Premessa. La (maxi xD)one-shot è suddivisa in 6 momenti: i primi due sono
ambientati durante l’infanzia di Finnick.
Il terzo durante i saluti post-mietitura, quando viene
estratto per i primi Hunger Games. Il quarto è
ambientato durante Mockingjay: Boggs
è appena morto.
Le
ultime due scene sono ambientate dopo la morte di Finnick.
Consiglio
di pigiare qui prima
della lettura, perché questa canzone ha largamente ispirato questo racconto!
Questa storia partecipa al contest "La vuoi una zolletta di zucchero? Finnick Odair's
contest" indetto da ticci.EFP sul forum di
EFP.
Footprints in the
Sand La sabbia
della baia situata vicino al faro era bianca e finissima; come ogni mattina, la
sua superficie era intarsiata d’impronte. Impronte
paffute, frettolose, ravvicinate. Impronte di bambini piccoli che giocavano a
rincorrersi in riva al mare. C’erano anche le orme di due adulti, un uomo e una
donna: il loro percorso proseguiva verso il porto, ma si interrompeva a metà
baia prima di riprendere, accompagnato dalle stesse tracce paffute che poco
prima inseguivano le orme di qualche ragazzino. Erano le
impronte di una famiglia unita, quelle che ricamavano la spiaggia l’una di
fianco all’altra. Le impronte
di un’infanzia felice. “Finnick!” Vivianne Odair sventolò la mano per richiamare l’attenzione dei
bambini che scorrazzavano lungo la riva. Suo figlio era uno dei più piccoli e
in quel momento stava inseguendo un altro ragazzino, la solita espressione
vispa a illuminargli il viso. Ogni volta che riusciva a toccare la spalla di un
coetaneo sorrideva soddisfatto e gonfiava il petto, appoggiandosi le mani sui
fianchi. “Finn!” lo richiamò ancora Vivianne, incrociando lo sguardo divertito di suo marito Gannet. L’uomo tornò poi a osservare il figlioletto, scuotendo la
testa con espressione rassegnata: chiedere a Finnick di rinunciare a giocare con
i suoi amici equivaleva a pretendere che un pesce smettesse di nuotare. Sua
moglie, tuttavia, non desistette. “Finnick Gannet Odair!” esclamò, con tutta l’autorità che riuscì a inserire
nel suo timbro solitamente dolce. Il grido sortì l’effetto desiderato: Finnick rivolse un
sorriso malandrino alla madre e disse qualcosa ai compagni di gioco, prima di
correre verso i genitori. “Ma dopo torni, vero, capitano?” gli urlò dietro uno dei
ragazzini più piccoli, aggrottando impensierito le sopracciglia. Finnick alzò
il pollice nella sua direzione e si voltò verso il padre, portandosi di nuovo
le mani sui fianchi. “Stai già partendo, papà?” domandò, lasciando ben
visibile la finestrella che aveva al posto di uno degli incisivi superiori. La madre gli passò una mano fra i capelli, notando con
apprensione quanto fosse sudato. “Il mare non aspetta, capitano!” rispose Gannet, facendo l’occhiolino al figlio. “E i marinai come
tuo padre devono sempre rispondere al suo grido!” Finnick gli sorrise, prima di gonfiare il petto e
rivolgergli un saluto militare. “Come mai sei senza maglietta?” chiese a quel punto Vivianne, solleticandogli un fianco. “Finn,
hai avuto la febbre solo due giorni fa!” Il bambino fece spallucce e strinse una mano di
ogni genitore. “Non mi piace giocare con i vestiti, poi mi viene caldo!”
spiegò, indirizzando alla donna il suo sorriso sdentato. La madre scosse la testa con espressione rassegnata,
mentre il ragazzino tirava con forza, guidandoli verso il porto. Una volta arrivati, Finnick corse fino alla barca a vela
del padre e si accovacciò sul molo, attendendo con pazienza che i genitori lo
raggiungessero. “Torni presto, questa volta?” chiese, quando Gannet si arrampicò a bordo dell’imbarcazione. “Prestissimo” promise l’uomo, chinandosi verso terra per
prendere in braccio il figlio. “Oh capitano, mio capitano!” recitò poi,
mettendogli in testa il suo berretto da marinaio. Finnick si mise a ridere,
cercando di sistemarselo meglio sui capelli. “Il nostro viaggio tremendo è terminato!” esclamò,
snocciolando a memoria i primi versi della sua poesia preferita. Gliel’aveva
insegnata il padre e il giorno prima il bambino ne aveva recitata una strofa in
classe, aiutato dai costanti suggerimenti della maestra. “La nave ha superato
ogni ostacolo, l'ambito premio è conquistato[1]” proseguì, con orgoglio. Gannet e Vivianne si misero a ridere. L’uomo l’aiutò a sistemarsi il
cappello in maniera che gli occhi restassero scoperti, prima di dargli un bacio
sulla fronte. “Vai a combattere i pirati?” chiese poi il ragazzino,
sorridendo al padre con fare da birbante. “Tutti tutti?” “Tutti tutti!” confermò l’uomo. “Come Capitan Sebastian”
aggiunse, menzionando la favola preferita di suo figlio. Raccontava le imprese
di un capitano eroico ed era stato lui a inventarla, quando il bimbo era ancora
molto piccolo. “Un giorno mi porti con te?” domandò Finnick, appoggiando
le mani sulle guance del padre. “Quando sarai più grande, capitano” promise Gannet, facendogli di nuovo l’occhiolino. “Grande tipo così?” chiese Finnick, sollevando la mano
sopra il cappello. Il padre sorrise sotto i baffi e gli afferrò le dita, alzandole
poi di una trentina di centimetri. “Più così, direi.” Il bambino mise il broncio. “Ma è troppo!” si lamentò, mettendosi le mani sui
fianchi. “Io non diventerò mai grande. I grandi sono stupidi!” “Finn!” lo rimbeccò la madre,
trattenendo a stento una risata. “Si dicono certe cose?” Il bimbo si strinse nelle spalle, abbozzando un
sorrisetto malandrino; Gannet scosse la testa con
aria divertita, prima di fargli il solletico sotto le ascelle. “Sei proprio un Peter Pan, eh?” osservò poi. Il ragazzino aggrottò le sopracciglia. “Chi è Peter Pan?” “Te lo racconto quando torno” promise l’uomo, baciandogli
un’altra volta la fronte, prima di metterlo a terra. “Ti basti sapere che era
un piccolo furfantello come te”. Finnick sorrise fiero, mettendo in mostra la finestrella
fra i denti. Rimase alla banchina con la madre fino a quando
l’imbarcazione non partì, prendendo poi il largo. Gannet salutò a
lungo la moglie e il figlio, sorridendo della vivacità con cui il bambino si
sbracciava per ricambiare, con il volto semi-nascosto dal suo berretto. Quando la barca non fu più visibile dal porto, Vivianne prese il figlio per mano e i due tornarono alla
baia per fare una passeggiata. “Mamma?” esclamò vivacemente Finnick, saltellando su un
piede solo. “Posso raccontarti la storia di Capitan Sebastian?” La donna annuì, abbozzando un sorriso rassegnato.
Conosceva quella favola a menadito, ma suo figlio sembrava trarne conforto, le
volte in cui era costretto a salutare il padre; glielo faceva sentire più
vicino. Finnick prese fiato e lasciò andare la madre, per
mettersi entrambe le mani sui fianchi. “Allora… C’era una volta un capitano di nome Sebastian…”
incominciò, saltellando avanti e indietro lungo la spiaggia. Le sue impronte paffute si disegnarono sulla sabbia,
seguite da quelle della madre. Le impronte continuarono a intarsiare la sabbia,
raccontando la loro storia: erano un bambino e una persona adulta che si
tenevano per mano. Una vecchia favola risuonava per la baia, mescolandosi al
sussurro del vento. In lontananza, appena visibile, si stagliava l’albero di
una barca a vela. Le onde si infrangevano sugli scogli. * Le impronte lasciate
sulla sabbia quella sera erano sempre paffute, ma sparse e più profonde, come
se qualcuno avesse pestato i piedi con forza. Erano le
impronte di un bambino arrabbiato, che litigava con il mare. Un ragazzino che
giocava con le onde, senza tuttavia sorridere. C’erano
anche delle orme più grandi, un po’ in disparte: il loro disegno intarsiava
lentamente la sabbia, in maniera placida e silenziosa. Erano
impronte stanche, di una donna ormai anziana. Le sue e
quelle del bambino erano le orme di due persone costrette a crescere troppo in
fretta. Finnick sbatté i piedi nell’acqua, dando un calcio al
fondale sabbioso. “Oh Capitano! Mio Capitano!” esclamò, senza la traccia di
orgoglio che di solito segnava il suo volto, quando recitava quella poesia. “Il
nostro viaggio tremendo è terminato, la nave ha superato ogni ostacolo, l'ambito
premio è conquistato. Vicino è il porto, odo le campane, tutto il popolo es…” Si bloccò, non riuscendo a ricordare la parola
successiva. Mise il broncio e diede un altro calcio alle onde. Erano giorni che
cercava di ripetere quella strofa tutta d’un fiato, ma si fermava sempre a quel
punto. Era molto arrabbiato, per quella sua difficoltà: si era convinto che, se
solo fosse riuscito a recitare tutta la prima strofa per intero, senza mai
interrompersi, suo padre sarebbe finalmente tornato. L’avrebbe sentito – il
vento avrebbe spinto la voce di Finnick fin da lui - e si sarebbe precipitato a
casa. Come aveva fatto Capitan Sebastian quella volta che era stato sorpreso da
una tempesta. La sua nave era stata fatta a pezzi dalla tormenta, ma lui era
riuscito a resistere, aggrappandosi a un asse di legno. Aveva quasi deciso di cedere alle onde,
travolto dalla stanchezza, ma poi il vento aveva portato fino a lui il suono di
una vecchia ninna nanna: quella che sua moglie cantava ogni notte al
figlioletto ancora in culla. La melodia aveva convinto il capitano a non
arrendersi e, grazie all’astuzia e al suo coraggio, era riuscito a tornare a
casa dalla famiglia. Finnick sperava che sarebbe successa la stessa cosa anche
a suo padre. Era trascorso più di un mese da quando la sua barca a vela era
partita, ma il bambino era sicuro che prima o poi avrebbe fatto ritorno. Non poteva essere altrimenti, perché aveva
lasciato al figlio il suo cappello. E Gannet Odair non si separava mai da quel berretto. Si schermò gli occhi con la mano e controllò l’orizzonte,
per assicurarsi che non ci fosse qualche barca a vela in arrivo ma, con
delusione, si accorse che il mare era vuoto e desolato. Ricominciò a recitare la poesia del capitano, ma si fermò
al solito verso, non riuscendo a proseguire. “Vicino è il porto, odo le campane, tutto il popolo es… es…”
mormorò, strizzando forte gli occhi mentre cercava di ricordare il resto. Il
suo sguardo si ravvivò tutto a un tratto. “Esulta!” esclamò, sorridendo trionfante. “Occhi seguono
l'invitto scafo, la nave arcigna e… e…” Si bloccò di nuovo, smettendo di prendere a calci le
onde; quell’ultima parte non se la ricordava proprio. Si lasciò cadere sul fondale, bagnandosi completamente i
jeans. Le lacrime incominciarono a scivolare dispettose oltre le sue palpebre,
mentre il bambino nascondeva il volto dietro le ginocchia. “Non è giusto…” mormorò, tirando su col naso. “…Non è
giusto, non è giusto, non è giusto!” “Ragazzo…” una voce soffice, dal timbro dolce, attirò
l’attenzione del ragazzino. Una mano gli accarezzò con tenerezza i capelli e,
quando Finnick si voltò, notò una signora anziana accovacciata nell’acqua di
fianco a lui: non si era nemmeno accorto del suo arrivo. “…Perché piangi?”[2] Finnick tirò nuovamente su col naso e si passò il dorso
di una mano sugli occhi, per nascondere le lacrime alla donna. “Mi manca mio papà” ammise in un sussurro, chinando la
testa e giocherellando con la sabbia bagnata del fondale. “Questa volta doveva
tornare presto, me l’aveva promesso. Invece è andato via con la barca e non è più
tornato.” La donna gli fece un’altra carezza sulla testa,
sorridendogli con aria triste. Finnick la guardò meglio: qualcosa nel suo aspetto
gli era familiare; era sicuro di averla già vista, da qualche parte. La osservò mentre si sedeva di fianco a lui, stringendosi
le gambe al petto. I lunghi capelli grigi le coprirono il volto, mentre la
signora anziana si chinava per sussurrargli qualcosa all’orecchio. “Vuoi sapere un segreto?” Il bambino annuì; il suo sguardo si fece un po’ meno
imbronciato. “Questa baia è fatata” rivelò poi la donna con un
sorrisetto enigmatico. “Gli abitanti del Distretto 4 la chiamano ‘la Baia delle
Impronte Dimenticate’. Si dice che le persone che abbiamo amato – quelle che
abbiamo perso, o quelle che ci mancano – camminino su questa spiaggia tutte le
sere, per vegliare sui loro cari. E, la mattina, si possono vedere le loro
impronte.” Finnick la ascoltò rapito, sfregandosi le guance umide con
la mano di tanto in tanto. “Non è una bugia, vero?” chiese, un po’ esitante. La donna gli sorrise, prima di scuotere la testa. “È tutto vero” lo rassicurò, sfiorandogli il naso con
l’indice. “E, se hai pazienza, domani mattina lo scoprirai da te” promise infine,
alzandosi da terra e scuotendo l’orlo zuppo dei pantaloni che indossava. “Adesso
avrei proprio bisogno di fare una passeggiata! Sono troppo vecchia per restare
con il sedere a mollo tutto questo tempo!” Finnick ridacchiò, prima di scattare in piedi. “Vengo con te!” esclamò poi, tendendole la mano. Camminarono lungo la riva per qualche minuto, mentre il
cielo incominciava a tingersi di rosa. “Quanti anni hai?” chiese a un certo punto il bambino,
rivolgendole un’occhiata incuriosita. La donna si mise a ridere. “Troppi, bambino mio.” Il ragazzino fece spallucce. “Io ho cinque anni” la informò poi, battendosi una mano
sul petto. “Sono Finnick, ma papà mi chiama sempre ‘capitano’. E tu?” “Io mi chiamo Margaret” rispose lei, sorridendogli
materna. “Mio padre, però, mi chiamava Maggie.” “E la tua mamma e i tuoi amici come ti chiamano?” “Di solito Mags” rispose la
donna. “Mags è fico!” decise il
bambino, annuendo energicamente. “Ti chiamerò anch’io così. Mags?” “Che cosa c’è, Finnick?” “Io un pochino ti conosco” ammise il piccolo, rivolgendole
un sorriso furbetto. “Tutti ti conoscono.” “Ah, sì?” L’espressione benevola della donna si inombrò
leggermente. “Sì… Il papà dice che è perché una volta hai combattuto
contro i pirati. E li hai sconfitti tutti!” dichiarò allegramente il piccolo, assestando
qualche pugno a un nemico immaginario. “Mags…”
mormorò poi, aggrottando appena le sopracciglia. “…Sembri triste.” Si era accorto che la sua nuova amica aveva perso il
sorriso gentile che gli aveva rivolto fino a poco prima. La donna scosse
lentamente la testa. “Non mi piace molto ripensare ai pirati” rispose poi,
accarezzandogli con tenerezza i capelli. Il bambino le rivolse un’occhiata
apprensiva, prima di annuire. “Ti va di giocare con me?” chiese infine, indicandole la spiaggia.
“Possiamo costruire un castello, o una nave di sabbia. Anzi, ci sono!
Costruiamo il veliero di Capitan Sebastian! Ma dentro ci mettiamo solo lui,
niente pirati: te lo prometto.” aggiunse solenne, posandosi una mano sul petto. La donna rise di cuore e, in quel frangente, l’ombra
scura sul suo volto tornò ad affievolirsi. Mano nella mano, il piccolo Finnick e l’anziana Mags raggiunsero la riva: il percorso delle loro impronte s’interruppe
nel punto in cui i due incominciarono a costruire una piccola imbarcazione
fatta di sabbia e conchiglie. L’indomani mattina, il bambino tornò alla baia e Mags gli mostrò una serie di orme che proseguivano fino al
mare: erano impronte grandi, di stivali da uomo adulto. Le impronte di un marinaio come Gannet
Odair. * Quel pomeriggio la spiaggia della baia era immacolata,
del tutto priva di tracce: era giorno di Mietitura. Le impronte di sabbia sporcavano il piazzale, dove i
giovani del Distretto 4 si erano raccolti: erano orme appena accennate,
mescolate a qualche pietruzza. Impronte ben calcate, di adolescenti fieri, e
altre nervose, pasticciate, di ragazzini sperduti. C’erano anche delle orme rassegnate, di sabbia bianca,
accostate alla porta del palazzo di giustizia: impronte di un giovane capitano che
stava per ormeggiare e abbandonare il porto. Vivianne
spalancò la porta, frugando la stanza con sguardo atterrito. Trovò Finnick
intento a camminare avanti e indietro, con gli occhi spauriti che fissavano il
vuoto e le mani serrate a pugno in un evidente tentativo di mantenere la calma.
I sandali sporchi del ragazzo seminavano granelli di sabbia per terra a ogni
suo movimento. Quando
la madre gli andò incontro per abbracciarlo, ricambiò la stretta con energia. “Non
possono portarmi via anche te” mormorò la donna, aggrappandosi alla sua
camicia. “Non possono farlo, Finn, non possono…” “Mamma…”
mormorò il quattordicenne, cercando di calmarla. “…Mamma, guardami.” Si
ritrasse con gentilezza dalla presa della donna, per poter incrociare il suo
sguardo. “Mags si prenderà cura di me” promise infine, sforzandosi di
controllare il tremito nella propria voce. “Andrà tutto bene, te lo prometto.” Vivianne
incominciò a scuotere la testa, dapprima lentamente, poi sempre più in fretta. Specchiò
i suoi occhi chiari in quelli verdi del figlio, altrettanto umidi di lacrime, e
gli sfiorò con tenerezza il volto. “Sei
solo un bambino…” mormorò infine, accarezzandogli una guancia: era così bello,
suo figlio. Assomigliava
a Gannet, ma c’era qualcosa nei suoi modi fare
scanzonati che apparteneva solo a lui, e che lo rendeva ancora più attraente.
Attirava spesso l’attenzione delle coetanee per via del suo bell’aspetto, ma
agli occhi di Vivianne quella di suo figlio era una
bellezza ancora pura, da ragazzino. Il suo sorriso era quello di un bambino e i
suoi occhi verdi si facevano più vispi, quando lei gli nominava scherzosamente il
suo eroe d’infanzia, Capitan Sebastian; proprio come quando era piccolo. Lo
guardò a lungo, scuotendo più volte la testa; la paura di perderlo le
attanagliò tutto a un tratto lo stomaco. “Oh
capitano, mio capitano…” mormorò a quel punto, abbozzando un sorriso triste. Il
figlio ricambiò, concedendosi per un istante l’espressione malandrina che
l’aveva caratterizzato sin da ragazzino. “Il
nostro viaggio tremendo è terminato” recitò poi, cancellando con l’indice la
riga che una lacrima aveva lasciato sul volto della madre. In
un angolo della stanzetta uno dei pacificatori incominciò a dare segni
d’irrequietezza, lasciando intuire a Vivianne che il tempo a sua disposizione
stesse per finire. La donna strinse a sé il figlio ancora una volta, decisa a
non lasciarlo andare fino a quando non gliel’avessero più permesso. “Torna
a casa, capitano” mormorò, accarezzandogli il viso. Finnick
annuì, chinandosi in avanti per darle un bacio sulla fronte. “Tornerò”
promise, stringendole le mani. I
due pacificatori presenti nella stanza si scambiarono un cenno d’intesa, prima
di chiedere a Vivianne di uscire. La
donna rifiutò, ma uno degli uomini l’afferrò per le spalle, intimandole di separarsi
dal ragazzo. Vivianne lottò per liberarsi, ignorando
le rassicurazioni di Finnick, trattenuto dal secondo pacificatore. “Guarda
le impronte!” le gridò infine il giovane, mentre la madre veniva
condotta fuori dall’edificio. “Le mie impronte sulla baia, come facciamo sempre
con quelle di papà!” La
donna si arrese alla presa del pacificatore, che la spinse all’esterno del
palazzo di giustizia, facendole perdere l’equilibrio; cadde in ginocchio, graffiandosi
le mani sul cemento. Percepì all’istante il contatto ruvido dei granelli di
sabbia sotto i polpastrelli e se li lasciò scorrere lungo i palmi, mentre le
lacrime tornavano a rigarle gli zigomi. Una
serie di impronte sfatte, a mala pena riconoscibili, si inseguivano fino
all’ingresso del palazzo: le orme di suo figlio. Versi
sparsi di una poesia incominciarono a risuonarle nella testa, accentuando il
dolore che avvertiva all’altezza del petto; era la preferita di suo marito, la
stessa che Finnick si era sforzato così tante volte di imparare a memoria, da
piccolo. Non era mai riuscito a memorizzarla per intero, ma lei l’aveva fatto. Ed
erano proprio gli ultimi versi di quella poesia che le rimbombavano nella mente
in quel momento. “O gocce rosse di sangue, là sul ponte dove giace il Capitano, caduto, gelido, morto.” Note conclusive. Anzitutto,
chiedo scusa per la lunghezza spropositata di questa storia! Di solito mi piace
riprendere più momenti della vita di un personaggio nelle one-shots,
partendo dall’infanzia per arrivare all’età adulta, ma una volta ero in grado
di inserire più mini-scene senza andare oltre le 10 pagine -\- Adesso, a
quanto pare, non ne sono più in grado. Perciò mi è uscita fuori una maxi-one shot di circa 18 pagine, per sfortuna
della povera giudicia a cui tocca valutare c__c Per pubblicare l’ho divisa, mi vergognavo piazzare un capitolazzo di 8000 parole! Nei prossimi giorni pubblicherò
la seconda parte. Il titolo della storia è legato a una
canzone di Leona Lewis che si chiama appunto “Footprints
in the sand” e che mi ha dato l’ispirazione per
plottare questa storia. L’immagine
dell’albero della barca a vela e delle onde che s’infrangono sugli scogli come
chiusura della prima scena le ho inserite perché sono, rispettivamente, la
prima e l’ultima immagine che Katniss “vede” nel momento in cui Finnick muore. I riferimenti a Peter Pan
li ho inseriti per allacciarmi a un’altra mia storia intitolata, appunto, “Il figlio di
Peter Pan” e che parla di Sebastian, il figlio di Finnick (e che a sua
volta era collegata a un’altra one-shot scritta un annetto fa, “Un bimbo sperduto”).
È la storia che avevo scritto inizialmente per partecipare al contest, ma a cui
poi avevo dovuto rinunciare, perché avevo dovuto strutturarla come una long e nel
contest erano vietate. A me Finnick ha sempre ricordato molto Peter Pan, sia
fisicamente che nei modi, e ci tenevo a sottolineare questa somiglianza
soprattutto parlando del Finnick bambino. Anche i riferimenti alla baia e alla
leggenda delle impronte si legano al racconto su Sebastian. Mags nei libri non si esprime molto bene, ma
ho pensato che questo problema potesse essere sorto più in là con il tempo e
che quindi a questo punto della storia riuscisse a parlare ancora fluentemente. Inoltre, non penso che in quel periodo potesse avere più di una sessantina d'anni, ma ho immaginato che agli occhi di un bimbo piccolo come Finnick, potesse apparire come una donna piuttosto anziana.
I “pirati” che Mags ha sconfitto a cui accenna Finnick sono, ovviamente,
i tributi. Suo padre gliene ha parlato a quel modo per non dover scendere nei
dettagli sugli Hunger Games. Credo di aver detto tutto!
Ricordo a tutti i fanwriters e i lettori del fandom di fare un salto nel gruppo Facebook
“The Capitol”,
che sta organizzando un sacco di iniziative legate proprio al far conoscere
maggiormente le proprie storie. Ci sono anche giochini e discussioni varie
legate alla saga di Hunger Games! È in lavorazione
anche una pagina
facebook dedicata alle fan fictions su Hunger
Games! [1] Le frasi che Finnick e suo padre recitano sono tratte
dalla prima strofa della poesia “O capitano! Mio Capitano!” di Walt Whitman (“O
Captain! My Captain!” In
originale). Ci sono varie traduzioni, io ho scelto questa: http://www.paroledautore.net/poesie/straniere/whitman/whitman-capitano.htm [2]
“Ragazzo perché piangi?”
sono le parole che un’ormai anziana Wendy rivolge a Peter Pan nel film “Hook”. Ogni riferimento
al film che ha ispirato “Il figlio di Peter Pan” è puramente casuale u.u
“…Ed era un capitano coraggioso e invincibile…” proseguì fiero il bambino,
tornando indietro e aggrappandosi nuovamente alle dita di Vivianne.
Un abbraccio e a presto!
Laura