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Autore: Lunarossoscarlatto    25/10/2014    0 recensioni
[...]Oddio, ditemi che non l’ha detto davvero vi prego…
“Hai paura di un pigiama?”
“No! Ma farei una figuraccia a farmi vedere con una che si concia così”
“Io non credo. Guardala adesso: non è truccata o vestita ed è più affascinante lei, di tutte le ragazze di questa festa messe insieme.”
Affascinante?! Davvero ha detto Affascinante!? A me? [...]
[...]“Scusami Jo, mia sorella cerca sempre di rompermi le scatole e non mi lascia mai divertire. E’ una guastafeste”
“Oh, non preoccuparti è stato un piacere incontrare tua sorella, ha un certo…stile e un carattere particolare, spero di vederla alla prossima festa!”
“Aspetta e spera!”
Uscendo da quel caos mi rendo conto di quello che ho detto e della reazione sconvolta di Jonathan. Il mio subconscio mi dà una pacca sulla spalla e io sorrido, ho appena disarmato quel citrullo pieno di sé. Uno a zero per Andrea!
“Beh, la speranza è l’ultima a morire, Didi”[...]
Salve ragazzi!
Volevo dirvi che questa è la mia prima ff su EFP e che sono davvero tanto emozionata!!
Dall'introduzione non si legge il vero libro, questa storia è molto più di quella semplice introduzione, credetemi.
Solo non sapevo come introdurre senza spoiler!!
Allora buona lettura!!
Bye!
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Universitario
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                                                Capitolo 1


Sono passati tre mesi e ancora non ho finito di prepararmi per l’esame di legge.
“Ancora a studiare stai? Ma una vita sociale non ti garba?”
“Dovrò farmi una cultura prima o poi no?”
“Si…come se fare l’avvocato fosse qualcosa di indispensabile.”
Mia sorella e le sue impossibili e intrattabili tesi sui rapporti sociali che ho, anche se francamente della mia vita sociale me ne frego.
“Pensi che andare ad una festa di un presunto compago di corso, come dici tu, sia un’attività fine a sé stessa? Di qualche utilità?”
“Ma che ne puoi sapere tu se stai rinchiusa in casa seppellita sotto i libri tutti i giorni!”
“Non sono seppellita dai libri, li leggo”
“Ah…lasciamo perdere, con te è fiato sprecato”
Vaga per la casa con una mano nei capelli e una che mantiene l’asciugamano bagnato, usato dopo la doccia, sta cercando disperatamente in cassetti, armadi, dispense e frigorifero ma, a quanto pare, non riesce a trovare quello che sta cercando.
“Ma che cerchi?”
“Il mio elastico!!Quello marrone!!”
Mi sciolgo la coda (ahimè) e le dò il suo elastico.
“Questo?”
Me lo strappa da mano lanciandomi uno sguardo del tipo: ‘se non fosse illegale ti brucerei viva’ ma so che non lo farebbe mai…altrimenti chi le fa i compiti quando è troppo sbronza per intendere e per volere?
Ha bisogno di me.
“A che ora torni?”
“Quando mi verrà voglia di rivedere la tua insopportabile, scorbutica, odiosa faccia.”
“Quanto amore Giorgia, mi fai commuovere”
“Non è vero, tu ti commuovi, ridi, piangi solo quando leggi. Hai un cuore di carta.”
Quant’è vero, oramai la vita al di fuori delle quattro mura di casa e delle pagine di ogni libro che leggo, è un ammasso sfocato di eventi in rapida successione.
Odio andare alle feste di qualsiasi compagno di corso o a qualsiasi compleanno, odio la discoteca (sul serio, come ci si può divertire in un luogo buio, dove stai azzeccata come un francobollo a gente sudaticcia e ubriaca cercando di “ballare”?!), non sono attratta da nessun ragazzo “figo” del campus e amo rintanarmi in biblioteca, la William Andrew Clark Memorial Library, in compagnia di Mrs. Jhonson e di una sana tazza di cioccolata calda o di un thè freddo.
“Ho un cuore di carta rilegato in pelle e bordato d’oro”
“Okay…come sto?”
Finalmente esce dal bagno dopo un ora e mezzo per scegliere, e solo per scegliere, il vestito, con un abitino di pelle nero con dei buchi sul fianco che lasciano scoperta una grande porzione di pelle, sulla spalla sinistra ci sono dei volant e l’altra spalla è nuda. Un paio di decolleté sempre di pelle nera con la suola rossa, orecchini d’oro e pochette di stoffa nera; lasciando i capelli sciolti su un lato con un filo di matita sugli occhi che completa il look “dark-rock”.
“Mi potresti ripetere chi ha organizzato la festa?”
“Sei davvero un’asociale rompipalle. Come fai a non conoscere Jonathan Stivson ?! E’ il ragazzo più figo del campus!.”
“Interessante, davvero. Comunque, dove la fa la festa questo…Jonathan?”
“Questo Jonathan, come dici tu, fa la festa alla confraternita, possibile che non ne hai sentito parlare?!Ma dove vivi?”
La guardo di sbieco.
“No, okay, non dirmelo. So già dove vivi.”
Nei libri, è lì che vivo.
“A che ora torni?”
“Senti, ho ventun’ anni, okay? Posso avere un po’ di sacrosanta libertà?”
“No.”
Eeeeh!?
“Fino a quando sei sotto il tetto dell’appartamento del quale pago l’affitto sei sotto la mia responsabilità e sotto il mio assoluto potere.”
“Tu ti dovevi chiamare Adolf !”
“Mi dispiace tanto ma il destino è crudele, adesso o mi dici a che ora torni o ti vengo a prendere in pigiama.”
“Didi…ti prego..”
Quand’era piccola e mi chiamava col mio diminutivo cedevo a qualunque richiesta mi facesse, ma sono anni che non funziona più.
“Il pigiama con le zucchette”
“Didi…”
“E le pantofole di Mrs. Frog”
“Ce l’hai ancora!?”
“Si.”
Mi guarda a lungo poi alza gli occhi al cielo e sbuffa. Ho vinto, nessuno resiste a Mrs. Frog.
“Ritorno insieme a Tiffany, promesso.”
“Mica quella della festa di Halloween di due anni fa?”
Tiffany Wilson aveva organizzato una festa di Halloween per inaugurare il primo anno di Università, le solite feste imbottite di alcol, vestiti succinti, ragazzi poco pudici, ragazze ancora meno e dulcis in fundo, costumi sexy tipo: strega sexy, vampiro sexy, zombie sexy, zucca sexy e chi più ne ha…se li tenga.
“Beh…è l’unica che rimane sobria a tutte le feste!”
“Dato che l’anno scorso è andata in coma etilico e i genitori le hanno ristretto il budget della borsa di studio”
“E tu come lo sai?”
“Segreti del mestiere…”
“Quale mestiere?”
“Quello di sorella maggiore!”
Scusate tanto se sono poco divertente o stimolante in questi ultimi tre mesi, ma perdi l’ilarità una volta passata metà della tua vita a studiare legge.
“Che schifo di vita che fai…”
“C’è chi sta peggio.  Allora facciamo così: Ti vengo a prendere alle tre e mezzo e ti giuro che non esco dalla macchina, ma fatti trovare fuori la porta altrimenti…”
“Altrimenti entri con il pigiama con le zucchette e le pantofole di Mrs. Frog, lo so, ho capito.”
“Brava Gì.”
“Okay, allora ci vediamo alle quattro!”
“Tre e mezzo!”
Niente da fare, è già uscita dalla porta sbattendola e facendo risuonare i tacchi sul parquet.
E’ così cocciuta a volte…
Mi costringo a concentrarmi e, quando non riesco più a vedere a un palmo dal mio naso, spengo il computer e mi stravacco sul divano.
“E ora cosa faccio?”
Chiedo al pupazzo Thomas, il leoncino che mi regalò mia sorella al mio quattordicesimo compleanno, è una compagnia perfetta: silenzioso, sempre attento e sempre d’accordo con me.
Allora prendo il cd di musica classica, che mi ha regalato il mio migliore amico per San Valentino, e mi preparo una cioccolata calda, mi siedo sul divano, per poi cedere al sonno.

Di soprassalto mi alzo con il trillo acuto del mio cellulare, e mi rendo poi conto che non sono nella rilassante vasca di fanghi di una spa, come nel mio sogno, ma con la mano nella tazza straripante di cioccolata. Rispondo cercando di pulirla ma è impossibile.
“Didi ma che fai, prima mi dici: ‘ci sentiamo in questi giorni’ e poi non mi chiami per una settimana?”
“Mamma, qual buon vento. Ma che ore sono?”
“Oh beh, da noi sono le otto e mezzo del mattino”
“Beh, allora da me sono le tre e mezzo di notte, ma si può sapere perché mi hai chiamato a quest’ora? Stavo dormendo….”
“Scusa, non mi sono ancora abituata a questo fuso orario antipatico, tua sorella è li con te?”
“Uh, no è ad una…”
Oddio, oddio, oddio…la festa!
“Didi, ci sei? Perché non rispondi??”
“Mamma io devo andare ti voglio bene, ciao!”
Stacco in fretta e furia il telefono, prendo le chiavi dell’auto, il giubbotto e mi fiondo in macchina.
“Merda, merda, merda.”
Faccio partire l’auto e d’improvviso si accende la radio a tutto volume, lancio un urlo ma subito la spengo, faccio retromarcia nel parcheggio e mi metto in strada. Ma dove diamine è quella confraternita!?
Dopo mezz’ora di vicoli e stradine sconosciute, e dopo aver chiesto a varie persone dove si trovasse la confraternita dell’università (anche se i passanti sono poco affidabili) arrivo all’ enorme villa alle quattro e un quarto e Gì non c’è.
Resto a guardare l’ingresso e vedo quasi distintamente le persone schiacciate alle finestre e la musica assordante dalle quali esce.
Aspetto dieci minuti, poi altri dieci, alla fine tento di chiamarla al cellulare ma non risponde; così mi faccio coraggio ed esco dalla macchina, attraverso il cortile costeggiato da bottiglie di birra e bicchieri di plastica, arrivo alla porta e busso, ma nessuno apre, perché ovviamente data la musica così assordante nessuno può sentirmi; e mi domando a che cavolo pensavo quando ho bussato.
Fortunatamente la porta si apre ed esce un ragazzo che sembra debba vomitare, a meno che la festa sia in maschera e lui si sia vestito da Hulk, ed entro.
Appena supero di poco la soglia mi trovo davanti un caos di dimensioni astrologiche: nel piccolo salone c’è un tavolo con attorno, data la stazza degli individui, la squadra di rugby che incoraggia il caposquadra a bere i quindici shots sul tavolino, sulle scale ci sono coppie di ragazzi che si baciano senza ritegno e altri svenuti per il troppo alcol, nella zona cucina c’è la squadra di calcio con un’altra distesa di bicchierini.
Inizio a cercare Gì e chiedo ad alcuni se l’hanno vista, ma le uniche risposte sono: “No, non la conosco”; ”E tu chi sei?”; “Ti va un giro in auto con me?”; davvero utili.
Salgo al piano di sopra facendo lo slalom tra ubriachi, svenuti e coppie; arrivata nell’atrio del primo piano mi blocco osservando il mio riflesso nello specchio del corridoio, ho camminato per quasi metà della casa con il pantalone del pigiama e con una canottiera bianca, sotto un  giubbino di pelle di provenienza ignota, e nessuno se n’è accorto, e francamente spero di continuare a passare inosservata.
“Ehi Didi!! Vieni un po’qui divertiti anche tu!!”
Oh no, conosco quella voce stridula e intervallata dai singhiozzi della sbronza.
“Gì dobbiamo andare a casa sono le quattro e mezzo.”
“Oh che noiosa che sei!! Stai sempre sui libri e non ti svaghi mai, bevi una birra, fai amicizia!! Ma conosci qualcuno che frequenta i tuoi corsi? E che ci fai in pigiama? Mi avevi promesso che non lo avresti messo!! Ma non è quello con le zucchine! O erano mucchine?”
Ecco che inizia a parlare a raffica, cosa abituale dopo una sbronza.
“Ma quanto hai bevuto?”
“Hm…ho fatto una gara con Jo a chi beveva più birre in un’ora, e ho vinto!!”
“Ma chi è Jo adesso?”
“Uffa quante domande che fai!! Jo è il più figo dell’università e l’organizzatore della festa…adesso te lo presento. Ehi Jo, Vieni a conoscere mia sorella!”
Mi giro e vedo il ragazzo in questione infondo al corridoio. E’ alto più o meno un metro e novanta, fisico scolpito sotto la t-shirt verde, capelli bruni con dei riflessi biondi e, una volta vicino abbastanza da potergli parlare senza urlare, noto i suoi occhi; sono verdi ma c’è qualcosa che li rende brillanti, chiari…quasi cristallini.
“Oh quindi tu saresti Didi, vero?”
Cosa?! Come fa a conoscermi?
“Già…la mia sorellona iperprotettiva, ipernoiosa, ipercattiva”
“No, sei la solita esagerata, io non credo che la nostra Didi sia tanto malvagia. O sbaglio?”
La “nostra Didi” ma fa sul serio??
“Oh si che lo è!! Per venire qui ho dovuto chiederle il permesso, altrimenti mi sarebbe venuta a prendere lei con il pigiama con le zucchette e le pantofole di Mrs. Frog! E anche se non ha messo quelle, è venuta lo stesso in pigiama. Imbrogliona.”
Oddio, ditemi che non l’ha detto davvero vi prego…
“Hai paura di un pigiama?”
“No! Ma farei una figuraccia a farmi vedere con una che si concia così”
“Io non credo. Guardala adesso: non è truccata o vestita ed è più affascinante lei, di tutte le ragazze di questa festa messe insieme.”
Affascinante?! Davvero ha detto Affascinante!? A me?
“Affascinante, ma di poche parole.”
“Oh lei non parla mai…solo con Thomas.”
“Il suo ragazzo?”
Giorgia sogghigna ”Macché!! Gli unici fidanzati che ha lei sono gli attori dei suoi libri”
“Autori, non attori.”
“Oh allora parli?? Beh piacere, mi chiamo Jonathan Stivson,  sono un amico di Giorgia ma non ti ho mai visto da nessuna parte”
Certo, un amico, ci avrei scommesso.
Dato il mio silenzio Gì interviene.
“Ti avevo detto che è asociale!! Questa qui parla solo con quei due sfigati dei suoi amici, con Thomas e legge dalla mattina alla sera”
“E Thomas è…?”
“Un pupazzo.”
Okay, è troppo, devo andarmene.
“Beh, almeno parli con qualcuno no?”
“Certo, con qualcuno che sa ascoltare e che sta zitto invece di parlare a vanvera.”
Guardo Gì dritta in faccia per farle capire che sono rivolta a lei, ma è troppo ubriaca per capirmi, così la prendo per un braccio e la porto giù, verso l’auto, per poter tornare finalmente a casa, ma si divincola e non fa che lamentarsi.
“Didi, lasciami divertire ancora un po’ dai…”
“No Gì, dobbiamo tornare a casa è tardi.”
Intanto Jonathan ci segue fino alla porta.
“Scusami Jo, mia sorella cerca sempre di rompermi le scatole e non mi lascia mai divertire. E’ una guastafeste”
“Oh, non preoccuparti è stato un piacere incontrare tua sorella, ha un certo…stile e un carattere particolare, spero di vederla alla prossima festa!”
“Aspetta e spera!”
Uscendo da quel caos mi rendo conto di quello che ho detto e della reazione sconvolta di Jonathan. Il mio subconscio mi dà una pacca sulla spalla e io sorrido, ho appena disarmato quel citrullo pieno di sé. Uno a zero per Andrea!
“Beh, la speranza è l’ultima a morire, Didi”
“Mi chiamo Andrea non Didi”
Salite in macchina accendo il motore e torniamo a casa.

“Ma è mai possibile che non trovo mai quel cavolo di elastico!?”
Quale migliore buongiorno se non quello di mia sorella che urla, e quale miglior risveglio se non con la faccia spiaccicata sulla tastiera?
“ANDREA! Hai preso di nuovo il mio elastico?”
Sono ancora poco sveglia, e solo ora mi accorgo di avere impresse sulla faccia le lettere dell’alfabeto.
“ANDREA!”
“Che c’è?”
“Hai preso il mio elastico, vero?”
“No, ieri lo avevi tu.”
Mi alzo e vado in bagno per prepararmi ad andare al primo corso della mattinata: psicologia. Metto un sandwich in borsa e poi mi fiondo in macchina, abbandonando mia sorella alla sua ricerca disperata.
Arrivo con dieci minuti di ritardo ma, fortunatamente, il professore non c’è, salgo le scale sino all’ultima fila e mi siedo ben nascosta da sguardi indiscreti o da distrazioni fastidiose.
Agli ultimi banchi si sta una meraviglia, puoi tranquillamente prendere appunti evitando lo sguardo inquisitore del prof ed evitare brutte compagnie.
Dopo un po’ entra il professore e inizia la lezione e, proprio quando stavamo affrontando il mio tema preferito, la porta si spalanca e Jonathan entra affannando.
“Oh, abbiamo un ritardatario qui…”
“Scusi professore, problemi con la moto”
“Certo, come sempre, piuttosto vatti a sedere.”
Non è possibile, ci sono circa ottanta posti liberi, trenta dei quali occupati da biondone fresche di parrucchiere, e lui dove va a sedersi?!
“Ehi Didi! Anche tu a psicologia eh?”
Ed ecco, un esemplare unico, homo-playboy; ben noto come “senza-cervello” dalla minor parte del genere femminile con un briciolo di cervello e una taglia in meno di tette .
 “Vorrei ricordarti che preferisco che mi chiami Andrea, non Didi”
“Ma certo Didi, come vuoi tu.”
La lezione ricomincia e io ci provo in tutti i modi, lo giuro, a non farmi distrarre da quel citrullo, ma è davvero esasperante!
“Potresti smetterla di sgomitare e fare rumore?”
“Sto facendo rumore?”
“Si, stai zitto e fermo.”
“E perché dovrei?”
“Signorina Esposito e signor…”
“Stivson.”
“…Fate silenzio.”
Meglio che mi sposto.
“Ehi, che fai?”
“Mi sposto.”
“Questo lo vedo, ma perché?”
“Perché mi distrai.”
Prendo i miei libri e vado qualche banco più avanti, ma lui implacabile mi segue.
“Qui c’è più luce non trovi? Perché ti siedi sempre là infondo?”
“E tu perché ti ostini a seguirmi?”
“Per farti compagnia!”
“Beh, preferisco stare da sola.”
Quanto è irritante.
“Non gradisci la mia compagnia?”
“La gradisco come se fossi uno scarafaggio.”
“Non è possibile, tutte amano la mia compagnia!”
Ma sentitelo! Mr. Modesto.
“Beh, evidentemente ti sbagliavi.”
Finalmente l’ora estenuante di psicologia finisce, non posso credere che a causa sua adesso dovrò copiare minimo dieci pagine di appunti perché non ho ascoltato uno straccio di lezione.
Stanca ed esasperata, mi avvio verso l’armadietto per posare i libri di psicologia e prendere quelli di arte. Vengo però sopraffatta dall’abbraccio di Jessie, la mia migliore amica, che mi travolge alle spalle.
“Jess!! Così mi fai cadere!”
“Andrea, che brontolona che sei. Come potrei farti cadere? Sono una piuma!”
“Una piuma di settanta chili”
“Ehi!. Stai per caso  dicendo che sono grassa?!”
“Chi, io? No!”
Finalmente mi scende di dosso e mi si para davanti con la sua indomabile chioma scura, irrequieta massa riccia che nasconde un tondo viso cosparso di lentiggini.
“Ho una news che ti sconvolgerà.”
“Devo sedermi?”
“No, non per forza ma se vuoi puoi appoggiarti a me, posso sostenerti e non farti cadere nel caso, sai, svenissi. E’ piuttosto sconcertante la cosa. Non è che vuoi un bicchiere d’acqua…”
“Jess…sto bene, dimmi la tua news che devo andare a lezione!!”
Mi guarda spalancando i suoi occhi castani, ho sempre pensato sembrasse una cerbiatta, anche se non è poi tanto innocente.
“Sono stata invitata da Jonathan Stivson al suo party di sabato!!.”
Ma certo, il ragazzo più figo della scuola, come dimenticarlo.
“Sconvolgente vero?”
Non ho il tempo di rispondere che arriva Edward e mi abbraccia, anche lui alle spalle.
“Splendore, come va?”
Mi gira e mi stampa un bacio frettoloso sulle labbra per poi stringere la mia schiena contro il suo petto.
“Mai male Eddie, tu come te la passi?”
“Mai impegnato Splendore, purtroppo.”
“Non hai trovato quello giusto, nessuno sa apprezzare il ragazzo d’oro che sei, ma aspetta e vedrai.”
“Oh, Didi, se non fossi una ragazza ti sposerei.”
“E io sposerei te.”
“Ovvio, come resistermi?”
Rido, Edward è sempre stato il mio migliore amico, il mio porto sicuro, c’è sempre stato in qualsiasi momento, soprattutto nei miei periodi peggiori. Amo rifugiarmi nei suoi occhi verdi, caldi e familiari, non riesco a stare sola senza aver visto almeno una volta il suo viso, senza vedere almeno una volta la sua chioma caramello; non sopravvivo ai miei attacchi di pianto senza le sue forti braccia che mi stringono. E’ indispensabile per me.
Ci conosciamo da tre anni e per me è un fratello.
“Ed, indovina che faccio sabato?!”
Inevitabilmente Jess attira l’attenzione
“Farai assistenza ai cani disabili?”
“Scusa, che hai contro i cani disabili?”
“Ma nulla Splendore, anzi ne adotterei subito uno se…”
“Ed, non scherzare! Okay, te lo dico, vado al party di Jonathan  Stivson”
All’improvviso mi ritrovo spiaccicata agli armadietti dell’altra parte del corridoio, e solo dopo aver sentito l’urlo di Eddie capisco di essere stata spinta da lui.
“Cosa?! Cazzo!! Come hai fatto? Chi sei portata a letto per andarci? Chi hai corrotto? Merda, mi farei castrare solo per vedere quel Dio del sesso.! BRUTTA STRONZA ETERO”
Avendo sentito la mia buona dose di imprecazioni, saluto Jess, che continua ad ascoltare Eddie che si dispera, e mi avvio all’aula di arte.
Speravo di andare tranquillamente a lezione.
Il citrullo rovina i miei piani.
“Da chi scappi?”
“Da chi dovrei scappare?”
“Non lo so, perciò te lo chiedo.”
“Non scappo da nessuno.”
Accelero il passo per riuscire ad arrivare in orario, e senza fastidi, in aula.
“Ora ho capito. Scappi da me!”
“Sorpreso? Non dovresti, d’altronde sei uno scarafaggio.”
“No, non sono sorpreso perché so che non mi sopporti” ma che bravo, ha finto di non sentire il mio insulto. Davvero strategico! “Sono piuttosto sorpreso del fatto che mi eviti e non sbatti le ciglia o sporgi il seno dal tuo push-up con sopra la scritta ‘scopami’ come fa’ tutto il genere femminile di questo College. “
No, dico, lo avete sentito?! E lo dice con quel tono da ‘è una cosa normale, e tu sei strana perché non lo fai’. E poi io non porto reggiseni push-up, che diamine!
“Volevo solo sapere…”
Mi fermo di colpo, mi giro guardandolo dritto in faccia e gli sbatto la verità su quel visino da Dio greco del cavolo.
“Ascoltami bene, Mr. Sono-un-playboy-e-posso-permettermelo:
a) Per tuo rammarico, non porto push-up decorati; b) Sbattere le ciglia per attirare l’attenzione non è il mio sport preferito; c) Tutto il genere femminile di questo college non include anche me, perché non sono rincretinita come quelle lì. “
Dicendo questo me ne vado a lezione notando, con orgoglio, che il citrullo non è nei paraggi.
Due a zero per Andrea!

Finiti tutti i corsi mi avvio al garage per prendere l’auto e tornare a casa.
“Ehi Bambola, torni a casa?”
Oh Dio; di nuovo lui?!
“Jonathan, mi spieghi perché continui a seguirmi?”
“Prima non mi hai fatto finire di parlare”
“Beh, hai parlato abbastanza per i miei gusti, e io credo di essere stata chiara su ciò che penso, no?”
Apro la portiera dal lato del guidatore e salgo in macchina, non da sola.
“Però, per essere una misera 500, è carina”
“Certo, ed è ancora più carina quando ci sono solo io.”
“Cioè, sempre”
Ok, ammetto di essere abbastanza reticente e fastidiosa, un po’asociale e cattiva; ma non permetto ad un citrullo di trattarmi così!
“Esatto, quindi per non rovinare la bellezza della mia auto e la tranquillità del mio essere, esci.”
“Nah, si sta comodi qui.”
Essendo che la mia pazienza ha un limite, ricorro ad uno sporco rimedio.
Come si dice, il fine giustifica i mezzi.
“Oh, Jonathan, perché io?”
“Cosa?”
“Jonathan” mi avvicino a lui “Tra le tante ragazze di questo campus, che si sciolgono ai tuoi piedi, perché hai scelto me?”
“Oh, beh… Mi hai incantato con quel pigiama l’altra sera. Ma la mossa fatale sono stati i tuoi occhi, di che colore sono? Azzurro ghiaccio?”
Mi viene incontro avvicinandosi a me, stringendo gli occhi per scrutare i miei.
Sono perplessa ma non mi lascio abbindolare dai suoi metodi seduttivi.
“No, ci dev’essere qualcos’altro, io so spiegarmi perché tu abbia scelto mia sorella, come amica; ma io?” allungo le mani sulla portiera, costringendolo tra le mie braccia tese
“Ma tu non vuoi essere solo una mia amica, non è così?”
“Io, credo…”
“Tu credi cosa?”
“Io credo che questo ti farà capire tutto un po’ meglio.” Mi avvicino a lui, siamo a pochi centimetri di distanza, le nostre labbra si sfiorano quasi e…apro la portiera facendolo cadere fuori dall’auto
“Ma cos…”
“Ecco, Jonathan, come dirti…non mi meriti, e io sono così diversa da te! Non può funzionare, e a dire la verità non mi dispiace! Ou revoir
Chiudo la portiera e parto sgommando verso l’uscita del parcheggio.
Tre a zero per Andrea!

“Gì, sono a casa!”
Vuota, la casa è deserta. Ne approfitto per fare un bagno, dopo la stressante giornata ci vuole proprio.
Metto il CD di Eddie  nella radio e apro i rubinetti per riempire la vasca.
Pensandoci non faccio mai un bagno come si deve, di solito, prima che inizino i corsi, faccio una doccia veloce e corro a lezione. Ma, dato che non ho nulla da fare per tutto il giorno, mi crogiolo nell’ozio puro.
Premo un po’ di bagnoschiuma nel getto della fontana creando, man mano, sempre più schiuma; tolgo finalmente gli abiti sporchi e mi immergo nella nuvola di bolle al profumo di lavanda.
Mi è mancato questo senso di tranquillità e silenzio, durante il trasloco due mesi fa ho spremuto fino all’ultima goccia di energia  per portare tutto nel nuovo appartamento a Brentwood, e subito ho iniziato a iscrivermi ai corsi dell’università. Io e Gì abitavamo già a Los Angeles, Montana Avenue, poi ci siamo avvicinate di più all’università perché abbiamo una sola auto e corsi diversi.
Comunque non c’è stato un attimo di pausa.
Decisi, dopo il diploma, di venire in California dall’Italia perché dovevo lasciarmi il passato alle spalle, ricominciare e, magari, dimenticare.
Lo squillo acuto del mio cellulare mi strappa dalla profonda riflessione e, a malincuore, esco dalla vasca avvolgendomi un telo sul corpo.
“Si, un attimo, arrivo!” urlo al cellulare.
Quando rispondo sento un brivido attraversarmi la schiena, e non è per il freddo.
“Bunny, come va?”
Michael Finnegan, speravo di essermi liberata di lui, a quanto pare non è così.
“Mike, non mi chiamare più così, okay? Io e te abbiamo chiuso cinque anni fa.”
“Oh, tesoro, mi dispiace ma non è così…”
“Ma che cazzo dici?! Mi spieghi che vuoi?”
“Calma! Che sono questi modi? Volevo solo ricordarti che devi una bella cifra ai miei compari. Non ricordi?”
“Avevi detto che ci avevi discusso tu.”
“Si, certo, fin quando giocavi e mi eri utile.
Ma, ora? I compari vogliono indietro quei soldi.”
No, no, no non è possibile, non può succedere davvero.
“Mike” ho la voce flebile, tremante, incerta “Mike, tu sai che non ho quella cifra...”
“Davvero? Mi dispiace molto tesorino” ride “Però, sai, dato che sono in galera non posso proprio aiutarti.”
“E io cosa dovrei fare adesso? E perché mi hai chiamata?”
“Perché, vedi, se potessi uscire da qui potremmo ritornare ad aiutarci a vicenda, come ai vecchi tempi.”
“Io…”
“Okay, Tesorino, pensaci. Io adesso devo andare, ti chiamo tra un mese, credo ti basti per pensare, a presto!”
La telefonata termina e io mi accascio lentamente contro il muro della cucina, stravolta. Speravo di essermi lasciata tutto alle spalle, a quanto pare mi sbagliavo.
La porta si apre bruscamente e Gì entra entusiasta.
“Didi, indovina un po’ ”
Io resto seduta per terra, appoggiata al muro, con le mattonelle fredde a contatto con la pelle ormai asciutta, avvolta dal telo completamente bagnato, immobile.
“Didi! Sei a casa?”
Ci vogliono solo pochi minuti prima che mia sorella raggiunga la cucina e mi si avvicini preoccupata, evidentemente ho lo sguardo vacuo e mi sto mordendo a sangue il labbro perché sento un familiare bruciore, mentre Gì urla e mi scrolla, ma non l’ascolto.
“Andrea, cosa ti prende? Che è successo? Andrea!!”
Il telo mi scivola di dosso lasciandomi nuda e vulnerabile accanto a mia sorella, che implacabile cerca di farmi svegliare. Ma come posso svegliarmi, se questo non è un sogno?
Pensavo di aver chiuso con tutta quella merda, ed ecco che torna in dietro, come un boomerang.
Cerco di controllarmi, di reagire, mentre guardo mia sorella piangere disperata, prendermi a schiaffi cercando di risvegliarmi, facendomi scostare dal muro, prendendomi per le spalle e implorandomi di reagire. Ha paura, non mi riconosce, urla, non riesce a capire, mi trova strana.
“Che ti è preso??”
Cerco di parlare ma la bocca è paralizzata, immobile, non riesco a fare nulla se non fissare il suo viso. Com’è bella mia sorella, ha gli occhi verde smeraldo con quelle pagliuzze dorate che la fanno tanto somigliare ad un gatto, le labbra carnose piegate in una smorfia di pianto e le guance rosse, sembra Biancaneve.
Da piccola la invidiavo così tanto, aveva tanti amici; tutti le volevano bene e tutti avevano paura della sorella maggiore, Andrea, un maschiaccio già a cinque anni, con lo skateboard a dieci e le prime fratture a dodici; il primo bacio Gì lo ha dato a quindici anni ad un certo Nicholas Di Giovane, biondo occhi castani, dolce come pochi; io il primo bacio l’ho dato a quattordici, a mio cugino durante il gioco della bottiglia; quando papà se ne andò avevamo lei sedici e io diciotto anni, iniziai a lavorare dopo il diploma, part time, in una gelateria del centro, Cool and Ice, guadagnavo abbastanza da poter pagare le bollette e per fare la spesa mentre Gì continuava gli studi e veniva mantenuta dallo zio Tommaso che ha avuto sempre un debole per lei; io mi sono diplomata in un liceo classico, lei ha frequentato un liceo scientifico; tutti i professori la compativano per la sua situazione familiare, d’altronde come biasimarli? Vedere una tale creatura innocente affrontare tali brutalità, fa nascere un istantaneo compatimento, soprattutto se quella creatura è Giorgia Esposito. Io intanto facevo straordinari per poter pagare le spese in medicine per la mamma, che andava sempre più allo sbando.
Dopo essere stata licenziata (addormentata sul lavoro) passai un brutto periodo, iniziai a bere e a giocare, a volte non tornavo a casa e mi ritrovavo a vagare per strada le sere intere. Una sera in particolare esagerai così tanto che svenni per cinque o sei ore; al mio risveglio mi trovai in un salone completamente estraneo, aveva un arredamento particolare, c’erano due tavoli da biliardo alle estremità della stanza con un tavolo da Blackjack al centro , un televisore al plasma appeso alla parete di fonte il divano su cui ero sdraiata e un piccolo angolo bar a sinistra.
Dalla porta alla mia destra entrò un uomo, aveva un che di familiare ma non ricordavo chi fosse, alto tarchiato e con la tipica espressione da Gangster.
“Ehi, Tesorino, allora sei sveglia.”
“C-chi sei?”
“Ma che buongiorno è questo? Prima riprenditi, ieri ti sei sbronzata come un camionista”
Mentre vagava per il salotto io cercavo di mettere a fuoco il posto in cui mi trovavo e di ricordarmi cosa fosse successo la sera prima, ma ero troppo stanca e avevo un sentore di emicrania.
“Posso sapere chi sei adesso?”
Si girò lentamente, con un sorriso malizioso incorniciato da baffi nerissimi.
“Sono Michael Finnegan, e ti ho salvato la vita mia dolce donzella, tu invece sei?”
Non mi fidavo di quell’uomo, aveva qualcosa che non quadrava, forse gli occhi  o i capelli rasati a zero oppure quell’antipatica e minacciosa cicatrice alla base della gola, qualcosa in lui mi consigliava di non fidarmi.
“Oh, andiamo, perché non ti fidi di me? D’altronde, se avessi voluto ucciderti, lo avrei fatto mentre dormivi, no?”
Non aprii bocca.
“Va bene, allora ti chiamerò…” fissò la mia felpa sorridendo divertito, io abbassai gli occhi e vidi la caricatura del coniglio della play-boy, con una canna tra le labbra circondato dalla scritta “Siamo figli di Maria”.
Mi fissò di nuovo e sorrise, malizioso.
“Bunny, ti piace?”
Tacqui, osservandolo pallida in viso.
“Beh, a me piace la tua felpa e mi piaci tu, ma soprattutto, mi piace la tua abilità nel Blackjack. Chi ti ha insegnato?”
“Mio padre.”
“Oh, allora ha tutta la mia gratitudine, senza te non so cosa farei. Quindi arrivo al punto Bunny, mi serve il tuo bel faccino, il tuo corpo mozzafiato e la tua bravura al tavolo verde per recuperare alcuni debitucci sul mio conto. Avrai una ricompensa, ti divertirai senza bisogno di girare nei bar malaticci di questa città, sarai una principessa. Che ne pensi?”
Solo in quel momento ricordai chi era, lo avevo visto un bel po’ di volte al tavolo del bar dove andavo tutte le sere, dopo il liceo, mentre perdeva una mano dopo l’altra, e gli altri si facevano beffe di lui; ma ricordo anche che alcune voci raccontavano che prima era un campione imbattuto, famoso in tutta Europa. Purtroppo però, anche i più grandi cadono, interruppe infatti la sua carriera a causa di un cancro al pancreas. Dopo essere guarito ritornò al tavolo, ma non era più come prima, era poco allenato e, una partita dopo l’altra, perse tutta la sua fama insieme alla sua famiglia e i soldi. All’epoca credevo sarebbe stata una buona idea aiutarlo, ma non gratis. Così mi venne un’idea che avrebbe salvato lui e me.
“E io cosa guadagno?”
Rise incontrollato, sbattendo ripetutamente la mano sulla coscia, piegandosi in due dalle risate.
“Oh, Bunny, non sai quanto mi piacevi prima, adesso sono praticamente pazzo di te”
Ammutolii, aspettando una risposta.
Quando si riprese dal suo attacco di risa tornò serio, e rifletté per alcuni minuti.
“Facciamo così, più è alta la somma che vinci, più aumenta la percentuale di contributo che avrai. Così va bene?”
Ci pensai, di solito vincevo anche più di ventimila euro al banco, quando ero particolarmente annoiata addirittura tremila, se mi impegnavo seriamente avrei raggiunto prezzi esorbitanti.
“Okay, ci sto.”
“Così mi piaci, Bunny. Andremo molto d’accordo noi due, sai?”
Iniziammo così, la nostra collaborazione. Rispettando un tacito patto: lui provvedeva ai documenti falsi per farmi giocare, io giocavo al mio meglio, distraendo i giocatori con le mie mise e rubandogli le fiches senza tregua.
Dopo solo tre mesi insieme a Mike pagai tutti i debiti di mia madre e di Gì, conservando i soldi che rimanevano su un conto corrente per le emergenze.

Un giorno Mike mi chiamò con una novità, una cattiva nuova.
“Bunny” ormai avevo preso l’abitudine ad essere chiamata così, non volevo dirgli il mio vero nome, e così mi facevo chiamare Bunny
“Bunny, c’è un problema. Devi venire subito.”
“Che tipo di problema?”
“Ne parliamo da me.”
Allora presi l’auto e mi ritrovai, in meno di mezz’ora, nella modesta casa di Mike.
Entrai nel salone da gioco, quello dove lui mi portò la prima volta che lo vidi, ci sedemmo sul divano, quel divano, e bevemmo un bicchiere di whiskey.
“Ecco, devi lavorare di più, non mi bastano più le vincite mensili.”
“Ma, Mike, lavoro quattro volte al mese e ti procuro tremila euro a vincita! Come non può bastare?”
“Non bastano, voglio di più.”
“Beh, allora anche io voglio di più”
E fu lì che iniziò il mio inferno, da quel sorriso beffardo, da quel sorriso che diceva ‘sono più furbo di te, non mi sfuggirai’.
“Oh, davvero? Io credo non lo vorrai, dopo queste.”
Cacciò, da una busta gialla, dei documenti.
Erano i prestiti che mia madre fece anni fa’, erano cifre accecanti, prestiti di cui non sapevo nulla, prestiti ancora non saldati.
“Ecco, se non fai quello che ti dico tua madre se la vedrà brutta con i tipi a cui deve queste somme altissime; se, invece, stai a sentire ciò che ho da dirti, metterò una buona parola alla gente a cui deve questi soldi. Allora, cosa ne pensi?”
Da quel giorno lavorai per Mike, tutte le volte che chiamava, anche la domenica; iniziò a farmi vestire più indecentemente delle altre volte, e altre ancora si fingeva il mio ragazzo standomi appiccicato per suggerirmi le mosse quando ero molto stanca da non distinguere più i quadri dai cuori.
Tutto finì una sera, eravamo in un bar in periferia per l’ultima partita contro il vecchio boss di Mike, entrò la polizia e fece un’ispezione del locale.
Si avvicinò al banco e perquisirono tutti i presenti.
“Chi, tra voi, è Michael Finnegan?”
Mike restò fermo per un minuto buono, poi scattò di lato mi prese per il polso e mi trascinò via, correndo.
“INSEGUITE QUELL’UOMO!”
Corremmo per mezz’ora, quando ci trovammo ad un incrocio circondati dalla polizia; Mike tentò di fuggire, ma lo presero in tempo.
Quando si avvicinarono a me, fecero tante domande e mi dissero che sarei dovuta andare in centrale, per smentire la mia partecipazione al giro di droghe che gestiva Mike a mia insaputa.
Venimmo entrambi portati al distretto dove chiamarono mia madre, che mi venne a prendere in auto, nonostante fossero le due del mattino. Il giorno dopo chiamammo un avvocato.
Dopo il lungo processo, Mike finì in galera e i documenti dei prestiti svanirono, insieme ai tipi a cui bisognava restituirli…
“Andrea, ti prego svegliati”
Apro gli occhi lentamente, sono distesa sul letto di Gì e dalla finestra entra una luce abbagliante
“Ehi, che spavento mi hai fatto prendere!”
Ho un mal di testa pulsante, insistente, e un mal di schiena che mi spezza in due.
Cerco di alzarmi e mi gira tutto intorno, credo di essermi addormentata per un bel po’.
“Ma quanto ho dormito?”
“Sei svenuta da dodici ore quasi”
Svenuta!? Da dodici ore?!
“Ma che ore sono?”
“Oh, sono le sette. Oggi salto i corsi per restare con te. In effetti mi fai un piacere…oggi avevo biologia e non mi andava proprio”
“Mi spiace per te, ma io sto bene e vado a lezione.”
“Aspetta…mi spieghi cos’è successo?”
Non posso, Gì perdonami ma non posso.
L’ho sempre affrontato io questo problema e adesso non voglio che i miei errori ricadano su di te.
“Nulla di che. Troppo stress.”
“Andrea, eri sconvolta non stanca. Si può sapere che succede?”
Scendo dal letto per mettere un po’ di distanza tra me e lei, non riesco a parlarle. Inizio a scavare nel cassettone della sua camera, prendo una camicetta e un paio di jeans mentre raccolgo le Converse da terra e le porto in bagno.
“Allora?”
“Ma niente, adesso scusa mi devo preparare”
Allaccio le scarpe dopo aver fatto una doccia rinfrescante, prendo la borsa in salone e mi precipito alla porta
“Non vuoi dirmi che è successo?”
Resto a fissarla per un po’, è preoccupata e non sa gestire situazioni simili, è smarrita.
 “Non mi sono sentita bene, tutto qui. Ora vado, a dopo!”
   
 
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