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Autore: sleepingwithghosts    21/10/2014    0 recensioni
Dal primo capitolo:
«Ti piacciono ancora le tette, giusto?». Lui mugolò in modo affermativo. «E allora devi spiegarmi perché questo finlandese tenebroso ti sta facendo perdere la testa che neanche Mr. Darcy con Elizabeth».
«Cosa?»
«Citazione letteraria».
(...)
«Quindi fammi capire bene: in una scala dalle tette della qui presente Linda Sloane, alle tette di Emily Logan, quanto cotto sei per questo sconosciuto finnico secco come un merluzzo sottovuoto ma dotato di un culo particolarmente interessante e, sto per citare le tue esatte parole, con capelli così scuri che ricordano i cavalieri notturni di quei tuoi libri pallosi scritti durante il romanticismo, meglio noto come Ville Valo?»
«Tette di Emily Logan quando indossava quella camicetta trasparente verde acqua, te la ricordi?»
«Me la ricordo». Linda gli posò la testa sulla spalla. «Sei fottuto, amico mio».
Genere: Commedia, Erotico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio
Note: Cross-over, Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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DRINK YOU PRETTY

Capitolo 2

 

 

1991

 

Ville si nascose fra le gambe del padre, sotto il bancone del negozio, i crampi alla pancia causati dalle risate che gli scuotevano le viscere. Stava cercando di non emettere nessun rumore, e probabilmente sarebbe presto morto in mancanza d’aria al cervello.

«Grazie e arrivederci», disse suo padre alla donna che, dopo aver pagato la merce, si infilò degli occhiali da sole scuri e uscì dal negozio. Peccato che ad Helsinki il sole, quel giorno, non ci fosse. Quando finalmente la porta le si chiuse alle spalle, Ville allungò le gambe – facendo una sorta di sgambetto al padre, che dovette reggersi per non cadere – e rise con quella sua risata strana, tenendosi la pancia con le mani. «Mi dici, per favore, che cosa diavolo sta succedendo?»

Il ragazzo si asciugò le lacrime. «Quella era la mia professoressa di matematica».

Il padre strabuzzò gli occhi, e dopo un momento scoppiò a ridere anche lui. «Hai capito la professoressa!»

Vi era una cosa certa: Ville non sarebbe più riuscita a guardarla nello stesso modo. Avrebbe pensato ai giochi che aveva appena acquistato nel negozio di suo padre ogni volta che l’avesse guardata negli occhi, lo sapeva. Uno si aspetta di tutto nella vita, ma non che la propria professoressa di matematica faccia costosi acquisti in un sexy shop, quella è una cosa difficile da accettare.

«Pà, io vado a provare», disse prendendo la chitarra dallo stanzino sul retro e dando una pacca sulla spalla di suo padre prima di uscire. Non faceva troppo freddo, era ottobre e la scuola era appena iniziata, ma lui preferiva di gran lunga i pomeriggi passati al negozio con il padre, o le ore nel garage a provare la sua musica. La musica, l’unica cosa che apparentemente sapeva fare bene, che sapeva fare bene a lui. Si abbassò il cappello di lana fina sulle orecchie, e ficcò le mani in tasca. Alzò gli occhi per guardare il cielo e incontrò lo sguardo felino di un gatto dal muso bianco nascosto dietro una finestra. Sorrise e si immaginò il gatto sorridergli di rimando.

Bussò tre volte la porta sul retro della casa di Elias e dopo pochi secondi vide la sua testa spuntare. «Sei in anticipo, amico». Ville si strinse nelle spalle, e spingendolo da parte, superò l’uscio a grandi falcate, andando direttamente a sedersi sul piccolo divano del salone. «Tutto bene?», chiese l’altro, infilandosi un paio di pantaloni e grattandosi la pancia.

Ville lo guardò: i corti capelli biondi gli stavano sparati in testa come se si fosse appena alzato dal letto – cosa molto probabile, pensò –, le occhiaie erano marcate e aveva dei segnacci rossi e viola sulle braccia, le gambe, l’addome. «Al solito, grazie».

Elias gli si sedette affianco, un sorriso idiota sulle labbra. «Non mi chiedi come sto io?»

«Ho perso il conto al quinto succhiotto, immagino tu stia più che bene».

L’altro rise. «Una nottata da sballo».

«Sono le quattro del pomeriggio», precisò Ville, incrociando le braccia dietro la testa.

«Oh, ma essere felice per me mai? Me li scelgo proprio male gli amici, cazzo».

«Sono felice per te», spirò Ville, guardandolo e mettendo su un sorriso che durò appena due secondi.

«Tu non sei mai felice».

«Mhhh».

«Cosa?», chiese Elias esasperato.

«Sono felice quando suono». Pausa. «A tal proposito, quando arrivano gli altri?».

Elias fece spallucce. «Non ne ho idea, magari non vengono nemmeno».

Ville sbuffò. «Sempre la solita storia». Si alzò, raccolse la chitarra mettendosela in spalla, e fece per andarsene, ma la mano sulla spalla dell’amico lo fermò. «Cosa c’è?»

«Proviamo io e te. Facciamo un po’ di canzoni acustiche, così saremo preparati se ci chiederanno si suonare in un pub o da qualche altra parte. Ti va?»

Ville deglutì. Eccome se gli andava. Con lui si sarebbe buttato dentro un fiordo, se solo gli avesse chiesto di farlo. Annuì. «Mi va».

Si posizionarono uno di fronte all’altro, le chitarre sulle gambe per accordarle, e solo quando entrambi furono pronti provarono una vecchia canzone del gruppo, che ormai le dita suonavano automaticamente. Finito il brano Elias fermò le dita sulle corde, cosa che invece Ville non fece. Continuava a produrre musica, una serie di note sconosciute, accompagnate da mormorii che uscivano timidi dalle sue labbra. Non alzò mai lo sguardo dalle corde, e se lo fece tenne gli occhi ben chiusi, come se, nonostante stesse cantando davanti a qualcuno, volesse tenersi le parole per sé. «…my baby, how beautiful you are», sussurrò infine, scandendo bene le parole, in un soffio. Fermò la musica e alzò gli occhi, puntandoli in quelli di Elias, e sorrise.

«Non era finlandese quello, o sbaglio?»

Ville scosse la testa. «Inglese».

«Sembra molto bella».

«Devo ancora lavorarci su», disse Ville.

«Di cosa parla? Non sono riuscito ad afferrare bene le parole, sai che con l’inglese faccio schifo».

«Parla di una persona bella, triste, persa. Una persona che credo di amare».

«Taira?».

Ville alzò gli occhi e gli sorrise. Dopotutto, quella era una domanda lecita, dato che Taira era la sua ragazza. E forse la amava; di sicuro le voleva bene. Le voleva bene quando si avvicinava e appoggiava la guancia alla sua, perché non sapeva come ma era sempre morbida, come la buccia di una pesca. Le voleva bene quando disteso accanto a lei, le mani intrecciate alle sue, sentiva il suo profumo entrargli nelle narici. Le voleva bene quando facevano l’amore, perché lei faceva tutto quello che lui voleva, e lo faceva bene, con dolcezza. Non credeva di amarla poi così tanto. Non l’amava come la persone a cui dedicava le sue canzoni, per esempio.

«No, non è Tiara», rispose quindi. Elias si corrucciò, e Ville scoppiò a ridere. «Non credo sia la mia anima gemella, ho quindici anni e se tutto va bene conoscerò persone di cui mi innamorerò come ora lo sono di Tiara, forse di più. Spero di più».

«Quindi questa persona non esiste o ho capito male?»

Ville annuì. «Esiste eccome, solo che non l’ho ancora conosciuta».

Elias gli sorrise e si grattò la testa. «Okay». Non era mai stato un tipo troppo sveglio, era l’opposto di Ville. Erano come il dì e la notte, la luce e il buio, e forse era proprio per quello che a Ville piaceva così tanto. Gli piaceva più di Tiara, in tutti i sensi possibili. Era un amico, il suo migliore amico, con cui parlava per ore, con cui stava in silenzio per ore e stava meglio, anche se le ferite lo laceravano dentro. A tutto ciò andava aggiunta una tremenda attrazione sessuale, che Ville reprimeva ogni qual volta l’odore di Elias lo colpiva. Quante volte avrebbe voluto baciarlo, morderlo, sbatterlo al muro e scoparselo? Voleva ma non poteva, come al solito. Non lo amava, lo sapeva; non lo amava nello stesso modo in cui non amava Tiara, eppure era così attratto da lui che, se glielo avessero chiesto, in quel momento avrebbe dato la sua vita per salvare quella di Elias. Se qualcuno avesse letto la sua mente, sicuramente, avrebbe trovato il tutto decisamente contraddittorio e confuso, ma Ville era così: pieno di contraddizioni, misterioso, confuso, innamorato dell’amore, affascinato dalla morte. L’amore l’avrebbe portato alla morte, lo sapeva.

«Credo gli altri non verranno», affermò Elias.

Ville annuì. «Già. Usciamo?»

«Ordiniamo qualcosa da mangiare, piuttosto? Ho talmente fame che mi mangerei da solo un orso».

«Va bene, ma paghi tu stavolta. Sono stanco di offrirti sempre vagonate di cibo. Sei una pattumiera», ridacchiò Ville. «A quarant’anni avrai una pancia che non finirà più, già ti ci vedo».

Elias gli diede un pugno sul braccio, cercando di nascondere un sorriso. «Tu invece sarai talmente secco che un palo della luce sarebbe grasso, in confronto».

«Come adesso, insomma. Il mio fascino sta tutto nelle mie ossa», disse alzandosi la maglietta e toccandosi le costole con un dito, ridendo.

«Hai delle belle ossa, ecco cosa ti diranno le ragazze mentre te le scoperai».

«E tu, pensi che io abbia delle belle ossa?», chiese. Che cosa diavolo stai facendo, imbecille?

Elias gli si avvicinò e gli alzò la maglia, un sorriso sulle labbra. Posò una mano sul suo ventre e poi salì, fino ad incontrare le costole, e poi scese, fino alle ossa del bacino, infine alzò lo sguardo sul viso di Ville che, se possibile, era diventato ancora più pallido: le viscere gli ribollivano dentro, come se un secchio d’acqua caldo fosse stato buttato loro addosso, e le avesse distrutte. «Sono spigolose».  

«Non mi sembra esattamente un complimento», disse Ville dopo aver deglutito.

«Eddai», disse l’amico allontanandosi da lui, «non sono io quello che deve giudicare quanto tu sia bello. Non sarò io quello che ti scoperà, ricordi? Fino a prova contraria ho ancora un pene».

«Certo», rispose Ville cercando di mascherare la sua delusione. «Ovviamente hai ancora un pene, altrimenti non ti saresti divertito tutta la notte, dico bene?».

«Dici bene», rispose Elias con un sorriso sornione, gli occhi chiusi. «Come mi sono divertito». Ville sospirò, si alzò dal divano e infilò la chitarra nella custodia. «Dove stai andando?», chiese l’amico una volta aver aperto gli occhi.

«Ho un impegno».

«Non dovevamo mangiare insieme?»

«Ho detto che ho un impegno, me ne ero dimenticato».

Elias si strinse nelle spalle. «Come vuoi, amico. Ci vediamo domani? Per provare, intendo».

Ville fece solo un cenno del capo, e se ne andò, la parola amico che continuava a sbattergli sulle pareti del cervello. In quell’istante avrebbe voluto amare Tiara così tanto da considerarla la Felicità con la effe maiuscola. E invece lei era, purtroppo, solo un passatempo, un divertimento che non lo divertiva neppure più.

Aveva quindici anni e si sentiva infelice come un uomo di quaranta che ha appena divorziato dalla moglie che ama ancora e che per di più non gli lascerà vedere i propri figli. Faceva proprio tutto schifo.

 

 

Sei anni dopo

 

La neve cadeva, appoggiandosi leggera sui capelli scuri di Ville. Camminava per le strade di New York con il cappotto aperto, abituato alle temperature ghiacciali della sua Finlandia. Il freddo era casa, il suo habitat naturale. E come un fiocco di neve, Ville entrava nella vita delle persone silenziosamente, pacatamente, e poi la sua presenza cominciava ad essere più prepotente, ingombrante, necessaria.

Infilò le chiavi nella toppa e aprì la porta del suo squallido appartamento situato in un angolino buio e dimenticato della città, se la chiuse dietro le spalle e un forte odore di formaggio gli entrò nelle narici. Gli venne un conato di vomito, che represse andando ad aprire la finestra più vicina: era aria inquinata quella che inspirò, ma sempre meglio di quel fetore infernale.

«Sei tu, Ville?», chiede Tiara sporgendosi dalla porta della cucina con una sorriso sulle labbra.

Ville alzò una mano in segno di saluto, si tolse il cappotto buttandolo sul letto, si lavò viso e mani con dell’acqua calda ed infine si sedette a tavola. «Io il formaggio non lo mangio».

«Lo sto cucinando per me. Ti ho fatto le polpette di carne, quelle che ti piacciono».

«Grazie».

«Non c’è di che», disse lei baciandogli la testa. «Com’è andata la mattinata con i ragazzi, avete inciso qualcosa?»

Ville scosse la testa. «A quanto pare non eravamo ispirati, oggi. Non abbiamo combinato molto». La verità era che quella mattina, lui e i suoi colleghi, se così poteva chiamarli, non si erano visti, nemmeno per sbaglio. Aveva passato la mattina in una caffetteria, una bibita fin troppo bollente fra le mani, ad aspettare una persona che non si era presentata.

«Recupererete domani», lo rassicurò dolce Tiara. Dubito, pensò Ville, non si è ancora fatto sentire, non una chiamata per scusarsi, per fissare un nuovo appuntamento, niente.

Finito il pranzo disgustoso che sua moglie gli aveva preparato con tanto amore, averla vista uscire dalla porta carica di borse da portare in lavanderia dopo averle dato un bacio sulle labbra, prese il telefono dalla tasca dei pantaloni.

Mandare o non mandare? Mandare. «Grazie per avermi dato buca, ora ho la conferma che sei davvero una bella persona. Grazie anche delle scuse mandate per posta aerea, le ho davvero apprezzate. Il the alla menta che avresti sicuramente ordinato è già pagato dal sottoscritto, quindi se ti capita di passare di là, ti consiglio di andare a ritirarlo». Dopo aver premuto il tasto inviò si sentì talmente stupido da aver voglia di rotolare giù dalle scale antincendio nudo. Alcuni minuti dopo, comunque, il suo cellulare cominciò ad emettere un suono irritante. Lo aprì e lesse il messaggio. «Impegno improvviso. Volevo chiamarti ma avevo perso il tuo numero. C’è un modo in cui posso farmi perdonare?»

Qualche modo, a Ville, venne sicuramente in mente, ma dopo essersi morso la lingua rispose semplicemente «99 Palmetto St».

«Sto arrivando». Ville sorrise.






Breve ed inutile, I know. La mia ispirazione si è suicidata, l'hanno scritto sulla pagina dei defunti di "Dispezione Times", qualche mese fa.
Chiedo il vostro perdono come sempre. Deb.
  
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