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Autore: JaymeJoe    10/10/2008    0 recensioni
Un thriller mozzafiato. Le indagini di un' investigatrice, agente dell'FBI. Il primo della serie di romanzi di casi seguiti dall'agente Jayme Joe Kellaway.
Genere: Thriller, Mistero, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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IL MIO PRIMO VERO LIBRO

4 Ottobre 1992, California.

Era una giornata piuttosto buia, nonostante fossero solo le quattro di pomeriggio, e quella fastidiosa pioggia, la rendeva ancora più cupa.

Una classica giornata di inizio ottobre a Los Angeles, anche se quell’anno le brutte giornate erano cominciate presto; già a metà settembre era stato difficile godere di un caldo giorno di sole.

Questo aveva dato un po’ di sollievo a quei cittadini che non ne potevano più di quell’afa e caldo straziante, e fatto infuriare quei pochi, soprattutto anziani, che invece speravano in  lunghe e interminabili passeggiate all’ Elysian Park, seguite da  tranquille sedute all'ombra di grandi faggi, frassini e pioppi che caratterizzavano il parco.

La città era stranamente silenziosa. E lì il silenzio non era abituale. Al contrario, si doveva aspettare il brutto tempo per avere finalmente un po’ di tranquillità.

Ma alle quattro e mezzo in punto, neanche un temporale poteva competere con l’euforia che presto si sarebbe scatenata.

E mentre  molti uomini erano ancora a lavoro, le mamme correvano con affanno e preoccupazione per non arrivare tardi all’uscita dei figli da scuola.

Da sotto gli ombrelli di vario tipo, colore e persino forma, con gesti forzati delle braccia, esse cercavano disperatamente di ricevere l’attenzione dei bambini dal cortile della scuola.

Col suono della campana, a quello che fino a poco prima era stato il silenzio, ora andavano a sostituirsi le urla dei piccoli scolaretti, felici di poter finalmente riabbracciare la propria mamma e tornare a casa dove molti avrebbero consumato un’abbondante merenda sul divano, davanti alla televisione, e dove avrebbero trascorso l’intero pomeriggio.

Le macchine parcheggiate in doppia fila per mancanza di posti liberi nel parcheggio, suscitavano la rabbia degli automobilisti, che reagivano con insistenti colpi di clacson.

Inevitabile fu il traffico che ora ostruiva la città.

 

Christian Kellaway guidava una grande station wagon nera al garage nel retro di una vecchia casa in una stradina interna, non visibile dalla strada principale.

Kellaway non sarebbe dovuto rientrare prima delle otto e mezzo. Non accadeva mai; d’altronde fare il poliziotto non era mai stato facile e l’orario, per un motivo o per l’altro, si prolungava sempre più del dovuto.

Questo Annabel e la piccola Jayme Joe, allora di appena dieci anni, lo sapevano bene.

Per questo, fu lo sbattersi della porta che le fece sobbalzare e interrompere quello che per loro era diventato una cosa alla quale non erano più abituate… il sonno.

I passi pesanti dell’uomo riecheggiarono per tutta la sala.

Da quella buia, gelida e degradata cantina, sentivano quei rumori sopra le loro teste, chiari e ben distinti.

Sapevano che presto le avrebbe raggiunte. Sapevano che cosa le attendeva.

La bambina si strinse tra le braccia della madre, cominciando a piangere.

Annabel cercò di consolare, invano, la piccola, stringendola forte a sé e accarezzandole la testa.

L’uomo era vicino e lei fece segno alla figlia di rimanere in silenzio, ma sembrava impossibile mettere fine a quei singulti.

Egli spalancò la porta che collegava alla cantina sotterranea, con violenza.

Le due non poterono fare a meno di voltarsi repentinamente, serrando gli occhi. Si sentivano accecare dalla luce che non vedevano ormai da tempo.

A fatica, si trascinarono il più sveltamente possibile in un angolo della stanza, come se ciò servisse ad allontanarle da lui.

I rumori delle catene sfregate al suolo echeggiavano per la cantina.

Con le mani si sfiorarono le caviglie, gonfie e doloranti e cosparse di lividi, ormai di un colore verde-violaceo.

Troppe volte avevano tentato di liberarsene, ed ora, delle catene, se ne poteva sentire il segno che con gli anni avevan lasciato.

I cuori battevano a tale velocità che credettero che anche lui potesse udirne le palpitazioni.

Lo strisciare per la stanza, aveva rialzato un enorme polverone. I vestiti che indossavano, logorati dal tempo. Ne eran rimasti solo brandelli.

La pelle, in alcuni punti, consumata e disidratata sino al limite dell’immaginabile. Mani, ginocchia e piedi sfregiati; se ne riuscivano a vedere le ossa. Delle dita non ne rimaneva quasi più niente. 

La ciotola era vuota. L’acqua era già terminata, e non ne avrebbero avuta altra fino all’inizio della settimana seguente.

Il cibo era una speranza vana. Dovevano solo sperare che al cane avanzasse qualcosa, sempre che si ricordasse di nutrire anche la povera bestia.

 


Kellaway lasciò la porta accostata, quanto bastava a far filtrare un minimo di luce per riuscire a scorgerle nell’oscurità.

 

  
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