Libri > Il Signore degli Anelli e altri
Ricorda la storia  |      
Autore: Charme    06/11/2014    7 recensioni
In tempi felici, prima che la catastrofe del Drago si abbatta su Erebor, a un giovane Thorin viene data la possibilità di amare.
"Nessuno dei due aveva il privilegio di una personalità che consentisse di scusarsi di fronte a un errore, per evidente che fosse, ma in quell’occasione furono in grado di vedere oltre e porre fine a un litigio che a ben guardare non era nato per separarli, ma per unirli."
Genere: | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Titolo: Un posto all’ombra.
Fandom: Lo Hobbit [Movieverse].
Autrice: Charme.
Personaggi: Thorin, Nuovo Personaggio, Altri.
One-shot, 3099 parole [Contatore Word].
Rating: Giallo.
Genere: Romantico, Drammatico, Angst.
Avvertimenti: What if?
 
 
 
 
Dedicata a leila91,
perché è adorabile.
 
 
Note dell’Autrice.
  La storia partecipa alla seconda tranche del Musecontest organizzato da Schnusschen, nota a taluni sotto il nome di Nostra Signora del Sacro Terrore. Non fate domande.
  La prima edizione di questo contest prevedeva che ogni partecipante dovesse sottostare a un divieto, che consisteva nel non poter scrivere ciò che più facilmente ci riesce, nel mio caso una storia di genere comico. Questa versione, riveduta e corretta, oltre a un divieto, prevede anche un obbligo. Per cui mi è stato imposto di non scrivere una storia comica e di scriverne una romantica. Per me equivale alla morte cerebrale.
  La storia che seguirà intende ispirarsi vagamente a una dichiarazione rilasciata tempo addietro da Mr. Armitage, secondo il quale Thorin avrebbe perso l’amore della sua vita  con l’avvento di Smaug. Da questo ricaviamo che Mr. Armitage è un fanwriter con la passione dell’Angst. Vi stupisce? Noi di Voyager crediamo di no.
  All’interno del testo ho inserito un paio di citazioni: la prima è l’incipit, che coincide – per quanto lievemente modificato – con quello di Orgoglio e Pregiudizio; la seconda è ben evidenziata dall’uso del corsivo, ed è tratta dal film Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato. Nell’ultimissima parte della ff, invece, c’è un estratto dal monologo di Thorin nella Desolazione di Smaug: “Non morirò in questo modo. Acquattato, arrancando per respirare. […] Se la cosa finirà tra le fiamme, allora bruceremo tutti insieme.” Non vi sentite super-motivati?
  Mi ritengo in dovere di specificare che il paragrafo scritto completamente in corsivo subito prima della conclusione è un flashback, ma dovrebbe risultare evidente.
 
  Molto importante: la narrazione tende a seguire gli eventi del Movieverse, piuttosto che la narrazione originale del libro. Difatti ne Lo Hobbit Thorin si trova lontano dalla Montagna, al momento in cui Smaug attacca. Vecchio furbone.
 
  Per quanto tenda a dare il meglio delle mie capacità nelle note v’invito a leggere anche la storia.  
 
  Saluti,
  Charme.
EDIT: questa storia si è classificata terza al Musecontest e sto gongolando da un quarto d'ora
 
 
 
  È cosa nota e universalmente riconosciuta che l'unica creatura più testarda di un Nano sia una Nana, e c'è chi ritiene che questo sia da imputarsi all'estrema penuria di donne all'interno della razza, il che le ha rese particolarmente combattive nel tentativo di guadagnarsi un posto all'interno della società. Naturalmente, chiunque esprimesse un simile pensiero ad alta voce verrebbe istantaneamente identificato come qualcuno che non abbia mai, mai avuto a che fare con una Nana.
  Le donne dei Nani non si guadagnano un posto nella società. Non ne hanno bisogno, perché sono loro a dettare le regole, e non esiste gerarchia che non possano sovvertire.
 
  
  Uno degli svantaggi della smisurata città di Erebor era la quasi totale assenza di zone coltivabili: la città proliferava all'interno della Montagna stessa, e il clima rigido e i terreni prevalentemente rocciosi, così come la mancanza di luce naturale rendevano vana ogni velleità agricola. I Nani non ci avevano messo molto a decidere che qualunque cibo non se ne fosse precedentemente andato in giro da solo non valesse la pena di essere mangiato, e che i tanto antiestetici cibi verdi, se proprio se ne ravvisava il bisogno, potevano comunque essere comprati da qualcun altro. Un'altra delle opinioni più diffuse tra il popolo dei Nani era che le passeggiate in mezzo al verde potessero essere ben più suggestive laddove il verde veniva sostituito da corridoi in pietra, per cui non avveniva spesso che i Figli di Aulë si avventurassero sul lato sud della Montagna Solitaria, dove i terreni erano meno accidentati e la sorgente del fiume Flutti favoriva la crescita di vegetazione e addirittura di qualche albero ardito.
  Ma ogni razza ha i suoi esponenti più eccentrici, e il giovane principe di Erebor era tra questi. Non lo si poteva certo accusare di rifuggire le proprie responsabilità, ma non era raro che si rifugiasse all'ombra di un certo abete rosso, evidentemente meritevole della sua approvazione, e che rimanesse lì per pochi minuti o per ore intere, intento a meditare.
  Quand'ecco che un giorno venne a mancare uno degli elementi più importanti nel rituale di Thorin II, vale a dire il corroborante balsamo della solitudine. Il suo abete rosso era stato profanato. Qualcuno potrebbe obiettare che non si possano vantare diritti di esclusiva nei confronti di un albero, ma Thorin riteneva che essere l'unico a poter usufruire del suo abete fosse una richiesta più che ragionevole, quasi scontata.
  Quella della proprietà esclusiva dell'ambitissimo abete rosso pareva essere una questione indiscutibile anche per la giovane Nana che si dilettava a scolpire piccole figure in legno, che distolse lo sguardo dalla sua scultura dedicando non più di un'occhiata frettolosa al principe e poi tornò alle proprie mansioni.
  Una persona gretta avrebbe fatto valere il proprio titolo nobiliare per chiedere soddisfazione, ma quelle erano bassezze a cui mai Thorin avrebbe fatto ricorso. Sarebbe tornato un altro giorno.
 
  Come promesso tornò l'indomani e si godette la sua tranquillità, e così il giorno seguente e quello dopo ancora. Al tramonto del quarto giorno, tuttavia, un'altra figura spuntò dal crinale, rimanendo sbigottita quando vide Thorin sotto l'albero che aveva imparato a considerare come suo personale.
  Esattamente come aveva fatto Thorin giorni prima, la fanciulla se ne andò senza rivolgergli la parola, e il Nano seppe con sicurezza di aver vinto quella piccola battaglia.
  Non si potevano imporre orari ai pensieri, ma il principe di Erebor aveva la tendenza ad andare al suo albero generalmente nel primo pomeriggio, quando le udienze e le riunioni di suo nonno il Re erano terminate e della sua presenza non c'era più bisogno. Quello della meditazione non era un appuntamento fisso, e per qualche tempo Thorin non sentì l'esigenza di recarsi all'abete, ma quando lo fece vi ritrovò la giovane Nana. Si era quasi dimenticato di lei, ma gli bastò vedere che gli aveva di nuovo soffiato il posto per sviluppare un'antipatia istantanea nei suoi confronti. Quella stessa antipatia si rifletteva piuttosto chiaramente negli occhi della ragazza, che gli rivolse una sfida muta lanciandogli un'occhiata penetrante e sedendosi più comodamente, appoggiando la schiena contro la corteccia rossastra dell'abete.
  Il giorno successivo Thorin le ricambiò il favore presentandosi alcune ore prima del solito per il semplice gusto di vedere la sua rivale rimanere di sasso. Quando ciò avvenne, la Nana non emise un fiato, ma dal modo a dir poco marziale in cui tornò sui suoi passi Thorin seppe che aveva accettato la sua implicita dichiarazione di guerra.
  Seguirono molte battaglie la cui strategia era discutibile e poco elaborata: entrambi cercavano di battere l'avversario sul tempo, arrivando sul territorio sacro a orari sempre più improbabili, ora godendosi la vittoria, ora assaporando l'amaro fiele della sconfitta.
  “Penso che tu sia completamente pazzo ed è meglio che tu lo sappia da me piuttosto che da qualcun altro.”
  A Thorin non piaceva che le sue decisioni venissero messe in discussione, ma sapeva già da molto tempo che suo fratello Frerin era un dissidente della peggior specie, e rispondergli a tono l'avrebbe soltanto incoraggiato, per cui rimase in silenzio.
  “Thorin, non puoi alzarti all'alba per arrivare per primo a quel dannato abete e non puoi accamparti lì per il resto della tua vita.” Thorin pensò che non aveva alcun bisogno di accamparsi lì per il resto della propria vita. Gli bastava resistere per il resto della vita di lei.
  
  Ma la fine della guerra era dietro l’angolo, e nel loro disperato tentativo di primeggiare l’uno sull’altra i due rivali avevano assunto la stessa tattica. Quando il sole sorse a illuminare gli aspri fianchi della montagna i due Nani s’imbatterono l’uno nell’altra sul sentiero che portava all’abete.
  Vedersi in una situazione che non rispecchiava la consuetudine a cui si erano inconsciamente abituati li sconvolse, portandoli ad agire sconsideratamente e senza pensare alle conseguenze.
  “Io sono Thorin.”
  “Io sono Vega.”
 
  Ufficialmente ora non erano più sconosciuti, e si ritennero in dovere di porre fine a quella faida stipulando un accordo pacifico: Vega avrebbe potuto godere del riparo offerto dall’abete dal pomeriggio fino al tramonto, poiché vi si recava prevalentemente per intagliare e aveva quindi bisogno di luce, mentre Thorin – che stando a quanto affermava poteva pensare anche al buio – sarebbe stato l’unico guardiano dell’albero per tutta la sera.
  I giorni si susseguirono in piena osservanza del patto, e Thorin e Vega si incontravano di rado e solo per pochi minuti, quando l’astro rovente iniziava la sua discesa tingendo di rosso la Montagna Solitaria. Alle volte i due si salutavano appena con un cenno del capo e altre volte erano invece più loquaci, ma raramente indugiavano in una conversazione che non sentivano essere indispensabile.
  Una sera Thorin salì sul sentiero più per il desiderio di una boccata d’aria che non per la necessità di ponderare: ormai si era abituato a vedere quel lato della montagna sempre al buio, e sentiva che la solitudine notturna gli era anche più confacente. Giungendo nei pressi dell’abete, però, Thorin vide che Vega era ancora lì, in aperta trasgressione al loro patto. Deluso e adirato, Thorin marciò verso di lei, pronto a domandarle spiegazioni, ma vide che si era solamente addormentata, cullata e protetta dalle fronde dell’abete.
  Doveva aver ceduto al sonno da qualche tempo e inaspettatamente, perché gli attrezzi che usava per l’intaglio erano disseminati in giro e il mantello ondeggiava alla brezza della sera, appeso a uno dei rami più bassi dell’albero. Thorin guardò la ragazza dormire pacificamente, i capelli sparsi sul terreno e qua e là aggrovigliati a foglie e ramoscelli: davanti a lei, appena fuori dalla portata della sua mano, la piccola scultura di un orso pareva rivolgerle un muto rimprovero per averla fatta rotolare via. Indeciso se disturbare o meno il sonno della fanciulla, Thorin rimandò quel momento raccogliendo la statuetta e dedicandosi a quella. Era un orso straordinariamente accigliato, ma non pareva aggressivo. Se ne stava in una strana posizione semiseduta, le zampe anteriori incrociate a nascondere parzialmente gli unghioni, e pareva disapprovare tutto ciò che gli stava attorno. Un ottimo lavoro, certo, e per qualche assurdo motivo l’orso gli ricordava qualcuno.
  “Mi osservi nel sonno e rubi le mie creazioni?” lo rampognò una voce assonnata.
  Thorin mise giù l’orso arrabbiato col mondo e ribatté: “Riflettevo sul tipo di punizione che spetti alla tua inadempienza. Il tuo turno all’abete è finito alcune ore fa.”
  Vega parve realizzare solo in quel momento che era notte, e iniziò a raggruppare i propri averi e a riporli disordinatamente nella sua sacca mentre bofonchiava mezze scuse.
  Thorin ignorò le sue spiegazioni parziali. “Ti riaccompagno a casa”, le disse, facendo per aiutarla a indossare il mantello. Lei glielo tolse di mano e disse che non ce n’era alcun bisogno.
  “È buio e non hai nemmeno una lanterna. Probabilmente ti addormenteresti sul sentiero.”
  “No, grazie. Buona meditazione.” Detto ciò si mise in cammino ostentando grande sicurezza. Quella prodigiosa padronanza di sé e della situazione durò in totale tre passi, perché poi Vega si ritrovò nel buio più totale. Thorin le risparmiò la vergogna di tornare indietro e la raggiunse senza dire una parola, illuminando il sentiero con la sua lanterna.
  Durante il tragitto parlarono un poco, e Thorin scoprì che Vega si rifugiava presso l’abete perché non voleva che suo padre, un mercante di stoffe, scoprisse che lei voleva fare l’intagliatrice. Si sarebbe esercitata in segreto fino a che non fosse diventata abbastanza brava da mostrargli il suo talento.
  “L’orso è molto ben fatto”, le concesse Thorin.
  “Non è ancora terminato, ma grazie.” Replicò Vega, con un inesplicabile mezzo sorriso.
 
  Senza sapersene spiegare il perché, per un paio di giorni Thorin evitò di proposito di recarsi all’abete. La sua scusa ufficiale era che non c’erano argomenti sui quali gli premesse meditare, ma la realtà era che ne aveva fin troppi, e nessuno di questi riguardava la politica di Re Thror.
  Dopo aver molto riflettuto, il giovane principe decise di rischiare il tutto per tutto, e andò all’abete nel primo pomeriggio, certo di trovarvi Vega. Le sue speranze si rivelarono tuttavia malriposte, perché lei non era lì, e Thorin si diede dell’idiota. Aveva dato per scontato di trovarla, ma anche se avevano il loro patto non era detto che ogni giorno vi si recassero, tantopiù che lui stesso aveva mancato l’appuntamento, nei giorni passati.
  Tanto peggio. Si era comportato da sciocco, e quello era il giusto castigo. Promise a se stesso che non avrebbe più indugiato in simili pensieri insensati e tornò a palazzo. Ormai l’abete rosso non lo attirava più granché. Avrebbe fatto meglio a evitarlo per un po’.
 
  “Quindici giorni, Thorin! Per quindici giorni, nessuno escluso, mi sono presentata qui solo perché speravo di vederti!”
  “Ma i tuoi intagli…”
  “Che crepino soffrendo, gli intagli! Io volevo vedere te e tu non c’eri.”
  Thorin si sentì punto sul vivo. “Sono venuto tre giorni dopo averti accompagnata a casa, era pieno pomeriggio e tu non eri qui”, disse in tono accusatorio.
  Pareva una debole diga contro il fiume dei rimproveri di Vega, ma fu sufficiente a farla esitare un attimo. “Tre giorni dopo che… – non completò la frase, non ce n’era bisogno – sono venuta qui al tramonto, sperando di trovarti.”
  Nessuno dei due aveva il privilegio di una personalità che consentisse di scusarsi di fronte a un errore, per evidente che fosse, ma in quell’occasione furono in grado di vedere oltre e porre fine a un litigio che a ben guardare non era nato per separarli, ma per unirli.
  A partire da quell’occasione, quello divenne il loro posto, dove Thorin e Vega impararono a condividere pensieri, arte, i lunghi silenzi nei quali entrambi amavano immergersi e perfino un primo bacio, immancabilmente seguito da altri.
 
 
 I mesi videro evolversi la relazione tra i due giovani, e seppur con le dovute insistenze Vega conobbe finalmente la famiglia di lui, riscuotendo particolare successo con Dìs, la sorellina di Thorin, che espresse il desiderio di tenersi lei come sorella e di lasciare da parte Thorin, che a suo dire non le serviva a nulla, visto che di fratello ne aveva già uno. Più dell’entusiasmo di Dìs, però, contava il tiepido consenso ottenuto da parte di Norla, granitica madre di Thorin. Non era una Nana da manifestare apertamente affetto, ma già il fatto che non avesse opposto resistenza significava molto, e Vega provò istintivamente un gran senso di stima e rispetto nei suoi confronti.
  “L’unica incognita resta mio padre, ma credo che lui troverebbe qualcosa da ridire pure se tu fossi il Re in persona”, scherzò Vega, mentre lei e Thorin erano come di consueto sotto il loro abete. La neve si era ormai sciolta del tutto, dando ufficialmente inizio alla breve ma graditissima estate di Erebor.
  Vega era avvezza ai lunghi silenzi di Thorin, ma aveva anche imparato a decifrare i suoi pensieri.
  Il fatto era che ultimamente Re Thror si era fatto sfuggente e trascorreva giorni interi nella sala del tesoro, dimenticando se stesso e il suo popolo, lasciandosi avvolgere dalle spire di un’ossessione senza fine che faceva inorridire Thorin.
  Soltanto una volta Vega era stata in presenza del Re, ed era rimasta raggelata da quel che aveva visto: un uomo talmente consumato dalla smania di potere da essere controllato da esso. Non più un Re, non più un padre, non più un nonno, nient’altro che uno schiavo.
  Per Vega la cosa peggiore era la consapevolezza di non poter fare o dire alcunché per alleviare il tormento di Thorin, che pativa a sua volta l’impossibilità di aiutare suo nonno, ma finché erano insieme potevano crogiolarsi nell’illusione che i problemi appartenessero solo a quelle terre infelici che circondavano l’oasi perfetta offerta dal loro abete rosso.
  “Tra due giorni partirò per accompagnare mio padre in uno dei suoi viaggi. Non ha voluto dirmi dove andremo, e sospetto che sia perché teme che tu ci seguiresti. Tornerò tra un mese, forse due.”
  Convenuto che la Montagna Solitaria sarebbe rimasta lì dov’era, i due si separarono pacificamente, anche se l’intensità del loro bacio d’addio fu tale da rendere Thorin un detentore più meritevole dell’abete dell’aggettivo ‘rosso’.
 
 
  Dapprima udirono un rumore come d’uragano provenire dal nord. I pini sulla montagna scricchiolavano e si schiantavano nel caldo vento secco.
  L’abete non fu più fortunato. L’angolo defilato della montagna sul quale si stagliava e la vicinanza con le chiare acque del fiume non lo protessero a lungo dalle fiamme devastatrici del Drago, ma servirono solo a protrarre l’agonia del suo rogo.
  Le difese tirate su frettolosamente non servirono neppure a rallentare il Drago, che si diresse verso l’oggetto della sua cupidigia travolgendo qualunque cosa si trovasse sul suo cammino: ogni resistenza fu futile, e fu presto chiaro che l’unica opzione per la sopravvivenza fosse dichiararsi sconfitti e abbandonare la Montagna Solitaria, ormai dominio di Smaug.
  Mentre si allontanava dalle macerie roventi di Erebor e si metteva a capo della colonna di esiliati, credendo di leggere su ognuno di quei volti un muto rimprovero diretto alla casata reale – a lui – che non era stata in grado di difendere il suo popolo, l’unica consolazione di Thorin era che Vega era lontana. Vega era salva.
 
  Thorin non si concesse il lusso di anteporre i propri interessi a quelli della sua gente, e rendendosi conto dell’impossibilità di contattare la propria amata concentrò i propri sforzi nel tentativo di risollevarsi dalla disgrazia che si era abbattuta su tutti loro. Chi poteva approfittò dell’aiuto e dell’ospitalità di parenti lontani, e alcune piccole comunità di Nani iniziarono a insediarsi anche nei villaggi degli Uomini, combattendo contro moltitudini di pregiudizi. Dopo mesi di peregrinazioni il gruppo dei nomadi si ridusse fino a disperdersi del tutto.
  Occorsero lunghi anni perché la stirpe dei Durin riuscisse a rimettersi in piedi, e quando Thorin poté finalmente abbandonare i lavori occasionali nelle forge e dedicarsi al commercio iniziò a documentarsi sulle rotte tradizionalmente seguite dai mercanti di stoffe che partivano da Erebor e da Dale, nella speranza di riuscire a ricostruire il percorso e iniziare a rintracciare Vega.
  La fortuna non gli fu mai alleata, e col trascorrere del tempo i suoi tentativi di ritrovarla diminuirono inesorabilmente fino a cessare. Ma la maledizione dei Nani è che amano solo una volta e per sempre, e Thorin non faceva eccezione. Nel suo cuore  albergavano l’odio per il Drago, dissacratore di Erebor, e l’astio per gli Elfi, schierati per assistere alla devastazione dei Figli di Aulë, ma per quanto sepolto, lontano e doloroso, ci sarebbe sempre stato anche il ricordo di Vega.
 
 
 
  Aveva scordato l’oggetto più importante, talmente abituata a tenerlo nascosto da dimenticarsene nel momento più inopportuno. Il viaggio in solitaria con suo padre le sarebbe servito per rivelargli i suoi progressi nell’arte dell’intaglio. Avrebbe portato con sé il suo pezzo migliore, la statuetta d’orso, che aveva finalmente ultimato; brusco e minaccioso da un lato, bastava girarlo perché l’orso rivelasse fattezze mansuete e perfino affettuose. L’intaglio era stato curato minuziosamente, a partire dalla scelta del legno, e l’orso era realistico pur nelle sue espressioni umanizzate.
  Sia che ricevesse o meno la benedizione di suo padre, Vega era poi intenzionata a donare la figurina a Thorin e a godersi la sua espressione imbronciata quando gli avrebbe spiegato che l’orso era lui – perché lo era, senz’alcun margine di dubbio.
  Dopodiché avrebbe sfruttato il momento di confusione derivante dal suo imperituro odio per le metafore e le prese di giro sottintese e gli avrebbe chiesto di sposarla. Con calma, certo, di lì a un centinaio d’anni o poco meno, ma voleva portarsi avanti prenotandolo fin da subito.
  Vega stava uscendo di casa, affrettandosi per raggiungere il padre, quando si udirono i primi corni d’allarme.
  E il mondo divenne di fiamma.
  Un crudele fumo nero offuscava la vista, intralciando la fuga, e il mero passaggio del Drago bastò a provocare frane rovinose, bloccando molti sventurati all’interno della montagna. Vega, sola e terrorizzata, si trovò a seguire un gruppo che si dirigeva verso l’unica speranza di salvezza: l’angusto passaggio della guardina a ovest.
 
 
 
  “Non morirò in questo modo. Acquattato, arrancando per respirare. Se la cosa finirà tra le fiamme, allora bruceremo tutti insieme.”
  Nella devastazione di una miriade di corpi mummificati e ammassati l’uno sull’altro Thorin fu in grado di ridestare un barlume di fiducia, o perlomeno di disperata iniziativa nella sua compagnia: avrebbero ucciso il Drago o sarebbero periti nel tentativo, opponendosi all’idea di una morte passiva. Perfino quelle vittime sciagurate parevano fissarli con le loro orbite vuote, pregandoli di non cedere e non rassegnarsi come erano stati costretti a fare loro.
  La compagnia di Thorin Scudodiquercia si mosse per affrontare quella che forse sarebbe stata la loro ultima sfida, e nessuno di loro notò che uno dei cadaveri stringeva in una mano la statuetta di un orso.
 
  
  
Leggi le 7 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Il Signore degli Anelli e altri / Vai alla pagina dell'autore: Charme