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Autore: Ardesiia    03/11/2014    4 recensioni
Vent'anni dopo la Battaglia dei cinque eserciti e la morte di Kíli, Fíli e Thorin.
Una storia di dolore, ma anche di resurrezione.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dìs, Gandalf, Legolas
Note: Missing Moments, Movieverse, OOC | Avvertimenti: nessuno
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MADRE

 

 

PARTECIPA AL CONTEST “Heal my wound” DI STAREEM ------- QUARTA CLASSIFICATA

Pacchetto scelto: Take a bow

Elementi del pacchetto utilizzati: Citazione ( “Family is a haven in a heartless world), Prompt (Riconciliarsi), Dialogo (Non avere paura).

Note: Non-canon

 

 

Introduzione:

Vent’anni dopo la presa di Erebor e la morte di Kíli, Fíli e Thorin.

 

 


«Principessa, è ora.»

 
Acquattata in un angolo dell’immenso giaciglio, Dís aprì gli occhi di scatto nella camera ancora immersa nella penombra.
 Per un battito di ciglia, non seppe chi era né dove si trovava.
 Le coperte, in cui nottetempo si era ravvolta, la stringevano come un sudario. Dís si divincolò, artigliando la vacua oscurità come se stesse annegando e cercasse un appiglio.
«Mia Signora?».
 Una voce femminile, da qualche parte accanto al letto, la riportò alla realtà. Dís smise si dibattersi e aspettò per qualche istante che il respiro affannato tornasse regolare. Il suo sguardo si posò sul velo di oscurità che drappeggiava il soffitto della stanza. Tentò poi di mettersi seduta ma ricadde all’indietro con un grugnito di frustrazione.
Era la stessa storia ogni mattina, ma non riusciva ad abituarsi a sentirsi con le ossa rotte e le membra irrigidite come se fossero di legno. Quella mattina poi, annidata in un angolo della sua testa, la bestia nera che vi albergava, cieca e famelica – così era solita immaginarla – si era anch’essa risvegliata e si era messa a scavare con le sue unghie affilate in un punto della sua nuca. Dís sapeva che quel giorno non le avrebbe lasciato scampo.
Ignorando il sordo pulsare che s’irradiava dal suo capo, sprofondato nel cuscino di piume, si rivolse con un moto di stizza e di esasperazione alla servetta inetta, che se ne stava impalata dall’altra parte del letto.
«Che aspetti? Vieni ad aiutarmi!» gracchiò.
Un tintinnare di porcellane e posate le indicò che la nana doveva essersi spostata.
«Vi ho portato la colazione e tutto il resto, come aveva ordinato Sua Maestà. » si giustificò la giovane mentre accorreva al suo fianco. L’afferrò per le braccia senza troppi riguardi e la tirò su, verso di lei, con un energico strattone.
Dís si lasciò sfuggire un lamento a labbra strette. Il dolore fu un lampo bianco che s’irradiò per tutta la schiena, mozzandole il fiato e la fece accartocciare su se stessa, come lo stelo appassito di un fiore, che si curva sotto il peso della corolla. La bestia, però, in quel momento, aveva smesso di scavare.
«Tutto bene, mia Signora?» domandò sollecita la giovane nana, di cui Dís si rese conto di ignorare il nome.
“Razza di idiota, come può andare bene in questo corpo spezzato?”
«Tutto bene. Solo, aiutami a scendere.» rispose, invece.
 
***
 
«Ho bisogno di luce e di aria. »
«Al Vostro servizio, mia Signora.»
Dís sedeva rattrappita su una piccola poltroncina imbottita. Brella, così si chiamava la servetta, le aveva gettato sulle spalle uno scialle di lana, nel quale si stringeva, rabbrividendo, mentre la giovane armeggiava con la chiusura arrugginita dell’imposta, che sprangava il pertugio rotondo che fungeva da finestra.
Lì, dentro al ventre della Montagna Solitaria, le stanze provviste di finestre erano una rarità e ancora più di rado venivano utilizzate dai suoi abitanti. Negli appartamenti reali, erano lasciate proprio per quegli ospiti che soffrivano di claustrofobia a causa delle migliaia di tonnellate di strati di roccia che si chiudevano sul loro capo.
Dís, pur essendo una nana, si era abituata a vivere nella sua caverna poco profonda sulle Montagne Azzurre da dove poteva sentire l’effluvio frizzante dell’aria sulle guance, attraverso le larghe finestre che si affacciavano sulla valle sottostante.
 Al contrario, non aveva mai amato Erebor, la sua antica patria, nonostante ci fosse nata e fosse cresciuta all’ombra del suo mito, con i racconti di suo padre e di suo fratello Thorin.
 Tuttavia da vent’anni a quella parte aveva i suoi buoni motivi per odiarla.
“Ed ora eccomi qua, a dare lustro a chi mi ha tolto tutto.”
Lo stridio acuto e raccapricciante dei cardini le annunciò che Brella aveva avuto ragione sulle cerniere e piano piano una luce livida e opaca dilagò nella stanza, senza però riuscire a scacciare del tutto le ombre, che si accovacciarono attorno ai volumi squadrati del mobilio.
«Ci vuole più luce, mia Signora.» asserì la piccola cameriera con un breve inchino della testa, prima di uscire in punta di piedi, in cerca di uno stoppino per accendere anche le candele.
Dall’altra parte della stanza, davanti al buco che perforava la solida parete di roccia, Dís grugnì, in segno di assenso.
 In fondo al traforo cilindrico che attraversava la parete, un fazzoletto biancastro di cielo era tutta la visuale che era possibile scorgere, ma almeno l’aria cominciava a farsi via via più rarefatta e a dissipare l’odore stantio misto di sonno e muffa della stanza.
Si aspettava di vederla tornare subito, invece il tempo passava senza che di Brella ci fosse traccia.
Dís, spazientita, si puntellò sui braccioli della poltrona e si alzò barcollando sulle gambe ossute. Per non crollare miseramente si appoggiò al tavolino di fronte, dove la servetta aveva apparecchiato la colazione ancora fumante, poi mosse un passo, affondando la pianta inspessita del suo piede sul morbido tappeto che ricopriva il pavimento di pietra. La porta era alle sue spalle, a una decina di passi appena da lei, ma per Dís quella era diventata una distanza considerevole.
Sospirando, pensò per un attimo di tornare a sedersi e magari di consumare la colazione che si stava raffreddando, quando lo sguardo le cadde su un fagotto bianco adagiato ai piedi del letto. Nella luce incerta non l’aveva notato, ma capì subito che doveva trattarsi dell’abito per la cerimonia, inviatole dal cugino Dáin.
La Madre della Montagna non può mancare!” Così le aveva scritto nell’invito recapitatole tempo addietro. Dís aveva sghignazzato sguaiatamente di fronte a quelle parole, prima di gettare il messaggio nel fuoco e di rimanere a osservarne l’agonia tra le fiamme.
 “Madre della Montagna! Che assurdità!”. Era vero: era stata una madre, una moglie e una sorella ma da vent’anni non era più nulla, perché proprio la Montagna le aveva tolto tutto.
Un guscio vuoto. Ecco cos’era diventata. Dís sogghignò tetra nell’immaginare il modo in cui Dáin volesse addobbarla per celebrare la sua coriacea stirpe, che aveva avuto la meglio su un drago e su un’orda di Orchi.
“Oh, sarà indimenticabile! Vedrai cugino.”
 
***
 
Figure oscillanti danzavano sulle pareti della stanza, seguendo il lieve tremolio delle fiammelle, occhieggianti dalle loro nicchie e disturbate nel loro quieto bruciare dal refolo di aria gelida che si insinuava nell’ambiente, tutto avvolto nel loro riverbero dorato.
Dís fece scivolare uno sguardo truce sulla figura curva, fasciata nell’abito di taffetà blu cobalto che si affacciava allo specchio, mentre Brella, in piedi su uno sgabello alle sue spalle, era intenta a sistemarle i pochi peli che ormai si ritrovava sulla testa.
Il risultato era grottesco e Dís non si era mai sentita così oltraggiata. Dentro di lei, la rabbia le stava montando addosso come un fiume in piena, pronto a straripare e a travolgere ogni ostacolo sul suo cammino. Stringeva con una tale forza il pomolo d’avorio intagliato del suo bastone a cui si appoggiava, che le nocche della mano ossuta erano come sbiancate. Intanto Brella, dietro di lei, canticchiava con la leggerezza tipica della sua età.
“Forse non si è reso conto…” continuava a ripetersi, quasi per calmarsi, indecisa se propendere per l’ingenuità e la dabbenaggine del cugino, oppure per la sua crudeltà o un qualche tipo di vendetta nei suoi confronti.
Certo era che si trattava proprio di un bel tiro.
Farle indossare un vestito, in tutto e per tutto simile a quello di quando si era sposata, era per lei come una staffilata in piena faccia.
Con la sua ampia scollatura arricciata, il corpetto aderente e quel blu cangiante, era un abito adatto a una giovane nana che va incontro alla vita e non a una vecchia decrepita quale lei era.
Quando anche l’ultima ciocca finta fu aggiunta e la pettinatura terminata, Dís vide che Brella apriva un sacchetto rosso di pelle scamosciata. Una collana con diamanti grossi come biglie risplendette tra le mani della giovane.
«Ecco il tocco finale!» esclamò con un sorriso estatico.
«No, niente gioielli.». Dís vide il sorriso smagliante spegnersi sul volto della nana.
«Ma… Mia Signora! Il Re ha ordinato…» provò a protestare la servetta, sgranando gli occhi, mentre le tintinnava in mano la pesante collana.
«Sono stata già addobbata a dovere, mi sembra. Riporta quel gingillo a sua Maestà, che ne faccia un uso più decoroso, anziché bardare il collo di una povera vecchia che già fatica a stare in piedi!» rispose Dís con voce tagliente.
 Attraverso lo specchio, sotto le arcate sporgenti e spelacchiate delle sopracciglia, i suoi occhi color giaietto fissarono e trafissero Brella come spilli.
La servetta sussultò e, con le guance imporporate, ripose la collana nel sacchetto e si affrettò ad uscire dalla stanza.
Dís chiuse gli occhi e si lasciò andare ad un profondo sospiro, rincantucciandosi con un gran fruscio di sete nella poltroncina imbottita e godendosi il silenzio della stanza. Era già così stanca e così provata che non vedeva l’ora di arrivare alla fine di quella giornata. Sarebbe stata dura, lo sapeva, ma doveva resistere. E l’agognato riposo sarebbe stato ancora più dolce.
 
***
 
«Mia Signora! » Brella la chiamò col fiatone, slanciandosi all’interno della stanza. Aveva le guance paffute arrossate e un’areola di capelli scomposti le contornava il volto.
Dís sussultò dal dormiveglia in cui era scivolata senza accorgersene e lanciò un’occhiata allarmata alla figura rotonda della servetta.
«Mia Signora! Ecco… c’è… un uomo… fuori dalla vostra porta.» balbettò, chinando la testa.
Dís rimase per un attimo interdetta, con la fronte aggrottata.
«Un uomo, dici?»
Brella annuì.
«E’ alto… beh, sì, è un uomo e…» ricominciò Brella, tormentandosi il grembiule per il nervosismo.
Dís roteò gli occhi, trattenendosi dallo sbuffare.
«D’accordo, va’ avanti.»
«Ha un cappello grigio a punta a falda larga e una lunga barba grigio ferro. Anche la veste è grigia e porta con sé un bastone lungo e nodoso… »
Dís l’aveva incontrato solo una volta, molto tempo addietro, eppure capì in un istante di chi si trattasse.
Ripensò a quante volte si era ripetuta, vagando per le stanze vuote e silenziose della sua caverna: “Se solo lui non si fosse immischiato… Se solo non avesse convinto Thorin…”
«Mandalo via.»
«Ma mia Signora… Lui ha detto…»
«Fa’ come ti dico! Da chi prendi ordini? Da me o da quello stregone? » ribatté furiosa Dís.
«Stregone, dite? Come desiderate… »
Uno schianto repentino squarciò l’aria della stanza. Brella si voltò di scatto, tremante come le fiammelle delle candele, il cui alone luminoso vorticò sulle pareti attorno a loro, mentre Dís era trasalita, ma non si era scomposta più di tanto. Conosceva quei suoi trucchetti da strapazzo.
E non aspettò nemmeno che la nuvola di fumo si dissipasse per parlare.
«Ecco un classico di Gandalf il Grigio: entrata con botto senza invito. Se la prossima volta ti accogliessi con buona grazia, saresti così gentile da essere tu a esplodere? Sarebbe una magnifica entrata in scena, che apprezzerei molto.» 
Intanto le volute di fumo si andavano dissipando e la sagoma allampanata dello stregone si faceva sempre più nitida e netta. Un borbottio tossicchiato proveniva dalla figura.
«Sono passati molti anni, Dís figlia di Thráin, da quando ci siamo visti l’ultima volta e speravo che l’astio nei miei confronti si fosse…uhm… stemperato.» bofonchiò il mago.
«Accogliere a braccia aperte chi ha mandato a morire i miei figli e mio fratello? Solo quando un elfo e un nano si sposeranno, solo allora, potrò perdonarti!» esclamò con veemenza la nana, che lo fissava con gli occhi fuori dalle orbite.
 Si era alzata sulle gambe malferme dalla poltroncina e si protendeva con la schiena curva verso di lui. L’odio le schizzava fuori da tutti i pori.
«Ah! Salvatemi dalla testardaggine dei nani! Ancora mi incolpi per quello che è successo!» protestò Gandalf.
«Perché sei venuto qui, stregone?» domandò Dís a bruciapelo.
Brella, intanto, era sgattaiolata fuori con un cenno della testa da parte di Gandalf. Trattandosi di uno stregone, aveva pensato che era meglio non contrariarlo; quanto alla Principessa, in quel momento era troppo occupata ad essere arrabbiata con il suo ospite inaspettato per accorgersi della sua mancanza. La servetta era sicura che quei due avessero molto da dirsi e lei fu ben felice di lasciarli.
«Non avere paura. Non sono qui per strapparti qualcos’altro…».
 Lo stregone aveva proteso un braccio verso la piccola figura rattrappita come per abbracciarla, mentre accorciava di qualche passo la distanza che li separava. Dís continuò a fissarlo con occhi gelidi, registrando però, con una parte della sua testa, le nuove rughe profonde che in vent’anni si erano incise sul volto antico del Saggio.
«Dobbiamo parlare. Ho bisogno di te, questa volta, per un amico.» cominciò lui, parandosi di fronte alla nana.
«Sei uno sfrontato, stregone. Chiedere il mio aiuto dopo tutto quello che già mi hai portato via! Comunque, risparmia il fiato, non ho nessuna intenzione di starti a sentire; non sono certo come mio fratello Thorin, né sono interessata ai destini della Terra di Mezzo.» concluse Dís, sedendosi sulla poltrona e adagiandosi allo schienale.
«Mi rendo conto di quanto tu abbia patito dopo la conquista di Erebor, ma non sei l’unica ad avere subito delle gravi perdite nella Battaglia, Dís, figlia di Thráin. Un amico, che ha partecipato di persona alla Battaglia e ha combattuto insieme alla tua gente, vorrebbe incontrare te per ridarti un oggetto.»
Un lampo di curiosità si accese nelle iridi sbiadite della nana, nonostante le labbra rimanessero sigillate in una piega ostile.
«E’ un oggetto», continuò Gandalf, con studiata noncuranza, « che apparteneva a Kíli, il tuo figlio minore, e Legolas vorrebbe rendertelo.»
Dís si abbrancò ai braccioli delle poltrona e si protese verso la torreggiante figura grigia davanti a lei.
«Legolas? Non è il Principe elfico del Reame Boscoso, il figlio di re Thranduil?» domandò sospettosa.
«E’ proprio lui.» confermò Gandalf.
Dís assunse un’aria indispettita e sibilò:«Elfi! E perché mai non si è degnato di venire lui stesso qui, a restituirmelo?»
«Perché la sua presenza qui a Erebor è un segreto. Prenderà parte alla cerimonia finale ma nessuno deve sapere che lui è qui. E’ una sorpresa che Dáin ha organizzato per tutti.».
 
***
 
E alla fine si era rifatta viva.
Dís si ritrovò a chiudere gli occhi ma il dolore le percuoteva il capo senza tregua.
La bestia aveva ricominciato a scavare con più frenesia intorno alla sua calotta cranica e l’anziana nana non si sarebbe sorpresa nel sentirsi scoperchiare la testa come una pentola. 
Non poteva calcolare quanto sarebbe durata, ma c’era la possibilità che perdesse conoscenza, questo doveva metterlo in conto.
“Fammi solo arrivare da loro.” Pregò tra sé, senza rivolgersi a nessun Valar in particolare. Aveva smesso da tempo di affidarsi agli Dei, come faceva in passato, ma l’abitudine ad aggrapparsi a Qualcosa o Qualcuno era dura a  morire e quel giorno sentiva che le sue condizioni precarie sarebbero precipitate.
Strinse i denti e si costrinse ad andare avanti, camminando però con estrema lentezza e asserragliandosi tra le due dame di compagnia, due nobili lontane parenti di Dáin, che la sostenevano e la stavano scortando fino al trono.
 La Sala era gremita di nani di varie provenienze ed era un caleidoscopico vorticare di luci e volti che acuiva il senso di nausea che le serrava l’addome.
 Sentiva su di sé una moltitudine di sguardi e di sussurri, mentre, attraverso gli occhi socchiusi, feriti dallo scintillio smeraldino in cui era avvolta la Sala, l’anziana nana scrutava, in lontananza, la figura imponente di suo cugino Dáin, Re sotto la Montagna, rivestita di un’armatura dorata e assisa sul massiccio trono scolpito nella pietra. Accanto a lui, stavano impettiti i dieci nani che avevano partecipato all’impresa. Tra loro Dís riconobbe Dwalin, ancora alto e massiccio e suo fratello Balin, dai capelli e dalla barba candidi come neve.
Anche Gandalf doveva essere da qualche parte là in mezzo alla folla assiepata, ma Dís non riusciva a vedere niente, troppo obnubilata dalla ferocia che le torturava la testa.
Guidata dalle due nane a fianco a lei, Dís salì fino a metà i gradini della pedana che ospitava il trono. In quel punto della scalinata si allargava un piccolo pianerottolo e proprio lì le sue dame si piegarono in una deferente riverenza, mentre lei rimase a fissare il nano largo e piuttosto alto dalla lunga barba rossiccia che le stava sorridendo.
«Cugina!» esclamò, balzando in piedi con elasticità, nonostante l’armatura. Attorno alla testa portava una corona nuova, un cerchio con un’unica punta centrale che simboleggiava la Montagna, cesellata in oro rosso, oro giallo e mythril.
«Cugina, cugina! Eccoti finalmente, sia lodato Mahal che siamo riusciti a smuoverti da laggiù dalle Montagne Azzurre!» la salutò Dáin, scendendo la scalinata e andandole incontro con un sorriso gioviale.
Dís si sentì un minuscolo mucchietto d’ossa tra quelle braccia poderose e non poté fare a meno di notare che, mentre lei era un rottame, Dáin, solo di pochi anni più giovane di lei, era ancora un nano possente in grado di maneggiare delle armi.
Ciò non la stupì più di tanto quando il cugino le presentò il figlio Thorin, un giovane nano molto somigliante al padre, da cui aveva ereditato la lunga capigliatura stopposa e la barba rossa e che poteva avere la stessa età dei suoi figli.
«Al vostro servizio zia!» s’inchinò con rispetto.
«Non sono tua zia.» mugugnò lei, secca.
«Vieni, Dís. » la invitò il Re, offrendole il braccio e aiutandola a risalire i gradini che la separavano dalla pedana del trono, mentre il Principe Thorin si posizionava dall’altra parte a sostenerla.
«Ecco la Madre della Montagna!» tuonò Dáin, presentandola alla gente radunatasi nella grande Sala che rispose con boato di giubilo e un clangore metallico di spade e asce battenti sulle armature e sugli scudi.
Nella sua testa Dís sentì la bestia trasalire e azzannarle con più ferocia la massa grigia e gelatinosa del suo cervello.
Notò solo Dáin che la fissava con gli occhi azzurro cielo sgranati per lo stupore e fece appena in tempo a sorridergli debolmente, perché poi su tutto calò il buio.
 
***
 
«Ti avevo avvertito, Dáin, che le sue condizioni erano molte precarie.»
 
Dís udì il cadenzare nervoso di tacchi di cuoio sul pavimento di pietra.
Si era appena risvegliata da un lunghissimo sonno ma tutto intorno a lei continuava ad essere buio, nonostante fosse sicura di avere aperto gli occhi. Tuttavia, la sua mente era lucida e sgombra, come il cielo terso dopo un temporale.
Provò, allora, a sollevare un braccio, per far capire ai presenti nella stanza che era sveglia, ma l’arto rimase inerte, abbandonato al suo fianco.
 
«Ti confesso, Gandalf, che quando ho posato lo sguardo su di lei ho stentato a riconoscerla.»
«La vita non è stata generosa con Dís, bisogna ammetterlo e non c’è da stupirsi che il suo fisico ne abbia risentito.»
 
Dís spalancò la bocca per urlare, tuttavia il grido riecheggiò solo nella sua testa.
Non capiva: era come imprigionata nel suo stesso corpo.
 
«E’ vero, però i suoi figli sono caduti in battaglia con onore, facendo da scudo allo zio ferito. Sono stati degli eroi e come tali verranno per sempre ricordati.» ribatté pomposamente il Re.
«Temo che per una madre non sia una sufficiente consolazione. O almeno non lo è stata per una madre come Dís. Non ha mai condiviso con Thorin quella sua voglia di vendetta e di riscatto. E, fintanto che non sono arrivato io, la Montagna era solo una leggenda su cui rimuginare e ogni tanto piangere, per le ricchezze e il potere perduti.» sospirò Gandalf.
«C’è qualche speranza per lei? Cos’ha detto il tuo amico, quell’elfo dai capelli pallidi?» domandò Dáin, esalando a sua volta un lugubre sospiro.
«E’ venuta a morire qui, per unirsi ai suoi figli, Dáin. Questa è l’unica speranza che l’è rimasta.».
 
Una lacrima silenziosa scivolò sulla sua gota, inumidendo il cuscino.
Il suo tempo era infine giunto.
 
***
 
«Lo so che mi senti.»
 
Dís non riconobbe la voce e tentò per l’ennesima volta di aprire le sue palpebre sigillate, ma il buio era restio a dileguarsi.
 
«Tu non mi conosci.»
 
Chi le stava parlando aveva un accento quasi musicale, diverso da quello che hanno i nani nella lingua corrente; la voce, poi, aveva un timbro maschile ma era simile al gorgogliare rapido di un ruscello.
Dís comprese che si trattava dell’elfo di cui le aveva accennato Gandalf, il giorno della cerimonia.
 
«Sono il Principe Legolas del Reame Boscoso. Ho bisogno di parlare con te, Dís figlia di Thráin.»
 
“Vorrei poterlo fare!”
Ancora una volta, però, le parole le rimasero imbrigliate in gola.
Era cieca, muta e immobile. Poteva solo ascoltare.
 
Legolas sospirò.
«Ho aspettato troppo e sono arrivato tardi, a quanto pare.»
La nana giaceva cerea come una statua nel grande letto, attorniato dalla luce di centinaia di candele. Se non fosse stato per il lieve movimento della sua cassa toracica, sarebbe stata già ritenuta morta.
Legolas osservò quel corpo rattrappito, consumato per anni dal dispiacere e dall’angoscia e d’impulso prese una mano ossuta e la racchiuse tra le sue.
«Anch’io ho subito una perdita incolmabile nella Battaglia dei Cinque Eserciti e in tutti questi anni ho covato odio e rancore per quelli della tua razza.
Forse non puoi capire, ma è causa di tuo figlio che lei è morta.»
 
Dís continuava a rimanere inerte e impassibile in apparenza, ma dentro all’involucro di carne del suo corpo, il suo spirito era in subbuglio: avrebbe voluto poter chiedere e strepitare, puntandogli in faccia due occhi affilati come accette o, addirittura, schiaffeggiarlo per l’insolenza che trasudava dalle sue parole.
Ma di chi stava parlando?
Chi era morto a causa di uno dei suoi figli?
 
 
Legolas strinse quella mano inerte con calore.
«Gli somigli, sai? Anche ridotta così, invecchiata e macilenta, somigli a quel giovane nano che la incantò e riuscì a portarmela via. E’ così strano per me essere qui. Ma dovevo ridarti questa.».
L’elfo fece scivolare nella mano della nana una pietra nera oblunga e lucida, su cui erano incise alcune rune. Chiuse poi a pugno le dita dell’anziana attorno al sasso.
«Lo riconosci? E’ la pietra runica che tu gli desti e che lui donò a lei, quando si separarono. E lei mantenne la promessa: tornò per salvarlo, andando contro agli ordini impartiti da mio padre. Solo che il suo sacrificio fu vano e non servì a salvarlo. Sono caduti entrambi, schiena contro schiena, abbattuti da una moltitudine di orchi. Capisci perché ho odiato tuo figlio per tutto questo tempo? Me l’ha portata via per sempre. Era la mia compagna, la mia alleata, la mia amica. Ora è solo un mucchietto di ceneri che ho deposto nella tomba di tuo figlio, perché sapevo che era quello lei che avrebbe voluto.»
 
Dís stentava a credere alle sue stesse orecchie. Avrebbe voluto saltare alla gola di quell’elfo impazzito che osava infastidirla con quelle menzogne su suo figlio Kíli.
Provò a stringere con forza il palmo che racchiudeva la pietra ma la sua mano rimase ancora una volta inerte.
Si sovvenne quando aveva infilato il sasso dentro la tasca di Kíli; era stato proprio l’ultima volta che aveva visto entrambi i suoi nanetti, il giorno della partenza, sulla soglia di casa. L’avevano salutata pieni di entusiasmo per l’avventura che stavano per intraprendere, ignorando cosa andavano veramente incontro e con un unico desiderio: dimostrare il loro valore e la loro fedeltà a suo fratello Thorin.
Dís avrebbe scosso la testa, se solo avesse potuto.
Il passato era il luogo più dolce ma anche il più terribile da visitare quando si è in punto di morte.*
 
 
«Lo so che fatichi a credermi. » continuò Legolas, da qualche parte, attorno a lei.
«Lo percepisco, anche se non puoi né esprimerti né muoverti. Eppure, è andata così come ti ho raccontato.
E adesso sono qui per le sue ultime volontà: perdonare, fare pace, riconciliarmi.»
 
Dís avvertì i passi leggeri dell’elfo farsi più vicini.
Per la prima volta, riuscì a percepire il tocco delicato delle dita dell’elfo che le sfioravano la fronte. Quel contatto la fece trasalire e, senza rendersene conto, aprì di scatto gli occhi.
La luce delle candele le bruciò le iridi e la nana dovette sbattere più volte le palpebre prima di riuscire a mettere a fuoco.
Un volto armonioso e senza età, contornato da lunghi capelli dello stesso colore dell’oro pallido emerse tra la luce.
Aveva occhi scuri e profondi e le sorrideva.
«Bentornata tra noi, Dís, figlia di Thráin.».
 
***
 
«E così, hai deciso di restare.»
Passeggiavano lentamente, lungo la strada lastricata che portava fino a Dale.
Il sole splendeva fulgido nell’aria cristallina ma i suoi raggi cadevano blandi e non scaldavano loro le membra.
Nascosto sotto le larghe falde del suo cappello e dalla pesante sciarpa attorno al collo, Gandalf sorrise osservando di sottecchi la figura minuta che camminava accanto a lui.
Doveva proprio ammettere che il cambiamento era stato stupefacente.
Solo due mesi prima l’aveva vista arrivare che sembrava un cadavere vivente, con la pelle del cranio giallastra e rinsecchita che quasi si staccava, gli occhi infossati e i capelli ridotti in poche ciocche rade.
«Dáin ha bisogno di me. Dice che come so gestire io gli affari non lo sa fare nessuno.» rispose Dís, sorridendogli a sua volta.
«Su questo non ho dubbi. Mi hanno riferito che hai stretto accordi commerciali anche con il Reame Boscoso. Erano secoli che non accadeva, lo sai vero?»
Dís ridacchiò tra sé.
«Ormai siamo quasi imparentati… non è stato così difficile convincere Thranduil grazie a Legolas.»
«E il mese prossimo sarai ospite nel Reame Boscoso.»
Dís si arrestò e si voltò verso lo stregone, piantando il suo bastone tra piedi e appoggiandosi sopra con entrambe le mani.
«Dimmi la verità, Gandalf, per una volta. Avevi architettato tutto dall’inizio, vero? Sei stato tu a convincere Dáin a invitarmi alla cerimonia e sei stato tu a convincere Legolas a venire da me.»
«Beh, diciamo che mi mancava un unico tassello per completare l’opera iniziata da Thorin e la sua compagnia.» spiegò lo stregone, traendo fuori dalla tasca la sua pipa.
La nana osservò la minuscola fiammella sprigionarsi dalle dita di Gandalf  e incendiare il tabacco contenuto nell’arnese.
«Vedi, Dís, la morte di Tauriel e il suo coinvolgimento sentimentale con tuo figlio Kíli aveva causato parecchi… ehm… fraintendimenti tra nani ed elfi, come se in passato non ce ne fossero già stati abbastanza. E tutto questo portava a divisioni, scaramucce… qualcosa che al Nemico sconfitto ma non debellato, poteva solo tornare utile. Inoltre», continuò Gandalf, tirando una boccata di fumo ed esalando una serie di anelli concentrici, che si dissiparono salendo nell’aria, «Thranduil era molto preoccupato per il figlio: Legolas si stava lasciando morire piano piano, un po’ come te. Così, mi chiamò ed io, parlando con Legolas, scoprii della pietra runica. E immediatamente mi ricordai di te.» concluse lo stregone scrutando il volto dell’anziana nana.
Dís abbassò le palpebre, un po’ imbarazzata. Stava tornando florida, anche se le cicatrici del suo passato nessuno le avrebbe mai potute cancellare.
Gandalf la vide infilare una mano nella tasca della lunga giacca foderata di pelliccia. Una pietra nera oblunga balenò sul suo piccolo palmo.
«Sai cosa c’è scritto?» domandò con voce tremante, sul punto di piangere. « “Torna da me.”» rispose, senza attendere la replica dello stregone.
«I miei figli non sono tornati ma è come se me ne avessero mandato un altro.»
«Tu hai bisogno di Legolas e lui ha bisogno di te. » completò Gandalf.
«E’ così. E poi c’è il mio popolo, anche loro sono tutti miei figli e guardano a me come la loro madre.».
Dís tacque e, stringendosi nel pelo che spuntava fuori dai bordi della giacca, si volse alla sua destra, verso la Montagna, che li osservava, maestosa e scintillante nel suo mantello niveo.
Anche Gandalf si girò ad osservare Erebor, ma poco dopo i suoi occhi tornarono a contemplare la piccola nana dignitosa, che aveva scelto di vivere, nonostante tutto.
«Sai, Gandalf – proruppe lei, sentendo su di sé lo sguardo benevolo del vecchio saggio – alla fine ho deciso di restare, sì. In fondo, la famiglia, per quanto strana, è l’unico paradiso in un mondo senza cuore.».
 

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Post scriptum

 

Il personaggio di Dís viene appena citato nel romanzo Lo Hobbit, ma io ne sono sempre stata incuriosita e questo contest, a mio parere, ben si addiceva a questo personaggio e alla sua sorte sfortunatissima. Spero che non me ne vogliate se ho utilizzato anche Legolas: lo so che, in questo modo, la sua futura amicizia con Gimli sarebbe meno eclatante e speciale, però ho pensato che sia l’elfo che la nana potessero unirsi nel dolore e trovare così una specie di consolazione.

Spero che il risultato non sia malvagio!

A presto,

A.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



* La frase è una citazione di una battuta di un episodio televisivo di “Games of Throne”, anche se di quale esattamente si tratti non mi ricordo! 

  
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