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Autore: Princess of the Rose    31/10/2014    2 recensioni
1961
Come erano passati dall’aver posto fine alla guerra più tremenda della storia, che aveva lasciato cicatrici ancora sanguinanti in tutte le nazioni, a convivere nuovamente col terrore che ogni minima azione mal interpretata potesse portare nuovamente il mondo sul rischio del baratro? Come e perché era successo a neanche una generazione di distanza? Dove era stato il loro errore?
Genere: Angst, Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: 2p!Hetalia, Nord Italia/Feliciano Vargas
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Era stato il ticchettio incessante della pioggia che batteva sul vetro della finestra a svegliarlo dal suo sonno disturbato. Italia aprì faticosamente gli occhi, completamente esausto nonostante la lunga dormita, e rimase per qualche minuto immobile, cercando di trovare le forze per potersi almeno mettere seduto e bere qualche sorso d’acqua dalla bottiglia posta sul comodino accanto al letto; ma il suo corpo sembrava rifiutare qualunque ordine impartito dal suo cervello, e dopo l’ennesimo tentativo di muovere qualcos’altro oltre le dita decise di rinunciare e rimanere sdraiato ancora per qualche minuto, cercando di non badare al braccio che gli aveva fatto da cuscino per tutto il pomeriggio, al respiro, caldo e umido, che gli solleticava leggermente la nuca, e alla mano che gli massaggiava con dolci movimenti circolari il ventre ancora indolenzito dalla spropositata quantità di gelato che aveva mangiato a pranzo nel tentativo di consolarsi.
Deglutì lentamente e si mosse fino ad assumere una posizione fetale, soffocando un lamento di dolore provocato da un’improvvisa fitta allo stomaco. Trattenne il respiro quando sentì la persona dietro di lui spostarsi con delicatezza, forse perché convinta che fosse ancora addormentato e con l’intenzione di non disturbarlo. Richiuse subito gli occhi, non volendo incominciare una discussione su quanto accaduto a pranzo, e rabbrividì quando avvertì il fiato caldo dell’altro sulla guancia; dopo qualche istante, sentì una mano sollevargli delicatamente la testa e poggiarla sul cuscino e il cigolare del letto quando l’altra persona si alzò, le coperte gli vennero rimboccate fino a sotto il suo mento, sistemate in modo da tenerlo più al caldo possibile; le dita dell’altro, fredde e leggermente secche, gli carezzarono con dolcezza la fronte, e scostarono alcune ciocche di capelli che erano scese sul suo viso; sentì infine i passi dell’altro dirigersi verso la porta, il rumore della maniglia che veniva abbassata, un lieve cigolare, e infine il rumore della porta che si chiudeva.

Veneziano riprese a respirare solo in quel momento; con lentezza si voltò verso l’uscio della stanza e rimase a fissarlo per qualche attimo prima di dirigere lo sguardo verso il soffitto bianco, leggermente ingiallito a causa dell’umidità in alcuni punti. Al rombo di un tuono istintivamente tirò le coperte fin sopra la testa, chiudendosi in posizione fetale e singhiozzando pateticamente, mentre davanti ai suoi occhi passavano le immagini di quella maledetta e dolorosa guerra che sembrava proprio non voler abbandonare i suoi incubi e lasciarlo finalmente in pace. Ma visto quello che era accaduto nelle ore precedenti, forse poteva permettersi di piangere senza sentirsi patetico, stupido e inutile, e semplicemente sfogare tutta la tensione accumulata.

Sembrava un incubo pronto a diventare realtà: quel boom, quell’enorme fungo rosso che avrebbe dovuto cancellare l’umanità con le sue onde di calore, l’ultimo e definito atto dell’ennesima guerra scoppiata per quelli che sembravano futili motivi se messi a confronto col valore delle tante vite spezzate, era di nuovo sul punto di scoppiare. Tutta la tensione accumulata in quei mesi, tutte le minacce più o meno velate che si erano rivolte le parti in causa, tutta la paura e l’angoscia – e, anche se mai lo avrebbe ammesso, la speranza- che fosse l’inizio della fine: un’arma a cui era stata tolta la sicura, pronta ad uccidere non appena fosse stato premuto il grilletto. Un alto muro a dividere Berlino a metà, una striscia di cemento innalzata da neanche un giorno per impedire lo spopolamento della Germania dell’Est*.

L’italiano ispirò lentamente, sperando così di calmare il dolore – aumento spropositatamente da quando l’altro aveva smesso di massaggiargli lo stomaco - sempre più lancinante, dovuto più alla tensione che non al gelato mangiato quel pomeriggio. Tutto inutile: si girò sul fianco, abbracciò il cuscino e ci affondò dentro la testa, soffocando un lamento. Sussultò quando sentì un profumo intenso – un misto tra acqua di colonia e sudore - provenire dalla federa, e per poco non urlò dalla frustrazione. Diede un pugno al materasso, disperato, e affondò ancora di più il viso nel cuscino, ancora incapace di comprendere come e perché tutta quella situazione fosse degenerata fino a quel punto.

Come erano passati dall’aver posto fine alla guerra più tremenda della storia, che aveva lasciato cicatrici ancora sanguinanti in tutte le nazioni, a convivere nuovamente col terrore che ogni minima azione mal interpretata potesse portare nuovamente il mondo sul rischio del baratro? Come e perché era successo a neanche una generazione di distanza? Dove era stato il loro errore?
Com’era frustrante quella situazione, soprattutto pensando che tutto questo poteva essere evitato già una trentina di anni prima, se la sete di vendetta e di rivincita non avessero guidato le decisioni di Francia e di Germania.
Purtroppo, la storia non si fa né con i ‘se’, né con i ‘ma’, questo lo ha imparato da molto tempo. L’unica cosa da fare era andare avanti, nonostante la paura, nonostante la consapevolezza – la maledetta consapevolezza - che gli umani non avrebbero imparato mai dai loro errori, e che tutto si sarebbe ripetuto in un circolo vizioso di distruzione e lacrime fino a quando sarebbe giunto l’ultimo giorno della sua esistenza; allora avrebbe potuto finalmente dire addio a quella stancante vita di nazione, fatta di pochi affetti e tanta, troppa solitudine e diffidenza nei confronti di un mondo che ce la mette tutta per sembrare cattivo ai suoi occhi. Come, per esempio, quel muro che adesso divideva Berlino in due, che impediva ai cittadini della Germania Est di varcare il confine e rifugiarsi ad Ovest; un’idea di Russia, il quale non poteva permettere che il suo modello comunista, la perfetta alternativa al rozzo e corrotto mondo capitalista esportato da America, venisse infangato dall’esperienza della gente affamata, che doveva aspettare ore in fila per poter prendere la propria razione di cibo e di averi, costretta ad emigrare mentre chi stava al potere conduceva uno stile di vita molto più vicino al modello capitalistico che dicevano di odiare così tanto.
Ora c’era una striscia di centosei chilometri di calcestruzzo che impediva qualunque collegamento tra le due Germanie: non si poteva attraversare il confine, non si poteva chiamare i propri cari che stavano dall’altra parte, a momenti non si poteva neanche vedere quel muro senza venire crivellati dalle guardie sovietiche.

<< Italien, sind Sie schon wach? >>
L’italiano sussultò, per poi alzare lo sguardo verso la porta. Non si era accorto del ritorno dell’altra nazione; non appena il suo sguardo si posò su di essa, il suo cuore si strinse in una morsa di sensi di colpa e di disperazione. Riuscì tuttavia a formare un debole sorriso con le labbra, e a rispondere con un tremante: << Mi sono svegliato adesso. >> prima di mettersi seduto, avvolto nelle pesanti lenzuola, e prendere la tazza di fumante tè al limone e i biscotti magri  portigli dall’altro.

<< Come va lo stomaco? >>

<< U-Un po’ meglio, ve. >> Veneziano sorseggiò lentamente la bevanda calda, per poi intingere un biscotto a mordicchiarlo con poca voglia di mangiare. Il dolore alla pancia non era diminuito per niente.

L’altra nazione annuì lentamente, evidentemente poco incline a credere alle sue parole.

<< Non ho messo lo zucchero nel tè perché credevo potesse farti male. Se vuoi te ne posso portare un po’.  >>

<< P-Preferirei del miele. >> mormorò l’italiano, per poi poggiarsi contro la testiera del letto e continuare a mangiare di controvoglia il biscotto. L’altro annuì, e si alzò per poter andare a prendere quanto gli era stato chiesto.

Veneziano inspirò ed espirò; lentamente, per evitare che il groppo che gli bloccava la gola si sciogliesse in un pianto senza fine. Per aiutarsi, si strinse ancora di più dentro le coperte e bevve un altro sorso di tè, ignorando i crampi alla pancia.

Quella situazione era dolorosamente ai limiti dell’assurdo. Ricacciò indietro le lacrime, prese il barattolo portogli dall’altra nazione – un brivido percorse la sua schiena quando le sue mani toccarono accidentalmente quelle grandi e callose dell’altro – e mise nel tè due cucchiai abbondanti di miele, cercando in ogni modo di evitare il contatto visivo con gli occhi violacei  che lo stavano insistentemente fissando.

<< Ti senti meglio? >>

<< La pancia mi fa meno male. >>

<< Non intendevo quello. >>

Veneziano sospirò debolmente, per poi voltarsi verso la finestra; sapeva che, dietro la palazzina che gli stava di fronte, c’era la prova fisica della “Cortina di Ferro”, come l’aveva chiamata il capo di Inghilterra**; un muro alto tre metri e sessanta centimetri, con sopra un folto cespuglio di fil di ferro, probabilmente sorvegliato da soldati sovietici armati con l’ordine di sparare a chiunque avesse tentato il contatto con l’altra parte – e, come a sottolineare questo aspetto, il rumore di alcuni spari riecheggiò nella città.
Un muro che segnava la competizione tra Russia ed America, la tensione tra la parte di mondo che aveva scelto il capitalismo e quella che aveva scelto il comunismo, un vulcano addormentato pronto a svegliarsi al minimo sussulto.
Un muro che gli impediva di comunicare con il suo migliore amico, proprio nel momento in cui aveva deciso di raccogliere tutto il suo scarso coraggio e provare a parlargli, per recuperare un poco di quell’amicizia a lui tanto cara e che la guerra aveva crudelmente reciso prima che potesse esserci un chiarimento.

Una mano forte – come la sua – e leggermente callosa a causa del lavoro – come la sua – si posò sulla sua spalla con un tocco quanto più delicato possibile – ecco, questa era una differenza: lui era troppo goffo nel contatto fisico per poter essere così gentile – e lo costrinse a voltarsi. Veneziano chiuse gli occhi, e respirò a fondo per cercare di calmarsi; poi li riaprì, e per poco non si mise ad urlare alla vista di quegli occhi violacei, della pelle particolarmente pallida e della cicatrice che sfigurava la guancia sinistra dell’altro – di come quel viso fosse tremendamente simile al suo.

<< Italien? >> la voce dell’altro lo fece rabbrividire, provocandogli anche una certa nausea. Era inutile: per quanto si sforzasse, non sarebbe mai riuscito ad associare quel corpo – fatto come il suo: di uomini, di donne, di bambini, l’incarnazione di un’ideale che li univa tutti – a Germania.

<< Perdonami, >> mormorò l’italiano, chiudendo gli occhi, << sono ancora stanco. >>

<< Vuoi dormire un altro po’? >>

<< No, non ho sonno. >> Veneziano sorrise debolmente, continuando poi a bere a piccoli sorsi il tè e a mangiare un paio di biscotti, senza che lo sguardo violaceo dell’altra nazione lo lasciasse neanche per un secondo.

Calò il silenzio, interrotto solo dal ticchettio persistente della pioggia e da qualche tuono. Il Settentrione non aveva la ben che minima voglia di parlare, e il padrone di casa sembrava ben disposto a voler rispettare il suo silenzio nonostante la voglia apparente di iniziare una conversazione. Da un lato gli faceva pena: fin da quando si erano conosciuti, l’altra nazione aveva cercato di fare amicizia con lui, probabilmente perché gli sembrava un viso familiare e perché la solitudine del suo isolamento iniziava a stargli stretta, ma Veneziano si era aperto con molta riluttanza e controvoglia.  La prima volta che lo aveva visto, seduto dall’altro capo del lungo tavolo della sala del consiglio di ***, con un’espressione neutra sul volto, lo aveva scambiato per Germania, e il conflitto di emozioni che gli aveva tempestato il cuore – felicità, rabbia, tristezza, sollievo, preoccupazione, disgusto, - per poco non lo aveva fatto svenire; aveva creduto che Prussia fosse andato con Russia, salvandosi dalla morte incarnando la parte orientale del paese ora sotto il giogo sovietico, mentre Germania avrebbe dovuto rappresentare la parte occidentale; quando aveva provato a parlargli, quei lievi cambiamenti che subito aveva immediatamente notato – gli occhi diventati di un viola scurissimo, e capelli ancora più biondi, e la pelle pallidissima, nonché una cicatrice sulla guancia che aveva ricondotto in un primo momento ad una qualche ferita causata dal conflitto appena concluso – non gli avevano dato pensiero: non era raro che una nazione cambiasse il proprio aspetto, anche radicalmente, dopo eventi disastrosi; ma poi, quando gli si era timidamente avvicinato, chiedendogli come stava con voce tremante a causa del pianto appena trattenuto, l’altra nazione lo aveva guardato interrogativamente prima di voltarsi ostinatamente dall’altra parte. Veneziano, in un primo momento, era rimasto ferito da quel comportamento, ma aveva pensato che dopo il voltafaccia del 1943 forse quel silenzio ostinato era la punizione che si meritava; poi Francia era entrato nella stanza, portando un vassoio di caffè caldo e alcuni biscotti, e aveva sussultato quando li aveva visti prima che un triste cipiglio gli ombrasse il volto; dopo aver poggiato tutto quanto sul tavolo, lo aveva preso per mano, portandolo fuori dalla stanza sotto lo sguardo mesto del tedesco, aveva chiuso la porta, infine, gli aveva detto quanto era accaduto in quei mesi, già pronto con un abbraccio e con parole consolatorie per poter calmare il pianto isterico che di lì a poco lo avrebbe sconvolto.

Prussia era definitivamente scomparso; Germania, troppo debole per potersi opporre a qualunque decisione presa sul suo conto, era stato portato via da Russia, a est, al momento della divisione del paese; l’uomo dentro la sala del consiglio altro non era che un nuovo essere, che rappresentava tutta la parte occidentale: a conti fatti, Germania Ovest, una neonata nazione adatta ad eseguire i piani machiavellici del capo di America.

Germania prigioniero di Russia: Veneziano aveva avuto un crollo nervoso solo a sentire quelle parole che andavano oltre qualunque sua immaginazione. Francia aveva dovuto portarlo in un’altra stanza e stare con lui per svariate ore, facendogli praticamente saltare la riunione, a dirgli di calmarsi, che andava tutto bene, che anche lui era rimasto sorpreso da quell’inaspettata svolta negli eventi, ma che non c’era nulla da temere e che presto tutto si sarebbe risolto. Veneziano aveva accettato il conforto di quelle parole, ma non aveva creduto a nulla di quanto dettogli. E visti gli eventi successivi, aveva fatto bene.

Da quel giorno erano passati una decina di anni, e non aveva mai trovato il coraggio di andare da Germania per vedere se almeno stesse bene o se avesse bisogno di qualcosa: troppa la paura del rifiuto e dell’umiliazione, troppo delicata la situazione nel suo paese perché potesse allontanarsi.
Poi, una volta stabilizzata l’Europa, con una ripresa economica ormai avviata, aveva pensato che fosse giunto il momento di provare a contattare il suo vecchio amico. Anche se con timore e molta reticenza, aveva chiesto all’Ovest tedesco di ospitarlo per qualche giorno – e come si erano illuminati gli occhi di quella giovane nazione: gli aveva poi spiegato che quella era la prima volta che qualcuno gli rivolgeva la parola per cose che non riguardavano affari internazionali – e questi aveva accettato. Era partito la mattina che erano state gettate le basi del muro: quando era sceso dall’aereo, era stato appena proclamato l’embargo di Berlino Ovest, e si era praticamente trovato prigioniero in quel paese. Aveva saputo della situazione quando era arrivato a casa del tedesco – la vecchia casa di Germania, ora annerita e un po’ polverosa all’interno perché l’altra nazione non era così fissata con le pulizie come il suo predecessore, e probabilmente aveva pulito solo per il suo arrivo: per la prima volta, dopo svariati anni, ebbe un nuovo crollo nervoso.
Ovest aveva fatto di tutto per calmarlo: lo aveva portato in soggiorno e lo aveva fatto sedere sul divano, gli aveva portato un bicchiere di acqua fresca e aveva ascoltato fino alla fine una serie sconclusionata di parole che uscivano dalla sua bocca senza che il suo cervello riuscisse a metterle in ordine, tenendogli saldamente le mani tremanti; dopo che era riuscito a calmarlo un poco e a fargli bere tutto il bicchiere d’acqua, era uscito per una decina di minuti, il tempo di prendere una vaschetta di gelato tutta per lui - << Spero di aver preso i gusti giusti. >> gli aveva detto, un po’ imbarazzato nonostante l’evidente preoccupazione, mentre apriva la confezione contenete pistacchio, crema e stracciatella – porgendogliela assieme ad un cucchiaio. Veneziano aveva mangiato tutto quanto, continuando a piangere sommessamente e mormorare frasi sconnesse su quanto Dio lo odiasse, perché non c’era altra spiegazione per le continue disavventure che lo perseguitavano dalla nascita; lentamente, era riuscito a riprendere il controllo di sé, mentre Ovest continuava ad ascoltarlo in religioso silenzio, massaggiandogli la schiena.
E infine era crollato contro il petto dell’altra nazione, senza sentire imbarazzo tanto era drenato delle proprie energie, preferendo immaginare che al suo posto ci fosse Germania, anche se questo gli provocò una nuova crisi di pianto; quasi gli sembrava di sentire la sua voce, piena di timorosa vergogna, mentre tentava di vincere la sua reticenza al contatto fisico e di abbracciarlo per poterlo consolare e dirgli che era un idiota patentato, che non aveva motivo di preoccuparsi perché sarebbe andato tutto bene.
Effettivamente, un abbraccio ci fu: Ovest aveva avvolto le braccia attorno alle sue spalle, delicatamente, e lo aveva lasciato singhiozzare ancora contro la sua spalla per un tempo indefinito, fino al momento che una fitta allo stomaco aveva fatto piegare l’italiano in due dal dolore; a quel punto lo aveva portato nella stanza degli ospiti e lo aveva fatto stendere sul letto, coprendolo con le lenzuola; aveva fatto poi per andarsene, ma Veneziano lo aveva afferrato per la manica della camicia e lo aveva praticamente supplicato di restare, la mente annebbiata da una lieve febbricciola dovuta alla spossatezza. Non era pienamente in sé quando gli aveva fatto quella richiesta, ma Ovest aveva annuito con un’espressione indecifrabile sul volto, e si era steso accanto a lui, massaggiandogli piano lo stomaco sperando di potergli alleviare il dolore..

E ora, eccolo lì, avvolto nelle pesanti coperte di un letto su cui si era sempre rifiutato di dormire quando Germania abitava in quella casa, a sorseggiare un tè ormai freddo mentre Ovest faceva vagare lo sguardo nella stanza, evidentemente combattuto. Certo le cose non erano andate come si era aspettato quel pomeriggio: dal fare un pranzo leggero per poi prendere la metropolitana*** e raggiungere la parte orientale di Berlino per incontrare l'altro Germania, e si era invece ritrovato a prendersi cura di un Settentrione italiano ormai mentalmente esaurito. Forse avrebbe dovuto dirgli qualcosa - infondo, lo aveva ospitato a casa sua e lo aveva accudito senza battere ciglio: ma cosa? “Ehi, perdona il crollo nervoso ma non mi sono ancora ripreso dalla guerra e sono anni che non riesco a dormire decentemente, e ora so che il mio migliore amico, verso cui ho immensi sensi di colpa misti a rabbia per quello che mi ha fatto durante la suddetta guerra, è tenuto prigioniero in un sistema che so per sentito dire rasenta lo schiavismo mentre io riesco finalmente ad avere una ripresa economica dopo decenni di miseria, e adesso io non gli posso più parlare per poter chiarire e lui è dall’altra parte di un muro di cemento, completamente solo, a lanciarmi tutte le maledizioni di questo mondo perché io so  che pensa che la sua sconfitta sia stata causata dal mio volta faccia, non me lo ha detto ma lo so. E scusa se praticamente la tua prima vera conversazione che non discuteva di politica si è rivelata uno sfruttamento da parte mia per farmi stare a scrocco a casa tua. Che devi farci? Sono inutile, lo sanno tutti.”

Italia sussultò quando sentì qualcosa di freddo e leggermente calloso rimuovere le lacrime dalla sua guancia; Ovest ritirò subito la mano, mormorando un << Scusa. >> mentre di voltava verso il muro, completamente rosso in  viso.

<< N-No, non fa niente. >> disse l’italiano, usando il lembo del lenzuolo per asciugarsi la faccia, per poi fare un lungo respiro per calmarsi sperando di non scoppiare a piangere di nuovo.

Ovest rimase in silenzio per qualche istante, imbarazzato: << Non ho mai visto qualcuno piangere così tanto. >>

<< V-Ve, perdonami. S-Sono solo molto… Stanco. >> cercò di giustificarsi, per poi nascondere il viso dietro la tazza.

<< Non è una cosa di cui vergognarsi. >>

<< Scusa. >>

<< E di che? >>

<< Non lo so, scusa. >> ripeté Veneziano, maledicendosi per i singhiozzi che sembrava proprio incapace di riuscire a trattenere.

<< Non piangere, dai, >> Ovest si sedette vicino a lui, e posò una mano sulla sua spalla, sorridendogli, << o meglio, se vuoi piangere perché ti fa sentire meglio fai pure, cioè, non è che mi da fastidio. Forse è meglio che dormi un altro po’. Vuoi che ti faccia dell’altro tè? >>


<< No. >> l’italiano tirò su col naso, stringendo spasmodicamente la tazza. Un po’ era grato all’altra nazione per la considerazione mostratagli, ma dall’altro i suoi sensi di colpa non facevano che aumentare. Non si meritava tutta quella gentilezza

<< Che… Che posso fare? >>

<< Uh? >>

<< Per farti stare meglio. Che posso fare? >> chiese Ovest, guardandolo negli occhi con la sincera speranza di potergli in qualche modo essere utile; Veneziano sentì tutto il gelato mangiato a pranzo tornare su.

<< Hai già fatto abbastanza. >> rispose, per poi voltarsi verso la finestra, incapace di sostenere quello sguardo violaceo.

<< È solo che... Non so come metterlo a parole, ecco… insomma, >> sentì il tedesco sospirare pesantemente, probabilmente imbarazzato – e non poté non ripensare a tutte le volte che Germania era solito sospirare, per vergogna o per esasperazione nei suoi confronti - << ecco… non mi, piace, vederti piangere, non so perché. >>

Il Settentrione sussultò leggermente, incrociando lo sguardo dell’altro attraverso il riflesso sul vetro della finestra: come aveva immaginato, Ovest era piuttosto imbarazzato, le guance leggermente rosse, ma non aveva abbassato gli occhi. Anche se vagamente, gli ricordava la volta che Germania aveva accettato di diventare suo amico, poco tempo dopo la fine della Grande Guerra, quando ancora non c’erano disgraziati propositi di vendetta ad oscurargli la mente.

<< È… Carino, da parte… tua, >> disse infine l’italiano, deglutendo lentamente per ricacciare la nausea e il pianto, << p-però, n-non ti dovresti preoccupare. I-Io starò bene. Ho solo bisogno di tempo. È… sempre stato così. >>

Ovest annuì, ma non sembrava per niente convinto. Un ulteriore indefinito tempo di silenzio imbarazzante fu evitato quando si sentì il telefono della casa squillare. Il tedesco si alzò e velocemente andò in salone per rispondere,  lasciando l’italiano da solo. Questi posò la tazza sul comodino, e si risistemò sul letto cercando di non fare movimenti bruschi per non avere di nuovo fitte allo stomaco; si nascose sotto le coperte, cercando di tenersi più al caldo possibile, e per poter dormire un poco. Avrebbe dovuto pensare ad un modo per poter tornare in Italia al più presto, o di mettersi in contatto con Romano per fargli sapere che stava bene, ma era troppo stanco ed indolenzito per poter fare uno sforzo del genere.

Quando Ovest tornò nella camera trovò Veneziano sepolto sotto le coperte, già addormentato.
 

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*Il muro di Berlino venne innalzato per evitare i tedeschi residenti nella zona Est se ne andassero nella zona Ovest. I motivi dell'emigrazione sono vari: regime  opprimente, la Stasi, la miseria diffusa che cozzava con la ricchezza che si vedeva al di là del confine, ecc. Era uno smacco troppo grande per il modello comunista che l'URSS intendeva esportare.
**Churchill, primo ministro inglese negli anni quaranta e nei primi anni cinquanta, fu colui che coniò il termine "Cortina di Ferro" per indicare l'inasprirsi dei rapporti tra gli USA e l'URSS. Spesso viene erroneamente associato al muro di Berlino: l'espressione è del 1946, mentre il muro venne costruito nel 1961.
***Il modo più diffuso per poter passare da una parte all'altra di Berlino prima del muro era usare la metropolitana; nel momento in cui ci fu l'emigrazione verso Ovest, sembra ridicolo dirlo, ma molta gente raccogliava tutto quello che aveva, prendeva la metro, e si trovava a Berlino Ovest, pronta a stabilirvisi o a partite verso la Germania Ovest. Infatti, ancora di gettare le basi del muro e mettere il filo spinato, la prima cosa che fecero i soldati sovietici fu quello di interrompere le linee della metro che portavano a Ovest.


Ehm... che dire? Io ci provo a fare una nuova long ma... non prometto nulla, ecco.
La fic nasce da una piccola riflessione e una domanda "what if": e se 2pGermania fosse andato a rappresentare la parte Ovest mentre 1pGermania la parte Est con Prussia bello che caput? Si, so che ormai è confermato che Prussia abbia rappresentato la parte Est, ma ehi: si chiama what if apposta no?

Spero nei prossimi capitoli di suscitare tutti i peggiori feels del mondo, farò del mio meglio!

Alla prossima!
   
 
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