DRINK
YOU PRETTY
Capitolo 2
1991
Ville si
nascose fra le gambe del
padre, sotto il bancone del negozio, i crampi alla pancia causati dalle
risate
che gli scuotevano le viscere. Stava cercando di non emettere nessun
rumore, e
probabilmente sarebbe presto morto in mancanza d’aria al
cervello.
«Grazie
e arrivederci», disse suo
padre alla donna che, dopo aver pagato la merce, si infilò
degli occhiali da
sole scuri e uscì dal negozio. Peccato che ad Helsinki il
sole, quel giorno,
non ci fosse. Quando finalmente la porta le si chiuse alle spalle,
Ville
allungò le gambe – facendo una sorta di sgambetto
al padre, che dovette
reggersi per non cadere – e rise con quella sua risata
strana, tenendosi la
pancia con le mani. «Mi dici, per favore, che cosa diavolo
sta succedendo?»
Il ragazzo
si asciugò le lacrime.
«Quella era la mia professoressa di matematica».
Il padre
strabuzzò gli occhi, e
dopo un momento scoppiò a ridere anche lui. «Hai
capito la professoressa!»
Vi era una
cosa certa: Ville non
sarebbe più riuscita a guardarla nello stesso modo. Avrebbe
pensato ai giochi che aveva appena
acquistato nel
negozio di suo padre ogni volta che l’avesse guardata negli
occhi, lo sapeva. Uno
si aspetta di tutto nella vita, ma non che la propria professoressa di
matematica faccia costosi acquisti in un sexy shop, quella è
una cosa difficile
da accettare.
«Pà,
io vado a provare», disse
prendendo la chitarra dallo stanzino sul retro e dando una pacca sulla
spalla
di suo padre prima di uscire. Non faceva troppo freddo, era ottobre e
la scuola
era appena iniziata, ma lui preferiva di gran lunga i pomeriggi passati
al
negozio con il padre, o le ore nel garage a provare la sua musica. La
musica,
l’unica cosa che apparentemente sapeva fare bene, che sapeva
fare bene a lui. Si
abbassò il cappello di lana fina sulle orecchie, e
ficcò le mani in tasca. Alzò
gli occhi per guardare il cielo e incontrò lo sguardo felino
di un gatto dal
muso bianco nascosto dietro una finestra. Sorrise e si
immaginò il gatto
sorridergli di rimando.
Bussò
tre volte la porta sul
retro della casa di Elias e dopo pochi secondi vide la sua testa
spuntare. «Sei
in anticipo, amico». Ville si strinse nelle spalle, e
spingendolo da parte,
superò l’uscio a grandi falcate, andando
direttamente a sedersi sul piccolo
divano del salone. «Tutto bene?», chiese
l’altro, infilandosi un paio di
pantaloni e grattandosi la pancia.
Ville lo
guardò: i corti capelli
biondi gli stavano sparati in testa come se si fosse appena alzato dal
letto –
cosa molto probabile, pensò –, le occhiaie erano
marcate e aveva dei segnacci
rossi e viola sulle braccia, le gambe, l’addome.
«Al solito, grazie».
Elias gli si
sedette affianco, un
sorriso idiota sulle labbra. «Non mi chiedi come sto
io?»
«Ho
perso il conto al quinto
succhiotto, immagino tu stia più che bene».
L’altro
rise. «Una nottata da
sballo».
«Sono
le quattro del pomeriggio»,
precisò Ville, incrociando le braccia dietro la testa.
«Oh,
ma essere felice per me mai?
Me li scelgo proprio male gli amici, cazzo».
«Sono
felice per te», spirò
Ville, guardandolo e mettendo su un sorriso che durò appena
due secondi.
«Tu
non sei mai felice».
«Mhhh».
«Cosa?»,
chiese Elias esasperato.
«Sono
felice quando suono».
Pausa. «A tal proposito, quando arrivano gli
altri?».
Elias fece
spallucce. «Non ne ho
idea, magari non vengono nemmeno».
Ville
sbuffò. «Sempre la solita
storia». Si alzò, raccolse la chitarra
mettendosela in spalla, e fece per
andarsene, ma la mano sulla spalla dell’amico lo
fermò. «Cosa c’è?»
«Proviamo
io e te. Facciamo un
po’ di canzoni acustiche, così saremo preparati se
ci chiederanno si suonare in
un pub o da qualche altra parte. Ti va?»
Ville
deglutì. Eccome se gli
andava. Con lui si sarebbe buttato dentro un fiordo, se solo gli avesse
chiesto
di farlo. Annuì. «Mi va».
Si
posizionarono uno di fronte
all’altro, le chitarre sulle gambe per accordarle, e solo
quando entrambi
furono pronti provarono una vecchia canzone del gruppo, che ormai le
dita
suonavano automaticamente. Finito il brano Elias fermò le
dita sulle corde,
cosa che invece Ville non fece. Continuava a produrre musica, una serie
di note
sconosciute, accompagnate da mormorii che uscivano timidi dalle sue
labbra. Non
alzò mai lo sguardo dalle corde, e se lo fece tenne gli
occhi ben chiusi, come
se, nonostante stesse cantando davanti a qualcuno, volesse tenersi le
parole
per sé. «…my baby, how beautiful you
are», sussurrò infine, scandendo bene le
parole, in un soffio. Fermò la musica e alzò gli
occhi, puntandoli in quelli di
Elias, e sorrise.
«Non
era finlandese quello, o
sbaglio?»
Ville scosse
la testa. «Inglese».
«Sembra
molto bella».
«Devo
ancora lavorarci su», disse
Ville.
«Di
cosa parla? Non sono riuscito
ad afferrare bene le parole, sai che con l’inglese faccio
schifo».
«Parla
di una persona bella,
triste, persa. Una persona che credo di amare».
«Taira?».
Ville
alzò gli occhi e gli
sorrise. Dopotutto, quella era una domanda lecita, dato che Taira era
la sua
ragazza. E forse la amava; di sicuro le voleva bene. Le voleva bene
quando si
avvicinava e appoggiava la guancia alla sua, perché non
sapeva come ma era
sempre morbida, come la buccia di una pesca. Le voleva bene quando
disteso
accanto a lei, le mani intrecciate alle sue, sentiva il suo profumo
entrargli
nelle narici. Le voleva bene quando facevano l’amore,
perché lei faceva tutto
quello che lui voleva, e lo faceva bene, con dolcezza. Non credeva di
amarla
poi così tanto. Non l’amava come la persone a cui
dedicava le sue canzoni, per
esempio.
«No,
non è Tiara», rispose quindi.
Elias si corrucciò, e Ville scoppiò a ridere.
«Non credo sia la mia anima
gemella, ho quindici anni e se tutto va bene conoscerò
persone di cui mi
innamorerò come ora lo sono di Tiara, forse di
più. Spero di più».
«Quindi
questa persona non esiste
o ho capito male?»
Ville
annuì. «Esiste eccome, solo
che non l’ho ancora conosciuta».
Elias gli
sorrise e si grattò la
testa. «Okay». Non era mai stato un tipo troppo
sveglio, era l’opposto di
Ville. Erano come il dì e la notte, la luce e il buio, e
forse era proprio per
quello che a Ville piaceva così tanto. Gli piaceva
più di Tiara, in tutti i
sensi possibili. Era un amico, il suo migliore amico, con cui parlava
per ore,
con cui stava in silenzio per ore e stava meglio, anche se le ferite lo
laceravano dentro. A tutto ciò andava aggiunta una tremenda
attrazione
sessuale, che Ville reprimeva ogni qual volta l’odore di
Elias lo colpiva.
Quante volte avrebbe voluto baciarlo, morderlo, sbatterlo al muro e
scoparselo?
Voleva ma non poteva, come al solito. Non lo amava, lo sapeva; non lo
amava
nello stesso modo in cui non amava Tiara, eppure era così
attratto da lui che,
se glielo avessero chiesto, in quel momento avrebbe dato la sua vita
per
salvare quella di Elias. Se qualcuno avesse letto la sua mente,
sicuramente,
avrebbe trovato il tutto decisamente contraddittorio e confuso, ma
Ville era
così: pieno di contraddizioni, misterioso, confuso,
innamorato dell’amore,
affascinato dalla morte. L’amore l’avrebbe portato
alla morte, lo sapeva.
«Credo
gli altri non verranno»,
affermò Elias.
Ville
annuì. «Già. Usciamo?»
«Ordiniamo
qualcosa da mangiare,
piuttosto? Ho talmente fame che mi mangerei da solo un orso».
«Va
bene, ma paghi tu stavolta.
Sono stanco di offrirti sempre vagonate di cibo. Sei una
pattumiera», ridacchiò
Ville. «A quarant’anni avrai una pancia che non
finirà più, già ti ci vedo».
Elias gli
diede un pugno sul
braccio, cercando di nascondere un sorriso. «Tu invece sarai
talmente secco che
un palo della luce sarebbe grasso, in confronto».
«Come
adesso, insomma. Il mio
fascino sta tutto nelle mie ossa», disse alzandosi la
maglietta e toccandosi le
costole con un dito, ridendo.
«Hai
delle belle ossa, ecco cosa
ti diranno le ragazze mentre te le scoperai».
«E
tu, pensi che io abbia delle
belle ossa?», chiese. Che cosa
diavolo
stai facendo, imbecille?
Elias gli si
avvicinò e gli alzò
la maglia, un sorriso sulle labbra. Posò una mano sul suo
ventre e poi salì,
fino ad incontrare le costole, e poi scese, fino alle ossa del bacino,
infine
alzò lo sguardo sul viso di Ville che, se possibile, era
diventato ancora più
pallido: le viscere gli ribollivano dentro, come se un secchio
d’acqua caldo
fosse stato buttato loro addosso, e le avesse distrutte.
«Sono spigolose».
«Non
mi sembra esattamente un
complimento», disse Ville dopo aver deglutito.
«Eddai»,
disse l’amico
allontanandosi da lui, «non sono io quello che deve giudicare
quanto tu sia
bello. Non sarò io quello che ti scoperà,
ricordi? Fino a prova contraria ho
ancora un pene».
«Certo»,
rispose Ville cercando
di mascherare la sua delusione. «Ovviamente hai ancora un
pene, altrimenti non
ti saresti divertito tutta la notte, dico bene?».
«Dici
bene», rispose Elias con un
sorriso sornione, gli occhi chiusi. «Come mi sono
divertito». Ville sospirò, si
alzò dal divano e infilò la chitarra nella
custodia. «Dove stai andando?»,
chiese l’amico una volta aver aperto gli occhi.
«Ho
un impegno».
«Non
dovevamo mangiare insieme?»
«Ho
detto che ho un impegno, me
ne ero dimenticato».
Elias si
strinse nelle spalle.
«Come vuoi, amico. Ci vediamo domani? Per provare,
intendo».
Ville fece
solo un cenno del
capo, e se ne andò, la parola amico
che continuava a sbattergli sulle pareti del cervello. In
quell’istante avrebbe
voluto amare Tiara così tanto da considerarla la
Felicità con la effe
maiuscola. E invece lei era, purtroppo, solo un passatempo, un
divertimento che
non lo divertiva neppure più.
Aveva
quindici anni e si sentiva
infelice come un uomo di quaranta che ha appena divorziato dalla moglie
che ama
ancora e che per di più non gli lascerà vedere i
propri figli. Faceva proprio
tutto schifo.
Sei
anni dopo
La neve
cadeva, appoggiandosi
leggera sui capelli scuri di Ville. Camminava per le strade di New York
con il
cappotto aperto, abituato alle temperature ghiacciali della sua
Finlandia. Il
freddo era casa, il suo habitat naturale. E come un fiocco di neve,
Ville
entrava nella vita delle persone silenziosamente, pacatamente, e poi la
sua
presenza cominciava ad essere più prepotente, ingombrante,
necessaria.
Infilò
le chiavi nella toppa e
aprì la porta del suo squallido appartamento situato in un
angolino buio e
dimenticato della città, se la chiuse dietro le spalle e un
forte odore di
formaggio gli entrò nelle narici. Gli venne un conato di
vomito, che represse
andando ad aprire la finestra più vicina: era aria inquinata
quella che
inspirò, ma sempre meglio di quel fetore infernale.
«Sei
tu, Ville?», chiede Tiara sporgendosi
dalla porta della cucina con una sorriso sulle labbra.
Ville
alzò una mano in segno di
saluto, si tolse il cappotto buttandolo sul letto, si lavò
viso e mani con dell’acqua
calda ed infine si sedette a tavola. «Io il formaggio non lo
mangio».
«Lo
sto cucinando per me. Ti ho
fatto le polpette di carne, quelle che ti piacciono».
«Grazie».
«Non
c’è di che», disse lei
baciandogli la testa. «Com’è andata la
mattinata con i ragazzi, avete inciso
qualcosa?»
Ville scosse
la testa. «A quanto
pare non eravamo ispirati, oggi. Non abbiamo combinato
molto». La verità era
che quella mattina, lui e i suoi colleghi, se così poteva
chiamarli, non si
erano visti, nemmeno per sbaglio. Aveva passato la mattina in una
caffetteria,
una bibita fin troppo bollente fra le mani, ad aspettare una persona
che non si
era presentata.
«Recupererete
domani», lo
rassicurò dolce Tiara. Dubito,
pensò
Ville, non si è ancora fatto
sentire, non
una chiamata per scusarsi, per fissare un nuovo appuntamento, niente.
Finito il
pranzo disgustoso che
sua moglie gli aveva preparato con tanto amore, averla vista uscire
dalla porta
carica di borse da portare in lavanderia dopo averle dato un bacio
sulle
labbra, prese il telefono dalla tasca dei pantaloni.
Mandare o
non mandare? Mandare. «Grazie per
avermi dato buca, ora ho la
conferma che sei davvero una bella persona. Grazie anche delle scuse
mandate per
posta aerea, le ho davvero apprezzate. Il the alla menta che avresti
sicuramente ordinato è già pagato dal
sottoscritto, quindi se ti capita di
passare di là, ti consiglio di andare a ritirarlo».
Dopo aver premuto il
tasto inviò si sentì talmente stupido da aver
voglia di rotolare giù dalle
scale antincendio nudo. Alcuni minuti dopo, comunque, il suo cellulare
cominciò
ad emettere un suono irritante. Lo aprì e lesse il
messaggio. «Impegno improvviso.
Volevo chiamarti ma
avevo perso il tuo numero. C’è un modo in cui
posso farmi perdonare?»
Qualche
modo, a Ville, venne
sicuramente in mente, ma dopo essersi morso la lingua rispose
semplicemente «99 Palmetto
St».
«Sto
arrivando». Ville
sorrise.
Breve ed inutile, I know. La mia ispirazione si è suicidata, l'hanno scritto sulla pagina dei defunti di "Dispezione Times", qualche mese fa.
Chiedo il vostro perdono come sempre. Deb.