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Autore: emmeline    19/10/2014    1 recensioni
Era rosso, un rosso forte. Un rosso che ti avvolgeva.
Era rosso in ogni movimento, rosso quando mi abbracciava, rosso quando mi baciava.
Rosso quando le sfioravo la pelle e rosso quando si arrabbiava così tanto da non rivolgermi la parola per giorni.
Era rosso, era forte, era violenta.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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 Let me be your love ❞ 


Lascia che ti racconti di come ho incontrato la donna della mia vita. Quella che, sai, a pensarci ancora mi riempie un po’ il cuore e mi fa tremare. La sua immagine mi riempie la mente e istintivamente sorrido, sono brevi istanti, ma li colmano come mai nulla ha fatto o potrà fare.
Nonostante non sia una storia particolarmente lunga o interessante puoi metterti comodo. Ti offrirei da bere, se potessi, ti lascerei accompagnare la tua bevanda con un dolce, se tu ne avessi voglia. Spero, in ogni caso, che non sia un disturbo per te ascoltarmi.
Quindi lascia io inizi a parlare, così ognuno di noi potrà tornare alla propria vita e tu non sarai costretto ad ascoltare le mie fantasticherie. Il mio cuore aperto in una giornata qualsiasi.
Era una mattina come tante altre.
La stagione, ah, la ricordo perfettamente. Correvo sulle strade imbiancate della mia città. Tutto ricoperto da quel manto capace di regalare anche alla zona più ignota un certo velo di magia.
Correvo, avevo freddo ed ero in ritardo.
Le strade non erano particolarmente affollate, dalla finestra di una casa potevo vedere dei riccioli biondi e un visino volto alla tv, probabilmente due grandi occhi azzurri fissi su uno schermo coloratissimo e una colazione calda ad aspettarla nell’altra stanza, una cucina piccola ospitante una madre intenta a richiamarla più volte.
E la piccola le avrà detto di aspettare, più volte.
Siamo stati tutti bambini e tutti abbiamo fatto esasperare i nostri genitori. E loro continuano a ripeterci di crescere, di divenire indipendenti, di allontanarci dal guscio che è la nostra casa, ma ci lasciano il paio di calzini giusti la mattina e ci baciano la sera prima di coricarsi, come se facessimo ancora parte di quella sfera che è l’infanzia e non stessimo diventando adulti, abbandonando a malincuore quell’ingenuità e quell’innocenza tipica di chi guarda ancora il mondo con occhi nuovi e speranzosi.
Correvo sulle scale della metropolitana, la corsa che mi avrebbe portato al luogo dell’incontro sarebbe passata di  lì a pochi secondi.
Il mio orologio mentale martellava contro le pareti della mia testa. Che ticchettio fastidioso, che lancette invadenti.
Tick tock, tick tock.
Se solo la sveglia avesse suonato, quella mattina! Se solo mia madre avesse sgridato il cane per qualche sua marachella, come al solito!
Quella mattina, invece, sembrava essere andato tutto storto.
Non avevo fatto colazione perché non avevo tempo, sentivo il naso gelido e pronto ad abbandonarmi da un momento all’altro, avevo rischiato di cadere sulle strade ghiacciate ed ero stato costretto ad aggrapparmi agli altri poveri e disgraziati presenti sulle scale mobili per non capitombolare.
Sono una di quelle persone che, puntualmente, viene guardata in modo strano. Non perché mi vesta in modo particolare o abbia capigliature dai colori sgargianti, sono una persona piuttosto anonima, lo confesso. Il motivo di tali situazioni è dovuto alla mia goffaggine, quella sbadataggine intrinseca nel mio essere che mi segue da quando ero in fasce. Da quando caddi in tenera età e mi tenni al lembo della tovaglia cercando di rimediare ma finii per rovesciarmi il pasto addosso, rovinando l’allegra cena di famiglia, ma regalando comunque qualche risata.
Mia madre si era disperata per la pasta che ormai era impigliata tra i miei capelli ricci e distesa sul pavimento e mio zio tentava di soffocare le risate al di là del fazzoletto, fingendo di pulirsi la bocca. Era stato lui stesso ad accompagnarmi in bagno e ad aiutarmi a pulirmi e cambiarmi.
I ricordi di un’infanzia del tutto normale, i miei.
Un’infanzia abbastanza felice e nella norma.
Ero uno di quei bambini che ha sempre chiesto un determinato giocattolo e un animale domestico e non l’ha mai ricevuto, perché costava troppo o perché era troppo impegnativo da gestire, mia madre le utilizzava come scuse per qualsiasi cosa.
Ancora oggi  le usa come scuse per molte cose.
Scusa, a che punto della storia eravamo? Spero mi perdonerai, ma tendo a distrarmi molto durante i miei racconti. In caso io dovessi farlo di nuovo e la cosa ti infastidisse, sei libero di farmelo notare.
C’erano vagoni rossi, quella mattina.
Rosso fiammeggiante, rosso rubino.
Vetture nuove, quasi insolite per un posto come quello in cui vivevo.
Molta gente, una calca quasi soffocante oserei dire, tutti impegnati a spingerci e a sgomitare per trovare un posto. Un po’ come succede tutti i giorni, insomma. Nella vita, intendo. Sgomitiamo e urliamo per farci sentire. Per farci notare. Se non fai rumore, raramente vieni visto dagli altri. Il testo di una canzone confuta questa teoria parlando delle stelle, e come nonostante questi astri siano in silenzio tutto il tempo, vengano ammirate da tutti e da sempre. Da quando si ha memoria le stelle sono state accarezzate da occhio umano: le stelle sono portatrici di speranze, le persone affidano a quei puntini luminosi i loro desideri e vi sperano così tanto finché questi non si avverano.
E allora che mi chiedo: le stelle, quando cadono, fanno rumore? Sono davvero così silenziose come sembrano o sono solo troppo lontane perché il loro pianto, loro urla, i loro lamenti o le loro risate non raggiungano il nostro udito? Ci è preclusa la possibilità di sentire la loro voce?
Alcune persone sono stelle.
Stanno in silenzio, nei loro angoli, ma riescono ad attirare tanti sguardi.
E lei era una stella.
Fu, probabilmente, la prima cosa che pensai quando ebbi la fortuna di vederla.
Mi crederai pazzo e forse lo sono. Forse lo sono stato per tutto questo tempo. Pazzo di una figura appena incontrata, di una ragazza con una borsa troppo grande e un cappellino bianco come la neve che ancora stava cadendo, mentre noi lottavamo contro la folla per riuscire a prendere posto nella metropolitana.
Era bella, bella da far male, quella bellezza su cui inevitabilmente posi gli occhi, quella bellezza capace di farti stringere lo stomaco. Mi sentivo così, capisci? Non avevo le farfalle, no, quella è una storia per ragazzine tredicenni e frustrate, c’erano nodi nel mio stomaco che mi contorcevano le budella.
Gli occhi erano grandi, erano immensi. All’interno avresti potuto leggerci mille storie, mi segui? Ma lei le storie le leggeva da quel libro consumato che aveva tra le mani, probabilmente il suo preferito, le leggeva e a qualche parola sorrideva. Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso, ma lei non mi ha notato. In ogni caso, in quel momento, non m’importava se potevo restare a guardarla.
Così continuai a farlo e finii per perdere la mia fermata perché volevo venire a conoscenza di un pezzo della sua quotidianità.
Iniziai a farmi molte domande su quella ragazza.
Chissà dov’era diretta, chissà se stava tornando tra le braccia di una casa accogliente. Chissà che non stesse correndo da qualche amica per consolarla o farsi consolare dall’ultima delusione ricevuta.
Chissà se era la prima volta che si dirigeva in quel posto. Se c’era il suo ragazzo ad attenderla alla banchina.
Sorrideva.
Sorrideva come chi aveva tanto da dare.
Sorrideva come chi vedeva il mondo da un’altra prospettiva, come chi poteva guardare gli altri con sufficienza perché lei era meravigliosa.
La guardavo e pensavo che l’inverno non avrebbe potuto avere un modo migliore per descriversi.
Aveva i capelli rossi come fiamme, ma io pensavo alla delicatezza dei fiocchi che cadevano fino a posarsi sui tetti, sulle strade, sulle foglie stanche degli alberi.
Pensavo al vento ululante.
Lei arrivò a destinazione, io arrivai in ritardo, i miei amici si arrabbiarono, eravamo ragazzi ed eravamo giovani, sapevo che nessuno mi avrebbe ascoltato e così non dissi nulla, mi limitai a pensarla per tutto il tempo, ogni ragazza dai capelli fiammeggianti mi ricordava le, ma nessuno era da paragonare a quel viso.
A quei lineamenti, a quegli occhi.
Non pensavo ad altro, non potevo pensare ad altro. Dopo aver visto lei il mondo sembrava diverso.
Il giorno dopo non avevo alcun appuntamento. No, non avevo alcuna lezione. Eppure tu saprai benissimo dove mi ero diretto.
Ah, sì, sono uno stupido, non mi dici nulla di nuovo, è una cosa che ritengo vera anche io. Non ho problemi ad ammettere di essere stato un perfetto idiota a svegliarmi troppo presto e correre nuovamente e farmi spazio tra la gente solo con la speranza di rivederla.
Perché ciò che avevo era quella: misera speranza. Cumuli di cenere che mi scivolavano dalle dita.
Sarebbe potuta capitare in un vagone differente dal mio.
Sarebbe potuta non essere presente.
Prendere una corsa diversa.
Non avere motivo di essere lì.
C’erano tanti “se” e in base a quei “se” tante cose sarebbero potute succedere o meno, tanti universi paralleli avrebbero potuto crearsi nelle diverse fratture temporali, ma questa è un’altra storia e non ti annoierò più di quanto io stia già facendo.
Quella mattina mi sentivo come la bambina del giorno prima. Incredibilmente piccolo e inevitabilmente colmo di speranze, miste ad una buona dose di adrenalina che mi scaldava i muscoli intorpiditi.
Quando le porte si chiusero, mi voltai, la vidi e mi acquietai, istantaneamente. Dentro di me sorrisi, perfino, di nascosto.
Seduta allo stesso posto, con lo stesso libro, la stessa borsa e abiti differenti.
Indossava ancora lo stesso sorriso, però, e tanto mi bastava.
Così, ogni mattina, il rosso assumeva un nuovo significato per me.
La prima volta che la vidi era il vagone in cui entrambi eravamo capitati.
Quando la vidi la seconda volta, quel rosso ero in grado di associarlo solo ai suoi capelli.
Successivamente, lo avrei ricollegato al rossetto che le dipingeva le labbra, troppo maturo per una come lei.
Poi accadde, accadde che dimenticò il libro.
Io avevo visto tutto, ovviamente, perché lei era tutto ciò che guardavo la mattina, quando non avevo una meta precisa.
L’aveva poggiato sul sedile libero accanto al suo e mentre cercava qualcosa nella sua borsa si era accorta di essere arrivata alla sua fermata. Era corsa via senza accorgersi di nulla.
So cosa starai pensando, certo, quello che penserebbe chiunque. Che avrei potuto avvisarla. Ma quale occasione migliore di quella?
Lo presi io prima che potesse farlo qualcun altro.
Una parte di me, egoista ed infantile, sembrava affermare che quel libro mi appartenesse di diritto. Mi sentivo geloso di quel libro e lo presi. In custodia, ovviamente. Sfogliai qualche pagina, perché era il suo preferito. Non lo avrei fatto altrimenti. Puoi capire tanto di una persona leggendo il suo libro preferito. Puoi capire molto di qualcuno ascoltando le sue canzoni preferite. Certe cose puoi capirle solo rispettando questi due punti, perché ciò che trovi nei libri e nelle canzoni non è esplicabile a parole. In ogni caso, anche se fosse possibile, la gente tende a non dirle certe cose. Troppo personali. A volte fanno troppo male. E’ come scavarsi dentro, ficcarsi le dita in ferite ancora aperte e sanguinanti, o costringerne alcune ormai guarite a riaprirsi nuovamente con tutta la crudeltà possibile.
La mattina dopo glielo restituii.
Quando vide il suo librò sembrò illuminarsi e stavolta sorrise davvero. Non accennò semplicemente un sorriso come accadeva di solito, curvando solo un angolo delle labbra.
Oh, no: stavolta sorrise e sorrise sul serio. Sul suo voltò si dipinse il chiarore della primavera.
Ah, poi lo seppi, lo seppi con certezza: era un tripudio di stagioni ad alternanza.
Solare, calda, lagnosa e fredda.
Poteva essere tutto.
Poteva essere forte, debole.
Poteva parlare tanto o troppo poco.
Poteva sciogliersi ad una carezza o allontanarsi al minimo gesto brusco.
Ci siamo intrufolati in una casa altrui e abbiamo dormito nel loro letto e siamo sgattaiolati via prima che potessero scoprirci e ho rubato due bottiglie di birra dal loro frigo, ci siamo deliziati di quel liquido ambrato mentre tornavamo a casa, barcollanti per strada e ancora assonati, con i capelli scompigliati e gli occhi brillanti di sogni.
Lei era difficile, incredibilmente. Aveva passioni così strane e starle dietro era partecipare ad una maratona senza essersi preparati.
Profumava di buono.
Pian piano lei diventò rosso, per me.
Non era rossa sola la sua capigliatura, il rossetto che era solita mettere sulle labbra pallide o i vestiti che indossava nelle serate particolari.
Era rosso, un rosso forte. Un rosso che ti avvolgeva.
Era rosso in ogni movimento, rosso quando mi abbracciava, rosso quando mi baciava.
Rosso quando le sfioravo la pelle e rosso quando si arrabbiava così tanto da non rivolgermi la parola per giorni.
Era rosso, era forte, era violenta.
Come un colpo, un pugno, un proiettile in pieno petto.
Ci siamo tuffati nella neve, eravamo giovani e stupidi e abbiamo agitato le braccia fino a lasciare la forma delle ali di un angelo.
Era rossa come le sfumature di tutti i tramonti che vedemmo.
Rossa come il sangue che aveva versato per arrivare fino ai suoi traguardi, rossa come le parole che aveva urlato con tutto il fiato che aveva in gola.
Rosso, come il suo naso quando l’ho baciato in una sera d’inverno.
Rosso come le sue guance dopo averle detto quanto bella fosse mentre eravamo tra coperte troppo calde.
Ci siamo stesi sull’erba e ci abbiamo passato la notte, abbiamo lasciato le portiere della mia auto aperte così da poter sentire meglio la musica, cantavamo ed eravamo entrambi stonati, ridevamo e abbiamo svuotato una bottiglia di vodka e ci siamo sentiti male e le ho tenuto i capelli mentre si liberava nascosta dietro un albero. Poi mi ha detto che era stata una serata bellissima.
Era il rosso della mia vita.
Come quando i bambini si ostinano a colorare i cuori di rosso e fuoriescono dai bordi.
Lei era così.
Un cuore colorato troppo e poi esplodeva, ricadendo su di me.
Mi scriveva segreti sulla pelle, sfiorandomi il petto con la punta delle dita.
Siamo scappati da un ristorante senza pagare, solo perché ci andava.
Rosso era il suo respiro quando sussurrava.
Rosso erano i segni con cui ci laceravamo la pelle, trovandoli meravigliosi alla luce del sole.
Le confessai che era il mio rosso.
Mi disse che avremmo potuto esserlo insieme.
Prima di incontrare qualcosa capace di sconvolgere del tutto la tua monotonia, la vita solitamente è grigia. Piatta e forse triste. A volte ti illudi che vada bene, ma di colori non ce ne sono. Non sempre, almeno. Non tutti. Ne mancano, come un pittore che ha bisogno esattamente di quella tonalità per terminare il suo dipinto e non può reperirlo in nessun modo e si lascia sprofondare nel baratro della disperazione.
Quando poi il rosso finalmente si presenta ai suoi occhi e gli dice che andrà tutto bene, ecco, è lì che inizia a vivere.
 
Cosa accadde poi, mi chiedi.
Oh poi, poi sai cosa successe?
Successe che lei si alzò, sparì dalla mia visuale e le porte si chiusero alle sue spalle.
A quel punto, di lei, non mi era rimasto più nulla.
Succede, alle volte. Succede, la vita fa brutti scherzi. La vita ti piazza davanti questa persona e, indipendentemente da ciò che accade, difficilmente la dimenticherai.
Tuttavia, stavo bene.
Avevo ragione a pensare fosse una stella. Una stella in piena precipitazione, ne sono sicuro, seppur non me l’abbia mai detto.
Sai, è stata davvero rosso per me, lei.
Rosso per quel breve lasso di tempo. Nessun altro è stato rosso come lei, da quel giorno.
Rosso non è il colore che vedi quando lei sparisce.
La vita torna grigia, quasi vuota. Un vecchio film in bianco e nero, la cui maggior parte delle battute sono ancora inedite.
Non ripeterti, ho già detto di essere consapevole della mia stupidità. Eppure non sostituirei quei quindici minuti della mia vita con nient’altro al mondo.
Sceso dalla metro, in ritardo per un appuntamento tra amici, tutto ciò che avevo era la scia del suo profumo alla cannella.
Stavo bene perché, tornato a casa, la sua chioma rossa sarebbe stata una chioma rossa come tante altre. Avrei dimenticato presto le sfumature dei suoi occhi nocciola, quelli in cui avevo letto storie. Presto anche quelle storie sarebbero volate via, lontane dalla punta della penna, pronte ad imprimerle su carta.
Nella mia mente non sarebbe più stata presente la piacevole sensazione cromatica del solo guardarla, data dal metodico modo di abbinare gli abiti che le fasciavano il corpo.
Tra tanti libri non avrei più avuto memoria di quello da lei preferito, dalla copertina consumata.
Io l’ho amata e lei non lo saprà mai.
L’ho amata in quei quindici minuti, i più lunghi della mia intera esistenza, l’ho amata più di quanto potrà mai fare qualcun altro. L’ho amata di un amore stupido e folle. Ho desiderato metterle fiori tra i capelli, baciarle la pelle chiara e spogliarla di ogni insicurezza per vederla davvero. Ho desiderato guardarla negli occhi, comprarle i prossimi libri da lei tanto agognati, pagarle tutti i biglietti del cinema e riaccompagnarla a casa perdendo il treno ogni sera, solo per non lasciarla sola. Ho desiderato svegliarmi nel cuore della notte e correre da lei solo perché un suo messaggio mi informava di una qualsiasi tristezza improvvisa. Ho desiderato vederla al mattino, senza trucco, con la luce del sole a colpirle il visto dai lineamenti dolci e ho desiderato comprarle la colazione, perché non so cucinare. Viaggiare e amarci molto, incondizionatamente. Ho desiderato per lei il meglio e non conosco neanche il suono della sua voce. Non so neanche il suo nome. E’ un bene perché non potrà mai mancarmi, tutto ciò.
Capita, a volte.
Capita e neanche te ne accorgi.
La vita fa così, ti piazza davanti una persona e pensi che potreste andarvi bene. Pensi che la metro potreste aspettarla insieme, la mattina. Pensi che potresti offrirle della cioccolata calda in quei giorni in cui scaldarsi è impossibile per via delle temperature troppo basse. Pensi che potresti lasciarle il numero, poi cenare insieme, poi tornare a casa insieme, guardare i film, leggere libri, scavarvi nella pelle, graffiarvi le ossa, stapparvi la carne, sorridervi e sarebbe perfetto.
Oh, no, queste non sono lacrime— forse sì. Probabilmente è il caso che io cerchi un fazzoletto comunque. Pensavo, sai, che la vita fa così: ti mostra tutte queste cose e, il più delle volte, te le porta via.
La mia storia termina qui, giovane ascoltatore.
Che ne diresti, adesso, di raccontarmi la tua?



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Ehiii, questa storia era stata scritta per un concorso di cui, ahimè, non ho mai saputo nulla. Lo so, lo so. Questa cosa chiamata "organizzazione", sconosciuta ai più, immagino. E' un peccato perché è una storia a cui mi ero affezionata e in cui avevo dato il meglio di me, credo, a conti fatti. Non avevo la presunzione di vincere suddetto concorso quanto più di sapere in quali mani il mio racconto fosse finito.
Alla mia migliore amica era piaciuta molto e mi ha dunque caldamente invitata a pubblicarla perlomeno su efp. Che dire, spero vi sia piaciuta e che sia riuscita a regalarvi le stesse emozioni che ho provato io scrivendola. Un abbraccio. :*
   
 
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