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Autore: Alley    21/10/2014    1 recensioni
“Fa male” dice – ripete, come se dare forma a quel pensiero possa aiutarlo a decifrare la situazione. Non è così, non lo è affatto.
“Sarà meglio che ti ci abitui. Essere umani vuol dire questo.”

[pre-slash] [nona stagione] [contiene riferimenti a "I think I'm gonna like it here"]
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Dean non ha ancora detto una parola.

Quando l’Impala si è fermata lungo la strada che Castiel stava percorrendo – stremato, frastornato, ferito – è rimasto in silenzio ad aspettare che salisse, poi è ripartito senza nemmeno degnarlo di uno sguardo.

Castiel lo imita; da offrirgli ha soltanto scuse che non ha il coraggio di pronunciare. Gli ha già chiesto perdono una volta – mi dispiace, Dean – e rifarlo adesso, dopo averlo deluso – tradito – di nuovo, sarebbe scavare nella ferita che lui stesso gli ha inferto.

Se c’è una cosa che ha capito da quando è arrivato sulla Terra è che le parole contano poco – nulla, se non sono avvalorate dai fatti.

Il viaggio è scandito dal silenzio, un silenzio diverso da quello che sono soliti condividere – è un silenzio bello, quello, bello e rassicurante, in cui non riecheggiano accuse e risentimento. Castiel guarda fuori dal finestrino, ancora gli occhi al paesaggio che scorre oltre il vetro come se in quel modo potesse eludere il resto. C’è un momento in cui Dean volta appena il capo, in maniera impercettibile, e l’occhiata che lancia alla sua mano insanguinata è così rapida che Castiel crede d’averla soltanto immaginata. Poi torna a fissare l’asfalto, impassibile, e Castiel è certo che lo stia odiando ancora di più, adesso, perché non è solo un bugiardo ma un bugiardo inutile, senz’ali e senza valore, e non sa cosa possa farsene Dean di uno così. Se si fermasse e gli ordinasse di scendere, lasciandolo lì in mezzo al nulla, non lo biasimerebbe.

Quando arrivano al bunker nessuno dei due ha ancora rotto lo stallo, ma Dean non l’ha abbandonato: Castiel gliene è immensamente grato.

Entrano e Dean sparisce subito, lasciandolo tra scartoffie e cianfrusaglie e pensieri che gli scoppiano in testa come esplosioni. Il taglio sul palmo continua a sanguinare e brucia, brucia da morire, e malgrado Castiel abbia problemi ben più grandi a cui pensare – uno stuolo di angeli caduti che vuole la sua testa, per esempio – è quello ad allarmarlo maggiormente, perché gli ricorda che quei problemi dovrà affrontarli privo dei suoi poteri, e se è riuscito a fallire così miseramente quando ne era provvisto non osa immaginare cosa potrebbe accadere adesso che li ha persi.

Il bruciore gli ricorda anche tutti gli errori che ha commesso, ma l’ostinazione con cui Dean continua a tacere e ad evitarlo sono un promemoria sufficiente, a questo proposito.

Castiel si accascia su una sedia, perché non sa che altro fare e perché è stanco, così stanco che potrebbe crollare sul pavimento da un momento all’altro. È così stanco che quando Dean appare sulla soglia con una scatola di metallo tra le mani e avanza per prender posto davanti a lui non trova nemmeno la forza di chiedergli cosa abbia intenzione di fare. Non gli importa nemmeno, in realtà.

Dean poggia la scatola sul tavolo, solleva il coperchio e tira fuori delle sottili strisce di stoffa. In silenzio. Gli afferra la mano ferita, in un gesto brusco e privo di gentilezza, e sotto il suo tocco il taglio brucia ancora di più. Castiel ingoia il gemito che gli sale alle labbra e non si lamenta – non ne ha il diritto, e se quello è l’unico modo che ha Dean per smettere di ignorarlo allora va bene, va bene.

Comincia a fasciargli il palmo, sempre in silenzio e senza delicatezza, ma quando adagia la garza sulla ferita che ancora stilla sangue lo fa in modo diverso, lo fa piano, con una premura che gli fa stringere il cuore nel petto. Non se lo merita, quello. Non si merita nulla.

“Quindi ora sei umano.”

Lo dice all’improvviso, continuando ad armeggiare con le bende. Non è una domanda, eppure Castiel sente di dover dare una risposta – a se stesso più che a Dean.

Non è sicuro di sapere cosa significhi esattamente essere umano; non è sicuro di conoscerne tutte le implicazioni. Sa di non essere più un angelo – forse ha smesso di esserlo molto prima di perdere la grazia -, ma gli occorrerà del tempo per capire chi o cosa sia diventato.

La fitta di dolore che gli attraversa la mano quando Dean stringe la garza pare quasi essere un suggerimento.

“Fa male” dice – ripete, come se dare forma a quel pensiero possa aiutarlo a decifrare la situazione. Non è così, non lo è affatto.

“Sarà meglio che ti ci abitui. Essere umani vuol dire questo” risponde Dean, secco e freddo e così terribilmente disincantato, e Castiel vede – sente - tutta la rabbia e il dolore che si nascondono dietro quelle parole. Vorrebbe ritrarre la mano e andarsene, perché sa di esserne in parte responsabile.

“C’è un modo?”

“Per evitare questa merda?” chiede Dean, una nota amara a incrinargli la voce “Se c’è non l’ho ancora trovato.”

“Per riacquistare la tua fiducia.”

Le dita di Dean esitano, si bloccano sulla pelle ricoperta dalle garze. Per un momento Castiel ha l’impulso di chiudere la mano per stringerle – ed è un impulso così nuovo, così umano - ma sente che sarebbe sbagliato, che non ha il permesso di farlo, così resta immobile e aspetta. Non sa nemmeno lui che cosa.

Dean stringe un ultimo nodo, completando la fasciatura, e si alza. In silenzio. Richiude la scatola e gli volta le spalle. La ferita non brucia più.

“Vado a comprare qualcosa. Adesso siamo in due a dover mangiare.”

Per adesso va bene così. 






 
  
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