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Autore: Alaska__    15/10/2014    7 recensioni
{ Finnick/Annie ~ Odesta! ♥ }
Corse come se ne andasse della sua vita, come se Annie potesse volare via da un minuto all’altro.
E Finnick sapeva che quel rischio era alto, grande, insormontabile come un palazzo di dieci piani. Annie era come cristallo, bellissima, ma pur sempre fragile e delicata. Sarebbe bastato un solo alito di vento troppo forte, una parola sbagliata, un movimento scorretto e lei sarebbe caduta, spezzandosi in mille pezzi, e anche se qualcuno avesse rimesso insieme tutte le parti in cui si era rotta, lei non sarebbe più stata la stessa, ma sarebbero rimaste le crepe, mute testimoni di una vita ormai perduta.
La sensazione che Finnick aveva quando stava di fianco alla ragazza era proprio questa. Gli pareva di essere affiancato a del cristallo ormai rotto – eppure, tra mille crepe, Annie riusciva ancora ad essere bellissima e preziosa.

[ Questa storia partecipa al contest "La vuoi una zolletta di zucchero? Finnick Odair's contest" indetto da ticci.EFP sul forum di EFP. ]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annie Cresta, Finnick Odair
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie '«Mi ha colto di sorpresa». '
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Premessa: questa storia contiene numerosi headcanon personali, che verranno poi spiegati alla fine, nelle note d'autore. Le scene sono quattro e le frasi in corsivo - così come il titolo - sono tratte da Salvation degli Skillet. Vi invito ad ascoltarla perché la reputo una canzone splendida. 
Buona lettura!


 





Salvation


 
« I feel you keeping me alive.
You are my salvation. »
 
Un colpo di cannone risuonò nell’Arena, rendendo l’atmosfera ancora più lugubre di quanto già non fosse.
Uno stormo di uccelli dalle piume nere come la pece si levò in volo, gracchiando e aumentando l’angoscia che pervadeva il luogo.
Accovacciata accanto ad un albero dal tronco nodoso e bianco come la neve, Annie Cresta si strinse ancora di più nel suo k-way nero, cercando, invano, di proteggersi dal freddo pungente che la faceva rabbrividire.
Le sue mani premettero ancora di più sulle orecchie, nel tentativo di estinguere l’eco dello sparo di cannone, il quale pareva rimbombare nella sua testa all’infinito, accompagnato da quelle strane voci che da giorni non le davano tregua.
Mugolò qualcosa di incomprensibile, mentre la figura di un hovercraft si avvicinava in lontananza, raccogliendo il corpo del malcapitato tributo che aveva incontrato la morte poco prima.
La diciassettenne lo osservò di sottecchi, con gli occhi verdemare sgranati dalla paura che l’artiglio scendesse anche per prendere lei.
Ma Annie non era morta, per quanto la sua situazione non fosse di certo delle migliori. Era viva, contro ogni previsione, ma le voci nella sua testa continuavano a suggerirle che sarebbe perita di lì a poco.
Lo vedi quello? Presto anche tu sarai lì sopra.
«No» mormorò la giovane, abbassando il capo e stringendo le palpebre tanto forte da farsi male. «No» ripeté, come a volersi dare una conferma. Non voleva morire. Il lento scorrere del tempo le aveva già tolto abbastanza senza che la privasse anche della vita.
L’ennesima folata di vento gelido la fece rabbrividire, e qualche altro lamento incomprensibile fuoriuscì dalle sue labbra martoriate dall’aria fredda. Si morse il labbro inferiore, e il tipico sapore ferroso del sangue le riempì la bocca.
«Finnick…»
Il nome del suo mentore le balzò in testa all’improvviso, richiamato da qualche remoto pensiero. Annie non seppe spiegarsi perché tra tanti avesse pronunciato proprio quello di Finnick Odair – lei, che fino a qualche mese prima lo considerava un vanesio ragazzo che aveva avuto la fortuna di vincere a soli quattordici anni. Eppure, in quei pochi giorni di permanenza a Capitol City, aveva scoperto un nuovo volto del Vincitore dei sessantacinquesimi Hunger Games. Aveva visto la sua bontà, il suo essere un gran lavoratore, la sua parte fragile che mai sembrava potesse emergere.
All’improvviso, la pelle ruvida e abbronzata del suo mentore, i suoi occhi verdi e il lontano profumo di salsedine che pareva emanare la sera in cui l’aveva abbracciata le erano ritornati in mente come un’onda in piena, annebbiandole ancora di più il cervello. Per pochi minuti le aveva ricordato la sua casa, il Distretto 4, e – quando aveva appoggiato l’orecchio al petto di Finnick – le era parso che il battito del suo cuore sembrasse lo stesso rumore delle onde del mare che si infrangevano contro gli scogli.
Sapeva di casa, lui, sapeva di giornate passate sulla spiaggia e di ricordi tanto belli quanto dolorosi. Stare tra le sue braccia era stato come tornare – anche solo per poco tempo – al quarto Distretto.
«Finnick…»
Un’implorazione.
Il nome del mentore sembrava questo, pronunciato con il tono lamentoso e disperato della diciassettenne, che – nel dirlo una seconda volta – levò il volto verso il cielo, assottigliando gli occhi per non restare accecata da quella strana luce biancastra tipica del cielo che precede un temporale.
Sperava – in qualche modo – di vedere comparire il volto di Finnick nel cielo plumbeo, di trovare un segno. Si sentiva persa e sola, là dentro, come mai in vita sua.
All’improvviso, qualcosa comparve in lontananza.
Inizialmente Annie non lo notò, poiché le nubi cariche di pioggia erano del medesimo colore di ciò che stava cadendo verso terra. Pian piano, esso si fece più vicino, e la ragazza notò che il suo colore era grigio, ma non cupo come il cielo dell’Arena. Sembrava quasi scintillare, mentre si avvicinava verso terra, ondeggiando, cullato dal vento.
Per un istante, ad Annie parve una barca, una di quelle che lei era abituata a vedere a casa, quando passeggiava sulla spiaggia e si beava della sensazione della sabbia che si infilava negli spazi tra le dita dei piedi. Si muoveva proprio come un’imbarcazione cullata dalle onde del mare quando erano poco alte, scendendo verso terra lentamente, accompagnato da un suono dolce e acuto, che ricordava vagamente il carillon che Annie teneva nella sua stanza all’orfanotrofio.
Le iridi verdemare della ragazza seguirono l’oggetto grigio nella sua discesa, prima con timore, poi con rinnovata curiosità. Quando fu quasi a terra, Annie notò che era un paracadute – lo riconobbe, ricordando alcune edizioni passate che aveva visto in tv.
Si alzò leggermente, decisa ad andare verso il regalo del cielo, ma qualcosa la bloccò.
Ti stanno dando il colpo di grazia.
Istintivamente, la giovane portò le mani alle orecchie, premendo con forza. Le voci se n’erano andate per quel breve momento durante il quale gli occhi di Annie erano rivolti al paracadute, ma non appena esso fu a terra, ritornarono quasi più forti di prima.
La diciassettenne rimase ferma, accucciata a terra, con le mani salde sui padiglioni auricolari.
Andare o non andare? Annie si trovava dinnanzi ad un dilemma troppo grande. Mentre lo osservava scendere, si era decisa che quello doveva essere un regalo di Finnick, ma le voci l’avevano riportata alla brusca realtà. I segreti degli Strateghi erano tanti, innumerevoli: avrebbero potuto trarla in inganno con la scusa che quello era un regalo del suo mentore. Del resto, prima che Rej morisse e le voci iniziassero a darle fastidio, Annie aveva sentito una delle sue alleate lamentarsi che stavano morendo pochi tributi.
«Gli Strateghi organizzeranno qualcosa» aveva detto la ragazza del Distretto 1, fissando il cielo come a voler ottenere una risposta da coloro che manovravano tutto ciò che accadeva nell’Arena.
Annie rimase ancora ferma, senza distogliere lo sguardo da quello strano oggetto.
Avvicinati e muori.
Una voce femminile ridacchiò nella sua testa. La ragazza del Distretto 4 strizzò le palpebre, premendo le mani sulle orecchie.
«Non voglio morire» mormorò, con la voce rotta dal pianto.
Tutto quel dilemma la stava facendo disperare. Doveva andare e rischiare o restare ferma ad aspettare? Ogni minuto che passava era un minuto sprecato, sessanta secondi della sua vita che l’avvicinavano sempre di più alla morte.
In quest’Arena morirai di sicuro. Vai , guarda cosa c’è, e se è qualcosa di bello tanto meglio. Tanto lo sai di non avere speranze, qua dentro. Sono vivi solo il ragazzo del Distretto 2, quel bestione del Distretto 6 e la ragazza del Nove, che potrebbe ucciderti facilmente. È pazza come te.
A parlare, questa volta era stato un maschio. Aveva una voce da persona anziana e, all’apparenza, sembrava molto saggio.
Annie fece un verso impaurito, prima di alzarsi del tutto. Pareva che le avessero infilato una spina dentro le gambe, collegandole ad una fonte di elettricità, perché tremavano come mai in vita sua.
Fece un piccolo passo indeciso, deglutendo nervosamente. Avvicinò la mano destra al volto, scostando i capelli castani che le erano finiti dinnanzi agli occhi, donandole un’aria ancor di più da pazza.
Camminò piano, come quando doveva girovagare per l’Arena con i suoi alleati e stare attenta a non farsi sentire dai nemici. Tuttavia, le foglie secche scricchiolarono al contatto con i suoi anfibi sporchi di terra, producendo un suono spettrale.
Arrivò accanto al paracadute con una lentezza esasperante, le mani vicino al collo, pronta per premerle sulle orecchie non appena le voci avessero iniziato a darle fastidio.
Il vento continuava a soffiare ancora più forte, pizzicandole il viso, la cui pelle era già abbastanza screpolata per tutta l’aria presa nelle ore precedenti.
Annie si accovacciò accanto al paracadute, fissandolo con insistenza. Allungò una mano verso il telo argentato e lo scostò con dita tremanti, gettandolo via come se da un momento all’altro dovesse saltar fuori un mostro per sbranarla.
Al telo era attaccata una scatola di un grigio scuro, quasi nero, quadrata e dall’aria minacciosa.
La ragazza si morse il labbro inferiore, riaprendo di nuovo uno dei tanti tagli che sopra formavano un reticolo vermiglio. Percorse con le dita la superficie della scatola, tastandola con cautela.
Fu una sorpresa sentire un’incisione. Prima non l’aveva notata, per via delle lacrime di paura che le avevano offuscato la vista. Si stropicciò gli occhi, passando la mano destra anche sulle gote per asciugare le lacrime che poco prima erano rotolate lungo la pelle screpolata.
Guardò con più attenzione e, finalmente, vide di cosa si trattava.
Un amo da pesca, circondato da pesci che saltavano fuori dall’acqua; il simbolo del Distretto 4.
Una risata isterica proruppe dalle sue labbra martoriate, mentre Annie apriva con frenesia la scatola grigia. Grazie all’incisione aveva avuto la conferma che quello era un regalo di Finnick, un segno che lui aveva ascoltato le sue preghiere.
La prima cosa che le balzò agli occhi quando aprì fu un foglietto piegato a metà. Annie lo prese tra le dita – la cui pelle, come quella del resto del corpo, era martoriata dal vento gelido – e lo aprì.
Sopra – vergate con dell’inchiostro nero, in una scrittura quasi infantile e sicuramente da maschio – erano scritte poche e semplici parole, ma l’effetto che ebbero sul tributo femmina del Distretto 4 fu devastante: ci sei quasi.
La firma fece poi fare una capriola al cuore ormai gonfio di malinconia e paura di Annie, guarendolo un po’ dalle ferite che si portava dietro ormai da giorni.
Era da parte di Finnick.
Ma la cosa più bella non fu tanto il messaggio del suo mentore, quanto ciò che vi era all’interno insieme ad esso.
Annie lasciò cadere il foglietto, scacciando i capelli dal volto e mettendo una ciocca castana dietro le orecchie. La sua mano destra corse poi all’interno della scatola, tirando fuori il secondo regalo del suo mentore.
Una lacrima dispettosa e solitaria iniziò a scorrere lungo la gota sinistra della ragazza, accompagnata da un singhiozzo che parve scuotere tutto il suo corpo magro – anima compresa.
«Papà…» mugolò Annie, prendendo tra le mani l’ultimo ricordo del genitore morto qualche anno prima: una collana.
Oggettivamente, la stessa Annie Cresta ammetteva che non era niente di particolarmente bello o lussuoso – non era nient’altro che un semplice spago nero, al quale era attaccata una conchiglia in bronzo. Persino una sua compagna di classe molto più ricca di lei l’aveva definita «niente di che», qualche anno prima.
Eppure, quel semplice oggetto valeva più di mille altri, per Annie. Era l’ultimo ricordo che aveva di suo padre e sua madre – colei che l’aveva posseduta prima della diciassettenne. Annodandola al collo, Annie ebbe l’impressione di essere tornata al Distretto 4, con suo padre, durante una delle loro passeggiate sulla spiaggia, la cui sabbia era ancora calda per via del forte sole pomeridiano tramontato da poco. Le parve di risentire il tipico odore di salsedine che permeava un po’ dovunque, al Distretto 4, e, per un istante, la voce di suo padre si aggiunse alle mille altre che da giorni non le lasciavano tregua. Ma quella del signor Cresta era diversa. Calda, gentile, amorevole: per un istante, Annie si sentì la bambina di qualche anno prima, quella che adorava salire in groppa al suo papà e farsi portare sugli scogli ad osservare le onde.
Sembrava quasi che ciò che tutti le dicevano sempre – i morti non ci lasciano mai veramente – fosse diventato improvvisamente vero, perché finalmente Annie sentiva suo padre accanto a lei, sentiva la sua voce profonda e le sue mani che le circondavano le gambe corte per impedirle di cadere ogni volta che la teneva sulle spalle.
Con il corpo scosso dai singhiozzi, Annie alzò lo sguardo verso il cielo, che all’improvviso sembrava essersi fatto più scuro.
«Grazie» disse, rivolta a Finnick, e fu come se potesse vedere il suo sorriso da ragazzino spaccone tra le nuvole.
Per molti, quel regalo non sarebbe stato nulla, ma per Annie Cresta fu come se Finnick Odair l’avesse salvata, proprio come la sera prima di entrare nell’Arena, quando lui l’aveva stretta a sé e lei si era sentita protetta come le capitava solo quando suo padre era ancora vivo.
 
 
*
 
« I feel you keeping me alive.
You are my salvation.
Hold me, heal me, keep me near.
My heart will burn for you,
It’s all I can do. »
 
 
L’urlo parve risuonare all’infinito nella quiete della spiaggia.
Rapidamente, Finnick si alzò dalla posizione nella quale si era sistemato qualche minuto prima, quando era andato a rifugiarsi sugli scogli per trovare un attimo di pace, mentre osservava le onde.
Spaventato, il ragazzo guardò a destra e sinistra, cercando indizi di ciò che stava succedendo. La voce che aveva appena urlato era quella di Annie – l’avrebbe riconosciuta tra mille, lui, perché ormai era abituato a sentire quelle urla strazianti che lo tenevano sveglio di notte, quando andava nell’abitazione di Annie per controllare che non le succedesse nulla.
«Dove sei?» mormorò, in preda ad una disperazione cieca che gli ottenebrava i pensieri.
Poi la vide.
Era una figura in lontananza, inginocchiata sulla sabbia, ma anche a quella distanza Finnick la notò distintamente. Aveva le mani sulle orecchie, come a voler tenere lontane quelle voci che – a quanto diceva – continuavano a parlarle e a ridere di lei.
Senza perdere ulteriore tempo, il ragazzo iniziò a correre in direzione della Vincitrice dei settantesimi Hunger Games, non curandosi minimamente della sabbia che – sollevata dai suoi piedi nudi – gli finiva negli occhi. Corse come se ne andasse della sua vita, come se Annie potesse volare via da un minuto all’altro.
E Finnick sapeva che quel rischio era alto, grande, insormontabile come un palazzo di dieci piani. Annie era come cristallo, bellissima, ma pur sempre fragile e delicata. Sarebbe bastato un solo alito di vento troppo forte, una parola sbagliata, un movimento scorretto e lei sarebbe caduta, spezzandosi in mille pezzi, e anche se qualcuno avesse rimesso insieme tutte le parti in cui si era rotta, lei non sarebbe più stata la stessa, ma sarebbero rimaste le crepe, mute testimoni di una vita ormai perduta.
La sensazione che Finnick aveva quando stava di fianco alla ragazza era proprio questa. Gli pareva di essere affiancato a del cristallo ormai rotto – eppure, tra mille crepe, Annie riusciva ancora ad essere bellissima e preziosa.
«Annie!» gridò, mentre si avvicinava, ma la giovane non lo degnò di uno sguardo, e i suoi occhi erano ancora serrati, le mani saldamente attaccate alle orecchie, quasi le volesse strappare via.
«Annie» questa volta fu un semplice mormorio ad uscire dalle sue labbra, mentre si accovacciava accanto alla ragazza e posava le mani sulle sue, cercando, disperatamente, di farla calmare.
«Falle smettere! Falle smettere!» Continuava a stillare Annie, e Finnick non riusciva a ragionare lucidamente per farla stare tranquilla.
«Guardami, Annie». Cercò di utilizzare un tono perentorio, ma la sua voce era roca e bassa. La Vincitrice continuò ad agitarsi, e a nulla valse il tentativo di Finnick di prenderla tra le braccia e stringerla. Annie continuava a strillare parole senza senso, cercando di divincolarsi dalla presa ferrea del ragazzo.
«Guardami». Finnick lo ripeté con disperazione, mettendoci tutti i suoi sentimenti, ma Annie continuò a rifuggire il suo sguardo. Per un istante – un breve e orribile momento – a Finnick parve di essere tornato indietro di pochi anni, quando lui era ancora un ragazzino del Distretto 4 con un fratellino disabile. Il suo cuore perse alcuni battiti, mentre il volto di Bora – tanto familiare quanto lontano – prendeva il posto di quello della ragazza che lui stringeva tra le braccia. Sembravano non avere nulla in comune, loro due, se non quello strano comportamento: evitare gli sguardi della gente e chiudersi in un mondo tutto loro.
Finnick si sentì debole e indifeso, mentre il volto di suo fratello sembrava urlargli – in un modo in cui il vero Bora non avrebbe mai fatto – tutto il suo risentimento, perché lui lo aveva lasciato andare, non era riuscito a salvarlo, ma l’aveva fatto morire per un suo stupido errore.
Non l’aveva salvato.
Finnick desiderò lasciare andare Annie e iniziare anche lui a premersi le orecchie con le mani, strizzare le palpebre e lasciare tutto il mondo che lo circondava al di fuori della sua testa, dove gli incubi e le sue paure continuavano a rincorrerlo come un animale feroce con la sua preda.
Tuttavia, non lo fece, e la sua presa si fece addirittura più salda, mentre Annie si dibatteva come un animale colpito dal cacciatore; un animale che sa di dover scappare, altrimenti morirà.
Non aveva salvato suo fratello, Finnick, ma poteva ancora salvare lei dalla spirale di perdizione in cui era caduta durante gli Hunger Games. Voleva rivedere i suoi occhi verdemare splendere di felicità, come la sera in cui si era rimirata allo specchio e aveva ridacchiato, indicando contenta l’abito che la sua stilista le aveva preparato per l’intervista. Era stato l’unico momento di lucidità che Annie aveva avuto nei giorni prossimi all’uscita dell’Arena, e l’unico istante in cui Finnick aveva sentito il cuore gonfiarsi di gioia e orgoglio, quasi come se tutto quello che era accaduto prima fosse stato un incubo. Ma durante l’intervista, gli occhi di Annie avevano riassunto quella luce impaurita, le gambe avevano iniziato a tremarle e lei si era ritrovata inginocchiata a terra, con le mani premute sulle orecchie.
E allora, Finnick si era ritrovato nuovamente a pensare a tutti i suoi errori e i suoi sbagli, perché non era riuscito a salvare lei, suo fratello, i suoi genitori e nemmeno il suo migliore amico, perché tutti – non solo lui, Connor e Annie – erano stati coinvolti negli Hunger Games.
«Guardami!» Un urlo proruppe dalle sue labbra, senza che Finnick pensasse minimamente a cosa stesse facendo. Sapeva solo di essersi sentito così arrabbiato, così furioso con se stesso, da non riuscire a trattenersi.
Pian piano, Annie smise di dibattersi e aprì gli occhi, due portali verdemare che introducevano alla dimensione della tristezza, quel sentimento che la diciassettenne – ormai prossima ai diciotto anni - si portava addosso da mesi.
Quelle iridi così belle quanto impenetrabili incontrarono quelle del medesimo colore appartenenti a Finnick, in un misto di timore e sollievo.
Vedendo quegli occhi grandi, il Vincitore desiderò solamente far riacquistare loro la lucentezza che avevano la sera dell’intervista, quando Annie aveva ammirato contenta il suo abito. Voleva salvarla dalla disperazione e dalla angoscia, dagli Hunger Games e dagli incubi che essi comportavano. Desiderava stringerla tra le sue braccia, baciarla, quasi quel bacio potesse risucchiare via tutti i sentimenti negativi di Annie.
Non aveva salvato nessuno di quelli che amava, ma poteva fare un piccolo tentativo con lei. Perché – Finnick ormai se n’era reso conto all’improvviso – si era innamorato di lei.
 
 
*
 
« Touch you, taste you, feel you here. »
 
Salsedine. Mare. Sale. Annie.
I profumi che inebriavano le narici di Finnick ogni volta che premeva le sue labbra su quelle della ragazza erano paragonabili a nessun’altro. Erano buoni, dolci – troppo – tanto che Finnick si sentì ebbro di lei, come se il suo profumo fosse alcool e lui un ragazzo troppo ardito da berne in quantità industriali. Gli effetti collaterali che il solo annusare la pelle di Annie gli provocava erano esattamente quelli che il liquore provocava a chi ne beveva.
Vertigini. Esaltazione. Felicità. Desiderio di averne ancora.
Le loro labbra si separarono per un istante, un solo attimo che ebbe gli stessi effetti di una crisi d’astinenza.
Finnick ne voleva di più. Voleva che le sue labbra e quelle di Annie non si lasciassero mai; desiderava che il suo profumo così buono e dolce gli invadesse le narici sempre, senza mai lasciarlo.
In quel breve momento in cui le loro labbra rimasero separate, i loro occhi si incontrarono – si scontrarono.
Erano meravigliosi, gli occhi di Annie, con quel colore che a Finnick ricordava il mare che lui tanto amava; quel mare che era anche l’unica certezza della sua vita, perché il ragazzo era certo che lui non lo avrebbe mai lasciato solo, ma sarebbe sempre stato lì – burrascoso o calmo – ad aspettarlo.
Quando la guardava negli occhi, Finnick si sentiva come un naufrago in mezzo all’oceano, ma ciò che provava non erano emozioni brutte e poco piacevoli. Gli occhi di Annie erano un mare in cui Finnick avrebbe voluto perdersi, senza che il faro gli indicasse la via di casa.
L’amava.
Non era più il sentimento dolce e casto che lui aveva provato nei primi momenti del loro rapporto, ma si era evoluto in qualcosa di più. Era come la marea che, inesorabile, avanza, senza curarsi di ciò che trova nel suo passaggio; un uragano in piena regola, quell’amore, che turbava ed esaltava Finnick al tempo stesso.
Ciò che il giovane provava nei confronti di Annie non era paragonabile a ciò che aveva sentito anni prima nei confronti della sua migliore amica. Era un sentimento nuovo e diverso, lo stesso che lui per anni aveva osservato senza mai avvicinarsi troppo ad esso. Era lo stesso che notava sempre negli sguardi che si lanciavano i suoi genitori, nel modo in cui si tenevano per mano mentre passeggiavano sulla spiaggia e lui e Bora giocavano lontani, lasciandoli un po’ da soli.
Gli era capitato, prima degli Hunger Games, di fantasticare molte volte su cosa volesse dire amare una persona a quel modo. Ma i Giochi avevano portato via anche quelle fantasie infantili, lasciandolo emotivamente turbato, incapace di avvicinarsi ad una donna, con il timore che ella volesse portarlo a letto semplicemente per un’occasionale ora di piacere lussurioso.
Ma Annie era diversa.
Lei non aveva quello strano modo di avvinghiarsi alle sue spalle, graffiandogli la schiena; non aveva la strana tendenza di urlare come una pazza durante l’amplesso o di fare commenti maliziosi – e volgari – sul suo corpo. Annie – Finnick lo sapeva – non avrebbe mai abusato del suo corpo per poi lasciarlo a marcire nella sua disperazione da qualche parte.
A Finnick piaceva fare l’amore con lei, perché lo faceva con trasporto e con passione, e quando si stendevano sul suo letto, sgualcendo le lenzuola, lui era davvero felice. Era una cosa naturale, come mangiare, bere e dormire, quasi i loro corpi fossero stati creati per stare a contatto l’uno con l’altro; per incastrarsi perfettamente come le tessere di un puzzle. Nessuno gli ordinava di farlo ed era questa la cosa più bella.
«Finnick…» mugolò Annie, mentre il ragazzo affondava un’altra volta dentro di lei, con passione, con amore, con tutto ciò che un uomo poteva provare nei confronti di una donna.
«Annie…» la sua voce, resa roca dall’estasi, sembrava provenire da un altro pianeta. «Ti amo» disse, e quasi non si rese conto della portata di quelle due, semplici parole. Non l’aveva mai detto a nessuno, e improvvisamente si sentì così felice, così innamorato che sentì le lacrime premere per uscire. «Ti amo» ripeté, come a volersi dare una certezza.
Appoggiò la sua fronte a quella di Annie, guardandola intensamente negli occhi. La ragazza arrossì, sospirando flebilmente. «Anche io».
Parole che risultarono come la luce del faro per un marinaio disperso. Finnick rise, felice, come un bambino che riceve un giocattolo che desidera da sempre. La baciò ancora una volta, con sempre più trasporto, sentendo che quel sentimento di amore cresceva sempre di più, ad ogni bacio, ogni carezza, ogni spinta. Era come se i loro corpi si stessero fondendo, come se il loro animo fosse collegato da una linea invisibile.
«Mi hai salvato» mormorò Finnick – e dirlo non fece altro che farglielo credere ancora di più.
Lei – con le sue stranezze, i suoi occhi e il suo sorriso – lo aveva trascinato fuori dall’abisso in cui era caduto dopo gli Hunger Games e la morte di tutti coloro che amava di più. Era entrata nella sua vita in punta di piedi, come un tributo mandato agli Hunger Games, spaventata, terrorizzata, insicura. Finnick non si sarebbe mai aspettato che Annie potesse diventare tanto importante nella sua vita, tanto fondamentale come lo erano stati pochi eletti.
Timidamente come era entrata nella sua vita, aveva conquistato il suo cuore, facendolo rinascere.
Lui aveva fatto di tutto per salvarla, per portarla a riva dopo che il suo porto sicuro era stato distrutto, ma non si era reso conto di tutto ciò che lei aveva fatto per salvare lui.
 
*
 
« All alone, lost in this abyss,
Crawling in the dark,
Nothing to wet my longing lips,
And I wonder where you are.
Are you far? Will you come to my rescue?
Am I left to die? But I can’t give up on you. »
 
Dove sei, Annie?
Lo specchio gli restituì l’immagine di un uomo dal volto quasi scavato e gli occhi allucinati, verdi come la sfumatura che assumeva l’acqua del mare sotto una certa luce.
Finnick percorse il perimetro del suo viso con l’indice della mano destra, piano, quasi avesse paura – toccando il suo riflesso – di far del male anche al vero Finnick Odair.
Quello che vedeva nella levigata superficie era un uomo diverso da quello che ricordava, un uomo devastato, senza più motivi per andare avanti.
Quante maschere era stato costretto ad indossare in tutti i suoi ventiquattro anni di vita? Quella che vedeva nello specchio era l’ultima di una lunga serie, quella dell’uomo depresso per l’improvvisa scomparsa della donna che amava.
Dove sei, Annie?
Erano giorni che se lo ripeteva, senza sosta, arrivando a mormorarlo persino nel sonno, quando gli incubi bussavano – come sempre – alla sua porta, senza lasciargli un attimo di tregua.
Ogni minuto – ogni secondo – non pensava a null’altro che Annie, ai suoi occhi verdi, ai suoi curiosi scoppi d’ilarità e all’improvvisa malinconia che talvolta sembrava trasportarla in un’altra dimensione. Ogni ragazza con i capelli castani e lunghi le sembrava lei; ogni persona con gli occhi verdi gli riportava alla mente il viso dolce della sua Annie, la ragazza che amava, la ragazza che – forse- poteva essere morta e lui non saperne nulla.
Fece ricadere il braccio lungo il fianco, sentendo che anche quel debole movimento gli stava portando via le forze – quelle poche che gli erano rimaste dopo l’esplosione dell’Arena.
Lanciato un ultimo sguardo all’uomo che era diventato, girò i tacchi per tornare nella sua stanza.
Messo piede lì dentro, il bianco lo accecò come gli accadeva ogni volta che accedeva a quel luogo così poco familiare ed accogliente. Il candore di quella camera stonava con il grigio delle divise che tutti gli abitanti dovevano indossare, sembrava quasi fuori luogo. Oltretutto, con il riflesso delle luci al neon, sembrava di stare sotto i raggi del sole – quel sole che Finnick non vedeva da giorni, lo stesso che lui tanto era abituato a sentire sulla sua pelle.
Dove sei, Annie?
Se lo ripeté ancora, mentre si sedeva sul letto troppo scomodo che gli avevano assegnato, un letto che senza Annie al suo fianco pareva troppo vuoto. Era abituato a sentire il suo calore, i suoi capelli che gli solleticavano il petto nudo quando dormivano abbracciati e il suo profumo che permeava nell’ambiente. Lì dentro c’era solo l’odore pungente della candeggina e il lezzo dei corpi feriti.
Scivolò sotto le coperte con una lentezza esasperante, digrignando i denti mentre cercava di resistere al dolore che gli si irradiava ogni qualvolta che sfiorava un punto del suo corpo dove c’era un ematoma.
Affondò con il capo nel cuscino, immaginando di avere accanto Annie, i suoi occhi che si perdevano in quelli di Finnick e il suo sorriso dolce, quello che aveva solo quando stavano insieme.
Dove sei, Annie?
Ancora, come una muta preghiera, quelle tre parole risuonarono nella sua mente.
In quei giorni, non gli era giunto nemmeno uno straccio di notizia, non una parola di conforto, non una semplice constatazione. Avrebbe preferito che gli dicessero che Annie era morta, che quelli di Capitol City l’avevano uccisa per fargli un dispetto. Finnick aveva tediato un’infermiera quasi per mezzora, prima che quella chiamasse una collega per sedarlo. Le aveva chiesto dov’era la sua Annie, cosa sapeva, cosa le avessero fatto, ma l’unica risposta che aveva ottenuto era stata un «stia calmo, signor Odair», che non aveva fatto altro, se non farlo andare fuori di testa.
Finalmente – perso in quell’abisso di dolore – capiva quello che provava Annie quando le voci nella sua testa si facevano troppo insistenti. Ogni tanto si era sorpreso rannicchiato sul letto, con le mani saldamente premute sulle orecchie per scacciare via tutti i brutti ricordi e presentimenti che lo avevano travolto come l’onda di un maremoto.
«Dove sei, Annie?»
Lo disse questa volta. Non fu un mormorio roco come le altre volte, ma parlò a voce alta, quasi Annie fosse accanto a lui.
Adesso conto fino a tre e qualcuno entrerà e mi dirà che Annie sta bene, che è viva. Perché lei dev’essere viva, lei è viva, lei tornerà da me. Dove sei, Annie? Sei tanto lontana? Tornerai per salvarmi?
Contò fino a tre, lo fece veramente, ma nessuno entrò nella stanza e nessuno gli disse che Annie era viva.
Chiuse gli occhi, Finnick, mentre una lacrima solitaria iniziava a scorrere lungo la sua gota destra.
Non era riuscito a salvarla come voleva.
Dove sei, Annie?

 


Alaska's corner

Eccomi, eccomi! Questa OS  è pronta da una settimana, ma ho aspettato a pubblicarla perché è un periodo davvero schifoso e fatico sia a leggere, che scrivere, che recensire. È orribile :(
Comunque, questa storia l'ho scritta per il contest "La vuoi una zolletta di zucchero? Finnick Odair's contest", indetto da ticci.EFP sul forum. Il tema era semplice: Finnick Odair. Un qualsiasi episodio della sua vita, o qualcosa a lui collegato. E io ho scelto di scrivere questa OS che ho in mente da tanto tempo.
Queste quattro scene sono collegate tutte da un unico tema, quello del "salvare", come credo si sia intuito dal titolo. A proposito, le frasi in corsivo e lo stesso titolo sono tratti da "Salvation" degli Skillet, una canzone che mi fa salire l'Odesta, come dico sempre. 
In pratica, la mia idea è stata di scrivere quattro scene in cui Finnick e Annie si sono salvati a vicenda, o comunque si sono aggrappati al ricordo l'una dell'altro per salvarsi. Eee... lo so, non è per niente originale ed è una cosa stupida, ma ci tenevo troppo a scrivere qualcosina su questa canzone. xD
Btw, qualche spiegazione devo darla, perché non ho voluto dire troppo nell'introduzione, per lasciarvi subito alla storia. 
• La prima parte è ambientata durante i settantesimi Hunger Games - Alaska Capitan Ovvio Version (Y) - poco prima che si rompa la diga che ha permesso ad Annie di vincere. Ci tengo a precisare che la Annie da me descritta è quella del libro, ossia con i capelli castani, lunghi e gli occhi verdi. [ Io me la immagino un po' come Laura Haddock o come Astrid Berges-Frisbey; sono perfette, a mio parere! ] Lo dico per evitare disguidi, visto che molti descrivono Annie con i capelli rossi, e vorrei evitare che qualcuno mi rimproverasse x3 Me è fedele alla trilogia u.u [ Anche se, devo ammetterlo, preferisco i film sotto parecchi punti di vista ].
Ah, le parti in TNR sono le voci che Annie sente nella sua testa, mentre la collana mandatale da Finnick è quella che lui indossa in CF. Ho letto su internet che è stata lei a regalargliela, quindi mi sembrava carino inserire questo dettaglio! [ È stata un'aggiunta nel film che io ho amato particolarmente! ]
Infine, Rej è il compagno di Annie durante gli Hunger Games, quello che è stato decapitato. 
*lo patta*

• La seconda parte è ambientata qualche mese dopo la Vittoria di Annie, poco prima del Tour, quindi dicembre/gennaio/febbraio/I don't know, ma comunque in inverno. 
Ci sono molti headcanon personali, in questa parte, e alcuni spoiler della mia long "But innocence is gone and what was right is wrong". Secondo me, Finnick aveva un fratello autistico  [ Anche se lui lo definisce solo come "disabile" poiché non credo che nei Distretti siano così tanto esperti di medicina ] e si chiamava Bora. E... sì, poi ciao, insomma. Non vi spiego com'è accaduta la sua fine per evitare spoiler grandi come una casa, l'importante è che sappiate che è morto per una scelta e un'azione sbagliata di Finnick. 
Il Connor/Migliore amico di Finnick nominato ad un certo punto è il vincitore dei sessantottesimi Hunger Games, un mio OC, che in pratica dopo i Giochi si è un po' "lasciato andare" e ha iniziato a fumare anche roba pesante, quindi Finn ci è rimasto piuttosto male.

• Oddio *///* La mia prima scena di sessoH. Mi vergogno parecchio, infatti non sono voluta entrare nei dettagli della descrizione. Credo di aver fatto un pastrocchio tremendo x3
Vabbè, comunque, la migliore amica di Finnick citata ad un certo punto si chiama Asherah, ed è morta anche lei. In pratica, è andata nell'Arena con lui ed era innamorata di Finn dall'età di otto anni circa, solo che lui si accorto di avere una cotta per lei... nell'Arena. Intelligente come sempre, Odair (Y) Comunque, è un altro mio headcanon proveniente dalla long. xD

• Ambientata nel Distretto 13, dopo che Finnick è stato prelevato dall'Arena insieme alla Babbea In... sorry, Katniss. Questa parte può sembrare molto "delirante", nel senso che viene ripetuta spesso una frase e Finnick fa pensieri un po' strani. Ho cercato di riprodurre un po' il trauma che lui ha subito, quindi diciamo che è un po' pazzo, in questa parte (xD). 


Insomma, spero vi sia piaciuta! Scusate le note lungherrime, ma dovevo assolutamente spiegare alcune cose, altrimenti la piena comprensione della storia sarebbe risultata difficoltosa :/
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Alla prossima, and ship Odesta. 
Alaska. ~
   
 
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