il volto pallido, i muscoli della mascella
tesi in
uno spasmo incontrollato, un leggero tremore alle mani protese in
avanti in
segno di resa o negazione, gli occhi spalancati dalla paura
riflettevano ancora
il volto serafico del cadavere di Molly Hooper.
Una
risata sguaiata accanto a lui lo tirò fuori dal silenzio
totale in cui si era
immerso il suo cervello. Sapeva che stava respirando a fatica ma non lo
percepiva, sapeva che il suo corpo stava tremando ma la sua mente non
lo
registrata. Era bloccato nel vuoto totale ma quella risata lo fece
ritornare
alla realtà.
Si
girò lentamente in direzione del proprietario di quel suono
fastidioso.
John
Watson era piegato sulle ginocchia, una mano al petto per cercare di
controllare il respiro, gli occhi lucidi e la faccia paonazza per via
dell’incapacità di controllarsi.
Il
volto del detective iniziò a mutare, abbandonando
l’aria terrorizzata per far
posto ad una interrogativa ma altrettanto sgomenta.
«La
tua faccia, dovresti vedere la tua faccia!»
La
sua attenzione fu attirata da un’altra risata.
Greg
Lestrade, le mani appoggiata al tavolo dove era sdraiata Molly, rideva
a bocca
aperta con un’espressione a dir poco soddisfatta.
Sherlock
Holmes spostò il suo sguardo sul volto di Molly.
Vide
la sua gola muoversi leggermente, le labbra accennare un sorriso e gli
occhi
stringersi tentando di controllarsi ma senza successo. Le labbra viola
si
incresparono in un sorriso per poi aprirsi leggermente ad una risata
cristallina e dolce. Una mano si liberò del lenzuolo per
impedire al medesimo
telo bianco di scoprirle il seno mentre si alzava a fatica, aprendo gli
occhi
felici e puntandoli in direzione prima del commissario e poi del
dottore.
«Siete
due sciocchi!! Avete rovinato tutto!!»
Nonostante
cercasse di dare un tono di rimprovero alla sua voce, la risata che non
riusciva a frenare rese il suo tentativo vano.
Il
detective era ancora immobile, la fissava come fosse un qualcosa di
irreale.
Lei
si riscosse leggermente e portò la sua attenzione verso il
volto di lui. Gli
sorrise dolcemente.
«Scherzetto!»
Sherlock
si riscosse dal suo stato quasi catatonico, si riordinò la
sciarpa e con passo
rigido si incamminò verso l’uscita.
L’ancor
ghignante Dottor Watson lo fece bloccare a pochi centimetri dalla porta.
«Dio
santo, Sherlock! Era solo uno scherzo!»
Il
detective si voltò di scatto. Le iridi di un blu scuro a
causa della rabbia.
In
pochi passi fu vicino al collega, lo sguardo fisso sugli occhi
colpevoli del
dottore. Prese dalla sua tasca il cellulare e lesse l’ultimo
messaggio.
Il
caso non c’è più: morte naturale.
Ma...scherzo
a Sherlock.
Molly
finta morta.
Controllati!
GL
«Uno
scherzo?!»
La
sua voce, più un grugnito che altro, costrinse gli altri a
ritornare in sé.
Lestrade
tossì leggermente mettendo le mani nelle tasche dei
pantaloni ed alzando le
spalle.
«Beh….si,
insomma…Molly ha fatto le analisi ed i risultati sono
arrivati prima di te.
Sapevo che avresti iniziato a lamentarti
del “tuo tempo prezioso”
così…dai, su, è stato
divertente!»
Il
commissario terminò di parlare con un accenno di sorriso e
guardando
alternativamente la patologa ed il dottore che sorrisero incerti in
direzione
di Sherlock.
L’uomo
rivolse il suo sguardo scuro sui due uomini prima di fermarsi ad
osservare la
patologa. Gli occhi ridotti a due fessure.
«…divertente…»
La
voce afona con cui pronunciò quella parola fece sparire
l’accennò di allegria
sul volto di Molly. La patologa arrossì leggermente prima di
abbassare lo
sguardo e stringere maggiormente il lenzuolo intorno al petto.
Nella
stanza calò un silenzio nervoso.
Poi il
detective si girò nuovamente, aprì con movimenti
nervosi la porta e sparì.
Molly
rimase immobile. Gli occhi fissi sul punto in cui fino a qualche
secondo prima
si trovava il detective. Le voci dei due uomini intorno a lei, che
cercavano di
giustificare il proprio comportamento per poi tornare nuovamente a
ridere
dell’espressione del detective, le arrivavano come echi
lontani di qualcosa che
non capiva.
All’improvviso,
senza sapere esattamente il perché, Molly Hooper si
sentì estremamente in
colpa.
Non
le ci volle molto a capire che quel ticchettio perentorio che si era
fermato a
pochi centimetri da lei, proveniva dalle scarpe di Sherlock Holmes.
«Le
analisi sulla vedova Burnett»
Molly
continuò ad etichettare le provette. Quel tono, utilizzato
nei suoi confronti,
non era certo una novità ma era da un po’ che
Sherlock non lo usava più; o
meglio, lo utilizzava ma corredato da almeno un
“Buongiorno” o un “Salve o per
lo meno un “Molly”.
«Non
le ho finite»
«Non
mi stupisce»
La
patologa espirò rumorosamente e voltò il viso in
direzione del detective. Era
nervoso, forse sarebbe stato più corretto dire
furioso…e lei sapeva che non era
per le analisi di Mrs Burnett!
«Non
credi di esagerare?»
Il
detective iniziò a vagare per il laboratorio alla ricerca
della cartella
clinica con le informazioni che voleva.
«Ne
dubito! Il suo cadavere è arrivato ieri mattina, non mi
sembra chi sa quale
assurdità aspettarsi che le analisi siano completate a 24
ore di distanza ma a
quanto pare…»
«Smettila
Sherlock! Non usare il mio lavoro come scusa per criticarmi. Lo so che
è per lo
scherzo dell’altro giorno. Senza considerare il fatto che sai
benissimo che per
fare le analisi che hai richiesto sulla vedova Burnett ci voglio per lo
meno
due giorni.»
L’uomo
si tolse il cappotto, buttandolo su di uno sgabello, per poi fare la
medesima
cosa con la sciarpa. Prese la cartella di Mrs Burnett, i campioni
correlati ad
essa e si mise a lavorare al microscopio senza rivolgerle la parola.
«Che
stai facendo?»
Lui
continuò a spostare vetrini, osservando alternativamente il
computer e le lenti
del microscopio.
«Il
lavoro che avresti dovuto fare tu!»
La
patologa strinse le labbra per il nervosismo prima di sbattere con non
troppa
violenza i pugni sul tavolo.
«Smettila!
Per l’amor del cielo, era solo uno scherzo, un
gioco…perché devi essere così
esagerato?»
Il
detective si alzò, fece il giro del tavolo e si
fermò a pochi centimetri da
lei. Molly non voleva alzare lo sguardo, era già in
imbarazzo a fissare i
bottoni della sua camicia figurarsi i suoi occhi. Tuttavia il respiro
pesante
dell’uomo e gli occhi che sentiva fissi sulla sua nuca la
costrinsero ad alzare
il volto.
«Un
gioco?!...La tua vita e la tua morte ti sembrano qualcosa con cui
giocare?»
Normalmente
sarebbe rimasta in silenzio. Di norma, di fronte ad un suo rimprovero,
lei
avrebbe abbassato gli occhi e chiesto scusa, soprattutto se, come in
quel caso,
il rimprovero più che esposto distrattamente veniva
praticamente urlato, anche
se a denti stretti.
Si,
normalmente avrebbe fatto così. Ma non quel giorno, non in
quel momento e
soprattutto non mentre si parlava di vita o di morte…no, su
quello proprio no!
Gli
occhi della patologa divennero duri e severi quanto quelli di lui e,
senza
neanche rendersene conto, il suo tono di voce raggiunse quasi i
medesimi
decibel dell’uomo.
«Ma
come, come puoi TU venire a dire a ME una cosa del genere?! Ti sei
finto morto
per anni ed al tuo ritorno cosa hai fatto?! Sei andato a dire al tuo
migliore
amico, che ti ha pianto e ha sofferto di tutto, la prima cosa che gli
hai detto
è “vuoi tenerti veramente quei
baffi?”….TU, che hai finto che steste per morire
insieme a tutto il parlamento britannico, solo per fargli un
dannatissimo
scherzo?...Non provare a dire a me che gioco con la mia vita, chiaro!
Il mio
era uno scherzo tu ti sei finto morto veramente!»
Inspirò
rumorosamente con gli occhi ancora fissi in quelli di lui. Sapeva
perfettamente
che il suo discorso era tutto fuorché logico e chiaro ma,
infondo, per essere
la prima volta che teneva testa a Sherlock, non era andata troppo male,
no?!
Un
vociare fuori dal laboratorio li fece voltare verso la porta. Dalla
finestrella
si intravedevano il volto di varie persone che li osservavano.
All’improvviso
un ricercatore entrò nella stanza o, per meglio dire, fu
buttato dentro da non
si sa bene quante mani.
Il
ragazzo sorrise per il nervosismo, spostando lo sguardo fra i due
litiganti nel
laboratorio e i colleghi al di là della porta che gli
facevano gesti per
incitarlo a parlare.
«Ehm…Dot….Dottoressa
Hooper è…è tutto apposto?»
La
patologa si distanziò di qualche centimetro da Sherlock,
prese in mano delle
cartelle e sorrise al ragazzo.
«Si
Richard, non preoccuparti»
Il
ricercatore annuì leggermente e tornò ad
osservare fuori dalla porta. Come un
alunno in cerca del suggerimento dei compagni di classe, Richard
strizzò gli
occhi nella loro direzione, comunicando senza parole, per poi tornare a
rivolgersi a Molly.
«Vuole
che chiami…»
«Sparisci!»
Il
tono gelido, lo sguardo assassino e la posa rigida di Sherlock Holmes,
con le
mani appoggiate sui fianchi, lo fecero uscire repentinamente dal
laboratorio
sussurrando un incomprensibile “scusate”.
Quando
il detective rivolse lo stesso sguardo ai curiosi che lo stavano
osservando,
anche loro si dileguarono borbottando.
L’uomo
riportò la sua attenzione su Molly. Sembrava che per lei la
conversazione fosse
finita.
«E
se ci fossi stato io?»
Molly
si voltò verso di lui con aria interrogativa.
«Se
ci fossi stato io lì, al posto tuo, lo avresti trovato
così divertente?»
Molly
sorrise mettendo le cartelle nello
schedario.
«Tu
sei stato al posto mio, Sherlock»
Lui
infilò le mani nelle tasche dei pantaloni.
«No,
tu sapevi che ero vivo»
Lei
avrebbe voluto dire che non faceva alcuna differenza, che aveva
sofferto
comunque, che sapendo benissimo ciò che era andato a fare,
per lei lui poteva
essere sul punto di morire in ogni singolo momento. Avrebbe voluto dire
che
quel pensiero l’aveva colta nei momenti più
improbabili: sotto la doccia,
durante il suo lavoro, mentre era al pub con gli amici, mentre usciva
con Tom e
soprattutto la notte…quasi ogni notte si svegliava con
quella paura, quella
stretta al cuore, quella sensazione che lui, in quel medesimo istante,
forse stava
per morire chi sa dove e chi sa come. Avrebbe voluto dire tutto questo
ma non
lo fece. Un po’ per se stessa e quel briciolo di orgoglio che
ancora aveva ed
un po’ per rispetto verso tutti gli altri, verso John
soprattutto, verso John e
il suo dolore.
Lui
le si avvicinò.
«Allora,
Molly…lo avresti trovato così
divertente?»
Lei
si riscosse dai suoi pensieri. Chiuse lo schedario e vi
poggiò le mani sopra.
«E’
diverso»
Sembrava
stesse parlando più a se stessa che a lui.
«Che
cosa è diverso?»
Molly
alzò le spalle, allargando le braccia.
«Tutto
Sherlock, tutto»
Lui
non capiva.
«Cosa?
Che cosa c’è di diverso fra la mia morte la
tua?»
Molly
si allontanò di qualche passo andando a sedersi su di uno
sgabello lontano il
più possibile da lui. Non voleva affrontare quella
situazione, quella
discussione. Non sapeva bene neanche lei che cosa volesse dire con quel
“tutto”, figuriamoci spiegarlo a lui.
Il
tono del detective divenne più duro. Sherlock Holmes odiava
non capire, non
sapere!
«Molly,
che cosa?»
La
patologa si mise le mani sui capelli, come a cercare di riordinare la
coda che
le si stava sciogliendo. Lo guardò di sottecchi.
«Beh,
per prima cosa, tutti ci aspettiamo la tua morte!»
L’uomo
arcuò le sopracciglia e si irrigidì.
«Grazie,
veramente molto gentili!»
Molly
si alzò di scatto…sapeva che non era in grado di
affrontare quel discorso,
infatti, aveva iniziato nel peggiore dei modi.
«Nel
senso…cioè…» maledisse se
stessa per il balbettare. Inspirò.
«Nel
senso che…per quello che fai, per ciò che sei,
tutti noi, in un modo o nell’altro
ed in maniera più o meno volontaria, sappiamo che potremmo
perderti da un
momento all’altro. Ovviamente non è un pensiero
razionale, non è qualcosa su
cui lavoriamo per poter poi affrontare questa eventualità in
un modo migliore o
con minore sofferenza, tutt’altro! E’ che nel
nostro inconscio sappiamo che
potrebbe accadere ed è per questo che viviamo costantemente
con l’ansia ed il
timore che accada. In questo senso è
diverso…»
Lui
la guardava con un’espressione indecifrabile.
«Quindi,
pensi, anzi pensate, che io non abbia questa stessa paura? Che io non
sia in
grado di provare le stesse cose?»
Molly
portò le mani in avanti per giustificarsi.
«No,
no, certo che no!....E’ solo che non è una paura
costante o uguale verso tutti»
L’uomo
la guardò nuovamente con aria interrogativa.
Molly
sorrise guardandosi le mani prima di tornare a guardarlo.
«La
conversazione non è proprio il mio campo!»
Lo
vide sorridere, gli occhi tornare ad essere chiari e dolci nei suoi
confronti.
La
patologa inspirò, chiuse gli occhi e poi li
riaprì.
«Ciò
che voglio dire è che noi ci preoccupiamo tutti alla stessa
maniera per te ma
tu non fai lo stesso» intercetto la sua risposta nervosa
prima che potesse
uscire dai suoi denti «perché noi non siamo tutti
uguali per te e tutti
egualmente in pericolo. John e Mary sono, ovviamente, più in
pericolo di
Lestrade, di Mycroft o di me, perché ti sono più
vicini e perché tu a loro
tieni molto di più che a tutti noi, ed è per
questo stesso identico motivo che
tu ti preoccupi maggiormente per loro che per
noi…è normale»
Lui
continuò a scrutarla. La mente che cercava di collegare i
vari pezzi per
arrivare ad una conclusione valida anche se, in realtà,
l’unica cosa che
davvero non capiva era come fosse riuscita, quella piccola Molly
Hooper, a
definire un suo modo di fare: normale!
Lei
gli sorrise leggermente, tentando di alleggerire la tensione che
provavano
entrambi.
«E
poi, ammettilo Sherlock, perché qualcuno dovrebbe farmi del
male? Non ho nessun
tipo di connessione o rapporto con te, tale da giustificare una mia
qualsiasi
morte per mano di qualche tuo acerrimo nemico! Non dovrei spiegartele
io queste
cose, qui sei tu l’unico consulente investigativo al
mondo!»
La
patologa scoppio a ridere ma l’uomo di fronte a lei
sbarrò gli occhi per una
frazione di secondo, in risposta alla sua affermazione.
La
risata di Molly andò a scemare lentamente vedendo che non
trovava
corrispondenza nel volto di lui.
«E
poi?»
Lei
sbatté le palpebre un paio di volte ed arrossì.
«Poi?»
«Si,
poi…hai detto che è tutto diverso e che questa
è la prima cosa diversa, le
altre?»
«Ah
si? Ho detto così?»
«Si!»
Gli
occhi di Sherlock la seguirono mentre andava a sedersi di fronte al
microscopio
che, fino a pochi minuti prima, lui stava utilizzando.
La
patologa alzò leggermente le spalle.
«Beh
non mi ricordo. Comunque ora ho del lavoro da fare, altrimenti qualcuno
potrebbe venirmi a dire che sono poco efficiente!»
Molly
pronunciò quella frase con un tono finto offeso prima di
sorridere, gli occhi
intenti ad osservare attraverso il microscopio la reazione delle
molecole.
«Non
cambiare argomento!»
«Non
sto cambiando argomento, lo sto chiudendo. Buona serata!»
L’uomo
rimase ad osservarla per qualche istante. Poi, prese la sciarpa ed il
cappotto
che erano sullo sgabello accanto a lei e se ne andò senza
rivolgerle la parola.
Non
appena sentì le porte del laboratorio chiudersi, Molly
Hooper si allontanò dal
microscopio con un sospiro lento e profondo.
Non
era in grado di gestire una conversazione con Sherlock Holmes, era
fisicamente
esausta!
Il
detective uscì dalla sua stanza con un’espressione
pensierosa.
Si
diresse a passi lenti fino al salotto per poi sdraiarsi sul divano, le
dita
congiunte sotto il mento, gli occhi chiusi.
John
Watson, seduto sulla sua poltrona, voltò la pagina del
tabloid che stava
leggendo.
«Buongiorno
anche a te, Sherlock!»
L’uomo
sdraiato sul divano non ebbe alcun tipo di reazione.
Il
dottore sbuffò, chiuse il giornale e lo posò sul
tavolino accanto a sé.
«Qualche
novità sul caso Burnett?»
Ancora
silenzio.
Watson
posò le mani sulle ginocchia e si alzò con uno
slancio.
«Perfetto…beh,
allora credo andrò al Bart’s a vedere se Molly ha
i risultati delle analisi e
poi…»
Sherlock
aprì improvvisamente gli occhi, si mise a sedere con uno
scatto rapido ed
osservò l’uomo scrutandolo.
«John..»
L’uomo
alzò le sopracciglia con aria dubbiosa. Odiava quello
sguardo.
«Si,
cosa c’è?»
Il
detective iniziò a camminare per la stanza, le mani
gesticolavano come a
completare non si sa quale schema mentale.
«John….secondo
te, io, classifico le persone?»
L’uomo
aggrottò le sopracciglia.
«In
che senso classificare?»
«Cioè
ho un metodo per classificare l’importanza che hanno le
persone?»
«Beh,
certo che si! Le classifichi in base
all’intelligenza»
Sherlock
scosse la testa, accennando un sorriso divertito.
«No,
non quello….quello lo facciamo tutti!»
Il
dottore tossì leggermente ed infilò le mani in
tasca. Il detective aggrottò le
sopracciglia con aria perplessa.
«Non
lo facciamo tutti?»
Il
dottore inspirò, alzando ed abbassando le spalle.
«No
Sherlock…e credo anche che nessuno abbia una lista di
“persone irrilevanti”
suddivisa in volumi!»
Il
detective fece spallucce.
«Comunque,
intendevo, classificazione di importanza per me…»
Il
dottore lo guardaò con aria interrogativa mentre cercava di
capire cosa gli
volesse comunicare. Dopo un po’ parlò con voce
incerta.
«Intendi
una classificazione…affettiva?»
Il
detective si sedette sulla sua poltrona incrociando le dita e
poggiandovi sopra
il mento.
«Se
vuoi chiamarla così…»
Watson
si tirò leggermente su i pantaloni al livello dei fianchi e
si risedette sulla
sua poltrona.
«Beh,
credo di si allora. Credo che tu abbia una classificazione dei tuoi
affetti….suppongo»
Non
capiva dove il detective volesse arrivare ma quello era uno di quei
rari
momenti in cui quell’uomo cercava di aprirsi, non poteva
certo negargli il suo
aiuto!
Sherlock
sciolse le mani per poi posarle sui braccioli.
«E
secondo te, in questa scala, una persona come…diciamo, come
Mr Hudson, dove
sarebbe?»
Il
dottore sorrise.
«Medio
alta suppongo…hai buttato giù dalla finestra un
uomo che, in fin dei conti, le
ha fatto solo un graffio!»
Risero
entrambi.
«E
Mycroft?»
John
sbuffò, l’espressione di chi sta riflettendo
accuratamente.
«Medio
bassa…credo dipenda dai momenti…forse talvolta
esce anche dalla scala»
«Anderson?»
«Perché,
Anderson è nella scala?!»
Sherlock
ghignò.
«No,
volevo vedere se eri tarato bene!»
Risero
nuovamente.
«Lestrade?»
«Medio
tendente all’alto, direi»
Il
detective iniziò a guardarsi in giro.
«E…Molly?»
John
Watson studiò attentamente il comportamento evasivo del suo
migliore amico. Ora
capiva dove voleva arrivare con tutta quella storia della classifica ma
non
riusciva a capire da dove fosse uscito fuori un pensiero del genere.
Sicuramente non dalla mente di Sherlock Holmes.
«Molly…Molly
Hooper, intendi?»
Sherlock
sbuffò, riportando i suoi occhi in quelli del suo
interlocutore.
«Conosciamo
altre Molly, io e te?»
Il
dottore alzò le mani per scusarsi.
«Beh…non
lo so…medio bassa?»
Il
detective sbarrò leggermente gli occhi prima di alzarsi e
ricominciare a
camminare per la stanza
«Come?!
Medio bassa?!»
Il
suo tono di voce era del tutto innaturale.
Il
dottore balbettò leggermente, lo sguardo a seguire
l’andirivieni dell’uomo.
«Andiamo
Sherlock! Le rivolgi al massimo la parola, quando lo fai è
sempre per ordinarle
qualcosa o riprenderla, le hai dato “il privilegio”
di sapere che eri vivo solo
perché ti serviva il suo aiuto….se la si deve
classificare, starebbe accanto a
tuo fratello»
Il
detective si bloccò osservando il collega con aria
sbigottita.
«Allo
stesso livello di Mycroft?»
Il
dottore alzò le spalle.
«Beh,
forse un po’ sotto…in fin dei conti Mycroft
è comunque tuo fratello…»
Sherlock
sbarrò leggermente gli occhi.
«Ma
non è così!»
Il
dottore appoggiò la schiena sulla poltrona.
«E’
quello che sembra, però…»
Rimasero
in silenzio per alcuni minuti.
Sherlock
Holmes rinchiuso nel suo mondo e John Watson intento ad osservarlo per
cercare
di carpirne qualsiasi tipo di reazione. Poi il dottore si
alzò avvicinandosi
all’altro.
«Sherlock,
ti va di parlarne?»
Per tutta
risposta
il detective andò alla porta, prese il cappotto e la sciarpa
e li indossò.
«Dove
vai?»
Watson
rimase impalato al centro della stanza mentre Sherlock se ne andava
senza
degnarlo di un qual si voglia tipo di risposta.
Si
girò verso lo specchio appeso al muro.
«”No,
grazie John per il sostegno ma credo che uscirò!”
“Ah, si Sherlock? E dove vuoi
andare?” “Non lo so, credo andrò a fare
quattro passi a QUEL PAESE!”»
Il
dottore si ricompose dopo quel siparietto dovuto ai suoi nervi che
stavano
cedendo, poi prese il cappotto e uscì alla ricerca di
quell’ingrato del suo ex
coinquilino.
Prima
che lui potesse dire qualsiasi cosa,
Molly allungò il dito in direzione di una cartella sul
tavolo di fronte al suo.
«Le
analisi sono lì, nulla di rilevante»
Sherlock
fece qualche passo in avanti e prese il fascicolo che lei le aveva
indicato. Lo
sfogliò rapidamente. Poi lo posò ed
incrociò le mani dietro la schiena. La
patologa non distolse lo sguardo dalla sua autopsia.
«Dato
che le analisi non hanno rilevato nulla, hai qualche idea su chi possa
aver…»
«Il
marito. Lei era debole di cuore, uno spavento ed il gioco è
fatto.»
Si
incamminò verso di lei con passi lenti, le mani ancora
dietro la schiena lo
sguardo a cercare di intercettare quello di lei.
Il
bisturi si fermò all’altezza della spalla. La
patologa corrugò la fronte e si
alzò per osservare l’uomo che ormai era di fronte
a sé, oltre il cadavere mezzo
aperto sotto di loro.
«Ma,
non era vedova?»
«A
quanto pare, l’idea di fingersi morti sta spopolando in
questo periodo!»
Un
sorriso falso ed ironico passò sulle labbra
dell’uomo a pronunciare quelle
parole.
La
patologa alzò gli occhi al cielo per poi riabbassare
lo sguardo e tornare al suo
lavoro.
«Meno
male che nessuna delle tue conoscenze è debole di
cuore!»
Il
sarcasmo nella voce di lei era palese.
«Quali
sono le altre cose del tutto?»
«Sherlock,
per l’amor del cielo, sto lavorando!»
Lui,
le mani ancora dietro la schiena, alzò un sopracciglio con
aria divertita.
«Aspetterò!»
Molly
imprecò a mezza bocca. Lui sapeva perfettamente che non
riusciva lavorare se
qualcuno la fissava, si sentiva sotto esame ed irrimediabilmente
sbagliava.
Quando vide il bisturi iniziare a tremare nella sua mano, lo
posò con fare
nervoso e fissò il detective con aria di sfida.
«Aspetta
fuori»
L’uomo
le regalò uno dei suoi sorrisi più falsi.
«No,
grazie. Sto benissimo qui!»
La
patologa aspirò nervosamente ed incrociò le
braccia di fronte a sé.
«Non
ne voglio più parlare! Ti ho chiesto scusa,
cos’altro vuoi che faccia?
Implorare perdono per aver sprecato il tuo preziosissimo
tempo?»
L’uomo
aggrottò le sopracciglia.
«Non
è questo che voglio»
«E
allora cosa?»
«Voglio
che tu mi dica cos’altro differenzia la tua morte dalla
mia!»
La
patologa serrò le braccia alla vita prima di rispondere con
voce tutt’altro che
tranquilla.
«Siamo
noi Sherlock! Siamo diversi!»
Lui
la guardò con aria interrogativa fare il giro del tavolo e
togliersi con
malcelata stanchezza i guanti praticamente intonsi, a causa
dell’interruzione
del suo lavoro da parte dell’uomo, e buttarli
nell’apposito cestino.
«In
che senso noi?»
La
patologa ritornò alla sua postazione massaggiandosi
leggermente una tempia.
«Nel
senso di me e te. Tu non sei come me ed io non sono come te.
Ciò che siamo, ciò
che proviamo è differente»
L’uomo
continuava a non capirla e percepiva come la stesse spingendo a fare o
dire
qualcosa che non aveva alcuna intenzione di fare o dire.
«Che
differenza ci sarebbe nella morte di uno di noi due?»
La
vide portare gli occhi nei suoi con uno sguardo di odio e risentimento.
Neanche
quando l’aveva schiaffeggiato aveva
quell’espressione. La vide inspirare
profondamente prima di rispondere alla sua domanda con un sussurro.
«E’
diverso perché se fossi tu quello morto, a me la vita
cambierebbe per sempre!»
Sherlock
sciolse le mani per portarle in maniera inconsapevole ad indicare il
proprio
cuore.
«Pensi
che a me…»
A
quel punto Molly esplose senza rendersene conto.
«A
te invece no!»
Inspirò
prima di iniziare a parlare come un fiume in piena.
«E’
così Sherlock, e lo sappiamo tutti e due…Tu mi
sei indispensabile, io per te
non lo sono. Ma va bene! E’ così, non è
colpa di nessuno! Io lo so! E
dannazione, lo sai anche tu…non capisco perché ci
tenessi tanto a farmelo
dire…ora l’ho detto, sei contento?!»
Rimasero
immobili per qualche istante prima che la patologa abbassasse
nuovamente gli
occhi sul “suo lavoro”. Sherlock aveva gli occhi
sbarrati.
«Molly…»
Lei
alzò una mano per fermarlo.
«Per
favore, è stato già troppo imbarazzante.
Finiamola qui»
Sherlock
aprì le labbra per controbattere ma le porte antipanico
furono aperte da una
ragazza che trasportava un lettino ospedaliero con un nuovo paziente
della
patologa.
«Salve
Dottoressa Hooper. Maschio, 60 anni, probabil…»
La
voce perentoria di Sherlock bloccò la specializzanda e
riscosse la patologa.
«Si
può sapere in quanti siete qua dentro?!»
La
ragazza si riscosse, offesa dal tono di quello sconosciuto.
«Signore,
siamo in un ospedale. E’ normale che ci siano
persone!»
L’uomo
la fulminò con lo sguardo.
«Stavamo
parlando, vada fuori di qui!»
Molly
si riscosse dal suo torpore.
«Smettila!
E’ il mio lavoro!»
L’uomo
si girò di scatto verso di lei. Il volto severo ed i muscoli
tesi.
«Perché
che urgenza c’è?! Tanto quasi sicuramente
risorgerà fra qualche mese!»
Se
la situazione non fosse stata così assurda probabilmente
Molly avrebbe riso di
quella battuta che Sherlock aveva fatto, quasi sicuramente, in maniera inconsapevole.
Invece rimase seria,
facendo segno alla specializzanda di andare fuori e dicendole che
sarebbe
venuta lei a dirle quando entrare.
Non
appena la ragazza fu uscita, lanciando sguardi assassini in direzione
del
detective, Molly gli si parò davanti con lo stesso sguardo
di pochi minuti
prima.
«Allora,
cosa c’è ancora?»
Sherlock
inspirò lentamente e riportò le mani dietro la
schiena.
«Punto
primo. Si, è vero, ho una scala di affetti con annesso
livello di
preoccupazione ma non pensare neanche per un solo istante che tu possa
essere
alla fine di essa. Tu, la tua vita, la tua sicurezza, tutto di TE per
ME è
importante. Penso che qualcuno possa ucciderti o farti del male? Si,
purtroppo
ne sono amaramente convinto. Perché lo penso?
Perché so quanto conti per me e
che questa cosa può sfuggire a te o a John ma non a chi
può farti del male.
Come faccio ad esserne così sicuro? Guarda i fatti: sei
l’unica donna che ho
vicino a me, l’unica che sapeva che ero vivo quando tutti mi
credevano morto, l’unica
da cui vado quando ho bisogno, l’unica che mi conosce e
capisce più di quanto
creda, l’unica a cui tengo veramente.
Punto
secondo. Non c’è alcuna differenza fra la tua
morte e la mia morte. Perché pensi
che abbia avuto quella reazione quando ti ho visto su quel dannato
tavolo? Era
panico, puro panico! E credimi, so cosa vuol dire non saper controllare
ne se
stessi ne la propria mente e soprattutto cosa vuol dire per me.
Perché ho avuto
un attacco di panico nel vederti immobile, fredda, morta?
Perché al di là di
ciò che pensi tu, al di là di ciò che
pensano tutti, tu mi sei indispensabile!»
«Molly,
c’è una ragazza qui fuori che ha
detto che non posso entrare ma….»
John
Watson si voltò di scatto, le mani davanti agli occhi come
se potesse comunque
riuscire a vedere qualcosa
«scusate,
io non pensavo…cioè non credevo
che…ma…OH MIO DIO!.....MA VI RENDETE CONTO CHE VI
STATE BACIANDO CON UN CADAVARE APERTO ACCANTO A VOI?!....»
Sherlock
Holmes e Molly Hooper interruppero il loro primo bacio per sorridersi a
vicenda.
Le
gambe di lei erano ancora intorno a quelle di lui ed il tavolo
operatorio su
cui lei era seduta era tutt’altro che comodo ma, del resto,
era stata colpa
sua.
Certo,
che un essere piccolo come Molly Hooper possa far perdere
l’equilibrio ad un
uomo come Sherlock Holmes, alto quasi il doppio di lei, può
sembrare assurdo ma
questa è la realtà dei fatti.
Non
appena concluso il suo discorso, il detective l’aveva
guardata con aria
preoccupata mentre lei abbassava il volto per poggiare la fronte sul
busto di
lui. Tuttavia, non appena la mano preoccupata dell’uomo le
aveva accarezzato
lentamente i fianchi, Molly non era riuscita più a resistere
all’impulso di
baciarlo per cui gli era saltata letteralmente al collo.
Forse
lei si era data troppo slancio, forse lui era stato colto troppo
impreparato ma
sta di fatto che per non cadere rovinosamente a terra lui
l’aveva presa per la
vita e nel cercare di trovare una qualche situazione più
stabile ciò che si era
trovato più vicino era proprio il tavolo dove giaceva
l’ex lavoro di Molly.
Non
che a lui importasse, per carità, anzi, era troppo impegnato
a rispondere alle
effusioni di Molly per donargli anche la più infinitesimale
attenzione. E
quando sentì le gambe di lei allacciarsi intorno alle
proprie e la sua lingua
rispondere al suo timido tentativo di approfondire il bacio,
dimenticò anche
che fossero in un luogo pubblico, anzi, che fossero proprio in
qualsiasi tipo
di luogo fisico.
Si
distanziarono, dunque, solo e soltanto per l’urlo sconvolto
del povero John
Watson.
Con
gli occhi ancora immersi in quelli di Molly, Sherlock rispose al
collega.
«Scusaci
John!»
Molly
strinse leggermente le labbra ed indicò il cadavere di
fianco a loro.
«Veramente
lui si chiama David….»
Il
detective gli lanciò una rapida occhiata.
«Scusaci
anche tu David!»
Molly
sorrise sulle labbra di Sherlock prima di ricominciare a baciarlo
e…
«LA VOLETE SMETTERE VOI DUE?!»