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Ottobre 1992, California.
Era
una giornata piuttosto buia, nonostante
fossero solo le quattro di pomeriggio, e quella fastidiosa pioggia, la
rendeva
ancora più cupa.
Una
classica giornata di inizio ottobre a Los
Angeles, anche se quell’anno le brutte giornate erano
cominciate presto; già a
metà settembre era stato difficile godere di un caldo giorno
di sole.
Questo
aveva dato un po’ di sollievo a quei
cittadini che non ne potevano più di quell’afa e
caldo straziante, e fatto
infuriare quei pochi, soprattutto anziani, che invece speravano
in lunghe e interminabili passeggiate all’ Elysian
Park, seguite da tranquille sedute all'ombra di grandi faggi,
frassini e pioppi che caratterizzavano il parco.
La
città era stranamente silenziosa. E lì il
silenzio non era abituale. Al contrario, si doveva aspettare il brutto
tempo
per avere finalmente un po’ di tranquillità.
Ma
alle quattro e mezzo in punto, neanche un
temporale poteva competere con l’euforia che presto si
sarebbe scatenata.
E
mentre
molti uomini erano ancora a lavoro, le mamme correvano con
affanno e preoccupazione
per non arrivare tardi all’uscita dei figli da scuola.
Da
sotto gli ombrelli di vario tipo, colore e
persino forma, con gesti forzati delle braccia, esse cercavano
disperatamente
di ricevere l’attenzione dei bambini dal cortile della scuola.
Col
suono della campana, a quello che fino a poco
prima era stato il silenzio, ora andavano a sostituirsi le urla dei
piccoli
scolaretti, felici di poter finalmente riabbracciare la propria mamma e
tornare
a casa dove molti avrebbero consumato un’abbondante merenda
sul divano, davanti
alla televisione, e dove avrebbero trascorso l’intero
pomeriggio.
Le
macchine parcheggiate in doppia fila per
mancanza di posti liberi nel parcheggio, suscitavano la rabbia degli
automobilisti, che reagivano con insistenti colpi di clacson.
Inevitabile
fu il traffico che ora ostruiva la
città.
Christian
Kellaway guidava una grande station
wagon nera al garage nel retro di una vecchia casa in una stradina
interna, non
visibile dalla strada principale.
Kellaway
non sarebbe dovuto rientrare prima delle
otto e mezzo. Non accadeva mai; d’altronde fare il poliziotto
non era mai stato
facile e l’orario, per un motivo o per l’altro, si
prolungava sempre più del
dovuto.
Questo
Annabel e la piccola Jayme Joe, allora di
appena dieci anni, lo sapevano bene.
Per
questo, fu lo sbattersi della porta che le
fece sobbalzare e interrompere quello che per loro era diventato una
cosa alla
quale non erano più abituate… il sonno.
I
passi pesanti dell’uomo riecheggiarono per tutta
la sala.
Da
quella buia, gelida e degradata cantina,
sentivano quei rumori sopra le loro teste, chiari e ben distinti.
Sapevano che presto le avrebbe raggiunte. Sapevano che cosa le attendeva.
La
bambina si strinse tra le braccia della madre,
cominciando a piangere.
Annabel
cercò di consolare, invano, la piccola,
stringendola forte a sé e accarezzandole la testa.
L’uomo
era vicino e lei fece segno alla figlia di
rimanere in silenzio, ma sembrava impossibile mettere fine a quei
singulti.
Egli
spalancò la porta che collegava alla cantina
sotterranea, con violenza.
Le
due non poterono fare a meno di voltarsi repentinamente,
serrando gli occhi. Si sentivano accecare dalla luce che non vedevano
ormai da
tempo.
A fatica, si trascinarono il più sveltamente possibile in un angolo della stanza, come se ciò servisse ad allontanarle da lui.
I
rumori delle catene sfregate al suolo echeggiavano
per la cantina.
Con
le mani si sfiorarono le caviglie, gonfie e
doloranti e cosparse di lividi, ormai di un colore verde-violaceo.
Troppe
volte avevano tentato di liberarsene, ed
ora, delle catene, se ne poteva sentire il segno che con gli anni
avevan
lasciato.
I
cuori battevano a tale velocità che credettero
che anche lui potesse udirne le palpitazioni.
Lo
strisciare per la stanza, aveva rialzato un
enorme polverone. I vestiti che indossavano, logorati dal tempo. Ne
eran
rimasti solo brandelli.
La
pelle, in alcuni punti, consumata e disidratata
sino al limite dell’immaginabile. Mani, ginocchia e piedi
sfregiati; se ne
riuscivano a vedere le ossa. Delle dita non ne rimaneva quasi
più niente.
La
ciotola era vuota. L’acqua era già terminata, e
non ne avrebbero avuta altra fino all’inizio della settimana
seguente.
Il
cibo era una speranza vana. Dovevano solo
sperare che al cane avanzasse qualcosa, sempre che si ricordasse di
nutrire
anche la povera bestia.
Kellaway lasciò la
porta accostata, quanto bastava
a far filtrare un minimo di luce per riuscire a scorgerle
nell’oscurità.