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Autore: vero_91    02/11/2014    2 recensioni
“Hawthorne, cosa...”
“Non voglio parlarne, Johanna” la interruppe subito Gale, spostandosi in fretta da sopra di lei.
“So riconoscere i segni di una tortura quando li vedo, Hawthorne” disse, mentre Gale si alzava dal letto e indossava la maglietta abbandonata sul pavimento poco prima.
Gale girò la testa di scatto, gli occhi grigi piantati nei suoi. “È passato, ora non ha più importanza”. Johanna sbuffò e scosse appena la testa, trattenendosi dal sottolineare l'ingenuità di quell'affermazione: per esperienza sapeva che quella è solo una bugia che ci si racconta per illudersi che il dolore, prima o poi, si affievolirà.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gale Hawthorne, Johanna Mason
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Fuoco e Cenere '
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Fino a quella sera Johanna non aveva mai notato le sue cicatrici. Le capitava ovviamente di vedere Hawthorne a petto nudo, ma per qualche strano motivo non aveva mai visto la sua schiena. Col senno di poi, cominciò a pensare non fosse solo un caso.
Le prime volte che avevano fatto l'amore, riuscivano a malapena a togliersi i vestiti: di solito si trovavano schiacciati su qualche superficie scomoda, con camicie mezze sbottonate e pantaloni abbassati. Nessuno dei due aveva idea del perché lo facessero così, come se stessero facendo qualcosa di illegale, un atto da consumare prima che qualcuno potesse scoprirli.
Gli ci vollero parecchi lividi e imprecazioni mormorate a mezza voce per convincersi ad arrivare al letto, come se quello fosse un territorio sacro, che solo le copie realmente tali possono profanare. Gale e Johanna non avrebbero mai ammesso di esserne degni.
Fu quando Johanna si aggrappò alla schiena nuda del ragazzo, che per la prima volta le sentì: leggeri rigonfiamenti sotto le sue dita, dove la pelle si era indurita. Immersa nel calore dell'eccitazione, ci mise qualche secondo a rendersi conto di cosa si trattasse: con le dita seguì esitante i tratti della cicatrice, intuendo poi con orrore che si diramava per tutta la schiena. Nel frattempo, nel buio della stanza, sentiva solo il respiro accelerato del ragazzo al suo orecchio destro, come se stesse aspettando una reazione.
Johanna gli posò le mani sulle spalle e allontanò i loro corpi, cercando il suo sguardo.

“Hawthorne, cosa...”

“Non voglio parlarne, Johanna” la interruppe subito Gale, spostandosi in fretta da sopra di lei.

“So riconoscere i segni di una tortura quando li vedo” disse, mentre Gale si alzava dal letto e indossava la maglietta abbandonata sul pavimento poco prima.

Gale girò la testa di scatto, gli occhi grigi piantati nei suoi. “È passato, ora non ha più importanza”. Johanna sbuffò e scosse appena la testa, trattenendosi dal sottolineare l'ingenuità di quell'affermazione: per esperienza sapeva che quella è solo una bugia che ci si racconta per illudersi che il dolore, prima o poi, si affievolirà.

“Gale...” tentò, ma lui fece un respiro profondo, come se si stesse sforzando di mantenere la calma. “Johanna, cosa ti sfugge della frase - non voglio parlarne? - Da quando poi sei diventata la mia confidente? Non pensavo che venire a letto con te mi avrebbe dato questi privilegi”.

Johanna aveva sempre riso in faccia alle persone che le dicevano che a volte le parole possono ferire più di una spada, ribattendo che evidentemente non avevano mai provato la sensazione di un'ascia piantata nel petto; in quel momento però, il dolore che sentì fu simile a quello di una pugnalata alle spalle, e Johanna per questo lo detestò. Si alzò di scatto dal letto e si mise di fronte a lui, nuda, decisa a ricambiare con la stessa moneta.

“Io non ho bisogno di privilegi, Hawthorne. Ciò che voglio me lo prendo e basta, te l'ho già detto. E tieniti pure il tuo passato, per quel che me ne importa”.

Non si prese nemmeno la briga di raccogliere i suoi vestiti sparsi per la stanza, si limitò a girarsi e ad andarsene. Quando fu sulla porta però non riuscì a trattenersi: “Non sei l'unico ad avere delle cicatrici qui, Hawthorne”.

Sentì la porta sbattersi alla sue spalle, e pensò che quell'immagine era piuttosto adatta. Johanna si era illusa che la loro relazione avesse fatto un passo avanti, ma l'unica cosa che aveva ottenuto era una porta sbattuta in faccia.

 

Un pomeriggio, quando Johanna tornò a casa dalla falegnameria, trovò Gale seduto in cucina, mentre puliva con un asciugamano bagnato la sua spalla sanguinante.

La ragazza buttò a terra lo zaino da lavoro e si avviò a grandi passi verso di lui. “Che diavolo ti è successo?”

“Niente di grave, c'è stato un crollo in un vecchio palazzo che stavamo ispezionando, e una tegola mi ha colpito di striscio la spalla”.

“E perché non sei andato in ospedale a farti mettere dei punti? Ti stai dissanguando!” disse, guardando l'asciugamano macchiato di rosso.

Gale inarcò un sopracciglio. “Da quando sei diventata una donnicciola svenevole alla vista del sangue?”

“Vaffanculo, Hawthorne. Se c'è una donnicciola qui, quella non sono di certo io”.

Per avvalorare la sua affermazione Johanna si avvicinò al ragazzo, spostandogli l'asciugamano con cui si tamponava la ferita; gli toccò anche la zona limitrofa, per quantificare i danni.

“Non sembra essere profondo”, concluse.

“Ti ho detto che non era nulla”.

“Però deve essere disinfettata. Forza togliti la maglia”.

Gale la fissò per un attimo, titubante. Sul viso di Johanna si dipinse un ghigno.“Chi è ora la donnicciola?”

Gale alzò gli occhi al cielo e lentamente si tolse la maglia, nascondendo un'espressione di dolore.

Johanna guardò con curiosità la cassetta del pronto soccorso posata sul tavolo. “Non sapevo ne avessimo una” disse, afferrando una batuffolo di cotone e spremendoci sopra un po' di disinfettante.

“Da quando ti sei trasferita qui, ho pensato fosse utile averne in casa una, sai per sicurezza” rispose il ragazzo con un sorrisetto ironico.

Johanna mise il cotone sulla ferita, premendo con più forza del necessario.

“Ahia!”

“Così impari a fare lo spiritoso, e ora stai fermo”.

Gale iniziò a pentirsi di non essere andato all'ospedale, ma al Distretto 13 ci aveva passato così tanto tempo che pensava di averne avuto a sufficienza per una vita intera.

Per fortuna, il tocco di Johanna si dimostrò più gentile ed esperto del previsto.

In realtà Johanna stava morendo dalla voglia di chiedergli di nuovo spiegazioni sulle sue cicatrici, ora perfettamente visibili. Ovviamente non le aveva dimenticate, ma dopo quella notte, nessuno dei due ne aveva più fatto parola; avevano fatto pace come al solito, prima urlandosi contro per motivi futili e poi facendo sesso. Sesso, non amore, come Gale le aveva ricordato quella notte e Johanna era costretta a correggere questo dettaglio nella sua mente più di quanto volesse ammettere.
Erano passati circa tre mesi da quella volta, e Johanna non aveva più introdotto l'argomento, spaventata dall'ennesimo rifiuto. Ma ora le aveva lì di fronte, e alla luce del sole apparivano ancora peggio di quel che ricordava. Non le ci volle molto per capire che erano segni di frustate, e lo stomaco le si strinse in una morsa quando si accorse di non riuscire a contarle tanto erano numerose.

“... Johanna?” fu il tocco della mano di Gale sulla sua a riportarla alla realtà.

“Passami quel cerotto cicatrizzante” disse, distogliendo lo sguardo e dandosi mentalmente della stupida: Hawthorne era di fronte a lei, sano e salvo, e quelle erano solo cicatrici, non potevano più fargli male, ma Johanna non poteva fare a meno di sentirsi infuriata. Un pensiero irrazionale le si formulò nella mente: se ci fossi stata io non l'avrei mai permesso. Poi però, si ricordò che in vita sua aveva permesso che accadessero cose ben peggiori di quelle.

“Dalla tua espressione sembra che io stia per morire a breve”. La ragazza alzò lo sguardo dal cerotto che aveva appena posato, trovandosi a pochi centimetri dall'espressione stranita di Gale.

“Non dire sciocchezze, Hawthorne. Hai la pellaccia dura, dovranno impegnarsi un po' di più se stanno cercando di farti fuori”.

Gale abbozzò un sorriso, poi cercò di muovere lentamente la spalla.
Johanna lo guardò per un attimo, poi la domanda le sfuggì di bocca, seguendo il suo istinto.

“Com'è successo?”

Gale la fissò come se fosse impazzita. “Te l'ho già detto, Johanna. C'è stato un crollo mentre...”

La ragazza scosse la testa, interrompendolo. “Sto parlando delle frustate sulla schiena”.

Vide Gale irrigidirsi, l'espressione passare da perplessa a fredda, e le labbra diventare due linee sottili; Johanna capì che stava per vedersi sbattere in faccia l'ennesima porta.

“Johanna, pensavo di essere stato abbastanza chiaro al riguardo. Non mi va di...”

Gale fu costretto a interrompersi però, quando vide cosa stava facendo la ragazza. Johanna si era già sbottonata la camicia che indossava, buttandola sul pavimento della cucina, e in quel momento si stava sfilando i pantaloni.

Gale, ormai abituato agli spogliarelli della ragazza, scosse la testa, rassegnato. “Non mi sembra proprio il caso...”

Johanna, ignorandolo, gli afferrò una mano e gliela pose sul suo fianco sinistro, appena sopra l'anca magra. Gale la fissò, sempre più confuso, ma poi sotto le sue dita sentì qualcosa: guardando meglio vi intravide una cicatrice lunga e affilata, come di un taglio netto. Naturalmente Gale l'aveva già notata, era capitato che più volte le sue labbra ci passassero sopra e ne seguissero la scia, ma non le aveva mai dato particolare importanza, fino a quel momento.

“Coltello?” chiese, esaminandola.

Johanna scosse la testa. “Lancia, durante i Settantunesimi Hunger Games. Combattimento corpo a corpo con un ragazzo del distretto 2. Non sono stata abbastanza veloce, ma credimi neanche lui dopo lo è stato”.

Gale sapeva come aveva vinto gli Hunger Games, e più volte si era chiesto come i suoi avversari avessero potuto sottovalutarla: niente nel suo aspetto e nei suoi gesti trasmetteva debolezza.
Era ancora immerso nei suoi pensieri quando la ragazza sollevò una gamba, posando un piede di fianco alla sua coscia; poi gli prese la mano e gliela posò sul ginocchio. Questa volta la cicatrice non era definita, ma tutta frastagliata, come se avesse schiacciato il ginocchio contro qualcosa.

“Era una scommessa, avrei vinto se fossi riuscita a salire sulla cima di un albero. Ovviamente ce la feci, ma nella discesa misi male un piede e un ramo mi tagliò”.

Gale ci passò sopra il dito, seguendone i tratti. “Ne è valsa la pena, almeno? La scommessa, dico”.

Lei annuì. “Se avessi vinto, i ragazzini che mi avevano sfidato avrebbero lasciato in pace una persona. Naturalmente non mantennero la parola, così gliela feci pagare”. Johanna fece spallucce, ma sul viso aveva un'espressione fiera e determinata. Gale sentì un improvviso desiderio di scoprire chi era la persona per cui Johanna si era fatta quella cicatrice, ma non ne ebbe il coraggio. Gli sembrava... troppo intima come informazione.

“Che stupidi, io non avrei mai avuto il coraggio di mettermi contro di te” disse, invece.

Johanna sorrise, e con un movimento abituale si sedette a cavalcioni sul ragazzo. “In realtà lo fai continuamente, Hawthorne!” esclamò, mettendogli le braccia intorno al collo.

“Solo quando ti comporti da pazza, quindi spesso!” disse, posandole le mani sui fianchi.

Johanna alzò gli occhi al cielo, poi alzò il mento e indicò con il dito un piccolo gonfiore alla base. “Lo vedi? Avevo due anni, ero sul seggiolone e mio fratello ci aveva legato con una corda una macchinina di legno che aveva costruito nostro padre. Tirò così forte che il seggiolone cadde, e io mi spaccai il mento. Ho sempre pensato che fosse stato un tentativo innocente di farmi fuori”.

Gale rimase per un momento spiazzato da quella sequenza di informazioni: non sapeva che Johanna avesse un fratello, dato che non ne aveva mai parlato. Si chiese se fosse ancora in vita, anche se ne dubitava. Si chiese come fosse morto. Si chiese se era lui la persona che Johanna voleva proteggere.

“Non eravate in buoni rapporti?” domandò, tastando il terreno.

Johanna scosse la testa. “No, non direi. Era mio fratello maggiore, ma il più delle volte mi trattava come un'estranea o come un fastidio. Non so se fosse geloso o cose simili, sei tu che hai dieci fratelli, dovresti essere esperto di certe cose”.

Gale sorrise nostalgico al pensiero. “Non ne ho dieci, solo tre. Anche se dal casino che fanno sembrano molti di più. Ma non li ho mai considerati un fastidio”.

Gale si incupì al ricordo, e Johanna se ne accorse. “Questo è perché tu sei un bravo fratello, Hawthorne”.

Il ragazzo abbozzò un sorriso, cercando di immaginare una Johanna bambina e il motivo per cui suo fratello sembrasse detestarla a quel modo. Non riuscì a trovarne nessuno valido, anche perché era piuttosto certo che il difficile carattere della Mason fosse il risultato di una serie di traumi passati, proprio come lui. “Sono sicuro che anche tu non devi essere stata così male” disse, alla fine.

“È per lui che hai fatto quella scommessa?” aggiunse, corroso dalla curiosità.

Johanna sembrò per un attimo stupita da questa domanda, ma poi scosse la testa. “No, mio fratello non aveva di certo bisogno di protezione. L'ho fatto per un altro ragazzo, Jason [1]”.

Johanna buttò lì l'informazione come se non fosse nulla di importante, ma Gale sapeva che non era così, lo sentiva. E questo gli provocò una fastidiosa stretta al petto. Aspettò, desideroso che Johanna gli desse altre informazioni al riguardo, ma la ragazza restò in silenzio, persa apparentemente nei ricordi. Gale provò un illogico astio per questo Jason, tanto che sentì l'impulsivo desiderio di riportare l'attenzione di Johanna su di sé.
Le passò una mano fra i capelli corti, e avvicinò il viso al suo. Johanna rimase per un attimo stupita da quell'improvvisa irruenza, ma ricambiò quasi subito, schiudendo le labbra alla pressione del ragazzo. Dopo aver lasciato la sua bocca, Gale spostò le labbra sotto il mento, baciando la piccola cicatrice, per poi scendere lungo il collo fino ad arrivare alla clavicola, fermandosi lì. Sentì Johanna affondare una mano nei suoi capelli scuri, avvicinando di più i loro corpi, in una specie di abbraccio. Restarono così per qualche minuto, in silenzio, respirando l'uno il profumo dell'altra, e quando Gale cominciò a pensare che quella posizione non era affatto male, Johanna strinse la presa sui suoi capelli, obbligandolo ad alzare il viso.

“Non dormire Hawthorne, non abbiamo finito”, la ragazzo inclinò la testa a sinistra, e spostando i capelli dalla fronte mostrò una cicatrice appena sopra l'orecchio. Gale si ricordò di averla già vista anni prima, il giorno in cui erano andati a salvare lei e Peeta a Capitol City, ma la sua parte più vigliacca aveva preferito rimuoverne il ricordo [2].

Questa era diversa dalle altre, piccola e rossastra, da ustione, pensò.

“Souvenir di Capitol City, per fortuna riesco a coprirla, perché è davvero orribile. - disse Johanna, nascondendola di nuovo con i capelli - Quando ero prigioniera erano soliti immergermi nell'acqua ghiacciata per minuti interi, e proprio quando sembrava che i polmoni stessero per scoppiare, mi tiravano su, solo per darmi il tempo di respirare. Poi mi immergevano di nuovo, e il gioco ricominciava”.

Gale si immaginò la scena, e sentì la bile risalirgli la gola. Non voleva sapere, non voleva sentirlo.

“Johanna...”

“No, fammi finire”.

Gale annuì, dubbioso.

“La parte peggiore non era quella comunque. Era quando, ancora con la testa bagnata, mi mettevano degli elettrodi e rilasciavano delle scariche elettriche. Sono quelli ad avermi causato questi segni”.

Gale rimase in silenzio, paralizzato, non trovando nulla di adatto da dire. A Johanna bastò la sua espressione pallida e tesa, per capire cosa stava pensando.

“Ti ho detto tutto questo, Hawthorne, perché dirlo a voce alta, poterne parlare, lo rende reale. E se è reale, io posso affrontarlo. A differenza di quando è solo nella mia testa, lì non posso farci nulla, se non nasconderlo in un angolo della mia mente, e permettergli di consumarmi, come un tarlo. Capisci cosa voglio dire, ora?”

Gale continuò a restare in silenzio, mentre cercava di assimilare il significato delle parole di Johanna. Poi fece un respiro profondo, e buttò indietro la testa, gli occhi rivolti al soffitto. Parlò tutto d'un fiato, raccontandole del nuovo capo dei Pacificatori inviato da Capitol City, di come Gale aveva bussato ignaro alla sua porta con un tacchino in mano, come l'aveva frustato al centro della piazza fino a fargli perdere i sensi; come, di quei momenti, ricordasse solo il dolore acuto e lo schiocco della frusta sulla sua carne.
Johanna lo aveva ascoltato senza interromperlo, e quando aveva terminato il suo racconto si era limitata ad accarezzargli delicatamente la testa, quasi con fare materno. Gale per una volta non aveva protestato, né si era ritratto al suo tocco, concedendosi qualche minuto di vulnerabilità.
Johanna d'altra parte, sapeva che non era finita così. Hawthorne si era limitato a raccontare i fatti, ma lei sentiva che c'era qualcosa di non detto, qualcosa che non aveva avuto il coraggio di affrontare. Tuttavia fece finta di niente, perché se c'era una cosa che aveva capito di Gale in quei mesi di convivenza, era che obbligarlo a fare qualcosa che non voleva era il modo migliore per perderlo.


Nei tre giorni successivi, Gale fu più taciturno e pensieroso del solito, tanto da far temere a Johanna di aver rivelato troppo, di aver risvegliato fantasmi del passato che era meglio restassero dormienti.

“Johanna, aspetta!”

La ragazza si bloccò davanti la porta d'ingresso, pronta per andare al lavoro. “Esci anche tu?” chiese, ingoiando l'ultimo pezzo di formaggio.

Gale scosse la testa. “No, volevo solo dirti che...- il ragazzo si interruppe, indeciso su come continuare – ti ho mentito” disse, infine.

Johanna lo fissò, sorpresa. “Riguardo cosa? Temo dovrai essere un po' più preciso di così”.

Gale abbassò lo sguardo. “L'altro giorno, quando ti ho parlato delle cicatrici sulla mia schiena; in realtà ho omesso una parte del racconto. Quella dolorosa” aggiunse.

Attese una reazione dalla ragazza, ma lei si limitò ad annuire: “D'accordo”.

Il ragazzo la osservò, stupito. “Tutto qui?” chiese, quando capì che non avrebbe detto altro.

Johanna fece spallucce. “Se non ne vuoi parlare, non posso obbligarti a farlo. In futuro, se ne avrai voglia, lo farai”.

“E questo non ti dà fastidio?”

Johanna accennò un sorriso. “Tutti hanno dei segreti, Hawthorne. Pensi che io non abbia omesso delle parti, nel mio racconto?”

Gale ricordò come Johanna avesse sorvolato su alcuni argomenti, ad esempio il fratello, Jason... “Ok, allora” disse, ancora confuso per la piega che aveva preso la conversazione. Era sollevato di non dover rivelare il resto della storia, di non essere costretto ad ammettere che la cosa peggiore non era stato il dolore fisico, ma il senso di impotenza che aveva provato; e che inevitabilmente, ogni volta che guarda le sue cicatrici, il ricordo andava a Catnip, al suo rifiuto, a come lei l'avesse respinto, quando lui le aveva dichiarato il suo amore. Quelle cicatrici erano il suo marchio, un promemoria costante che gli ricordava ogni giorno ciò che cercava disperatamente di dimenticare.

“Hawthorne...” Johanna richiamò la sua attenzione, stringendogli il braccio.

Davanti allo sguardo interrogativo della Mason abbozzò un sorriso, perché se al momento il solo ricordo gli trafiggeva il petto, il pensiero di non essere il solo a provare quel dolore, in maniera egoistica, lo rassicurò.

“Vai ora, o rischi di fare tardi...” disse, indicando l'orologio.

Johanna lo scrutò ancora per un attimo, poi annuì. “A stasera, allora” disse, dandogli una pacca sul sedere che fece arrossire Gale contro la sua volontà.

La ragazza era già sul portico, e Gale stava per chiudere la porta, quando la vide tornare indietro e riaprirla con un colpo secco. Johanna gli afferrò la maglia, appropriandosi velocemente delle sue labbra. Quando si staccarono, avevano entrambi il fiato corto.

“Continuiamo stasera” mormorò sulle sua bocca con un ghigno che non prometteva nulla di buono; poi, soddisfatta, se ne andò.

Johanna sentì la porta di casa chiudersi alle sue spalle, ma stavolta pensò che lei una porta era finalmente riuscita ad aprirla.

 

 

 

--- angolo autrice ---

Buonasera ( o buonanotte)! Finalmente, eccomi di ritorno con un' altra Ganna. Questa ho iniziato a scriverla mesi fa, ma ammetto che mi ha dato alcune difficoltà, e ancora adesso ho qualche dubbio al riguardo. In ogni caso, è un tema che mi premeva trattare, anche se so essere un tema piuttosto delicato. L'idea comunque, era che questi due cominciassero a condividere qualcos'altro oltre il letto, spostando il loro rapporto più sul lato sentimentale che puramente fisico. Ho pensato quindi, che la condivisione delle loro esperienze passate fosse un buon punto di partenza, anche se Gale è restio al riguardo. Per le sue cicatrici, io credo che a rendere traumatico quell'evento siano stati una serie di fattori, tra cui anche il rifiuto di Katniss (anche perché, secondo me, è lì che Gale capisce di non aver speranze con lei).
Per le cicatrici di Johanna invece, ho preso ispirazione da fatti realmente avvenuti: in particolare quella sotto il mento, che io ho ancora dopo una normale caduta, mentre la storia del seggiolone è successa a una mia cara amica e ne sono rimasta scioccata! XD
Ok, credo di aver detto tutto, e mi auguro di non aver trattato il tema con troppa leggerezza.
Come sapete comunque, pareri, consigli, e commenti sono sempre ben accetti! :D
A presto spero,

Vero

 

[1] Jason è un mio OC ed è il ragazzo di Johanna prima degli Hunger Games, compare nella mia Johanna!centric “Amare non è sufficiente”, e nella flashfic “Contatti”.

[2] riferimento all'altra mia Ganna “Aspettami”.

 

 

  
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