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Autore: _Wild_Heart    07/11/2014    1 recensioni
"La vibrazione insistente faceva tremare il cuscino sotto il quale aveva nascosto il suo telefono sperando che a nessun altro potesse giungere quel richiamo all’avventura. Sì, avventura, perché era di questo che si trattava infondo. Nessuna certezza e nessuna raccomandazione. Solo una promessa che sembrava provenire da un’altra vita."
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo quattro.
"What happened to Connor?"

   Brad non aveva fatto altro che pensare alla reazione di Lucinda sul treno. Per tutto il pomeriggio aveva provato una strana sensazione alla bocca dello stomaco. La cosa che lo turbava di più era che non era riuscito a chiarirsi con Lucinda. Per tutto il resto del viaggio non si erano visti e una volta arrivati a Parigi lei si era chiusa nella sua stanza senza parlare con nessuno dei ragazzi. Brad aveva cercato per ore di trovare una scusa per poter andare da lei e parlarle, ma nessuna era abbastanza valida. Quando ormai aveva scartato tutte le sue possibilità gli venne in mente la semplice cosa di andare da lei e invitarla ad uscire quella sera. In fondo era lecito che lui cercasse di conoscerla meglio visto che lei gli era stata in qualche modo “affidata”. Uscì dalla sua stanza e lungo il tragitto pensò a cosa dirle. Sarebbero potuti andare a cena da qualche parte nel quartiere o magari trovare qualcosa da visitare di sera. Avrebbero potuto chiedere alla reception. Per Brad la cosa più importante era passare del tempo con lei a tutti i costi. Arrivò davanti alla sua porta e la sua mente si svuotò completamente di tutti i piani che aveva fatto. Dovette bussare a lungo prima di veder comparire Lucinda sulla porta. Indossava un paio di pantaloni del pigiama a righe e una canotta larga verde pistacchio. Il tutto era accompagnato da un asciugamano rosa che portava sulla testa come un turbante. Brad pensò che evidentemente era sotto la doccia e per questo aveva impiegato tanto per aprire la porta. Perfetto. Adesso sarebbe stata ancora più scocciata nel vederlo. Infatti Lucinda non appena lo vide sospirò rumorosamente.
«Cosa ci fai qui?»
Brad credette che da un momento all'altro Lucinda lo avrebbe fulminato. Magari sotto l'asciugamano si celavano i serpenti di Medusa. Avrebbe fatto meglio a scusarsi, ma non riusciva proprio a trovare le parole.
«Brad hai bisogno di qualcosa? Sarei molto stanca e vorrei andare a dormire»
«Veramente volevo chiederti se ti andava di uscire, ma suppongo che tu preferisca metterti a dormire»
Lucinda sembrò sorpresa. Non si sarebbe aspettata che, dopo il modo in cui l'aveva trattato, Brad sarebbe tornato all'attacco così in fretta.
«Si infatti. È stata una lunga giornata. Ci vediamo domani, Brad»
«Buonanotte, Lucinda»
Lucinda aveva colto la tristezza nel saluto di Brad? Lui non poteva saperlo e tornò nella sua stanza. Constatò che la strana sensazione allo stomaco c'era ancora.
 
Judith continuava a passeggiare avanti e indietro sulla banchina in attesa di Tristan. Lui era in ritardo. Judith era arrivata all'appuntamento con un quarto d'ora di anticipo, separandosi a malincuore dalle stradine di Parigi. Fin da quando era molto piccola aveva sognato di andarci. Poi con il passare degli anni il suo desiderio era cresciuto talmente tanto che aveva deciso che quella sarebbe stata la meta del suo viaggio di nozze. Invece ora eccola lì da sola in attesa di quel ragazzo di cui aveva solo sentito parlare. Il suo telefono iniziò a diffondere nell'aria “La vie en rose” e lei lo estrasse in fretta dalla tasca dei suoi jeans larghi.
«Pronto?»
«Pronto Jude? Finalmente! Tutto bene?»
«Certo mamma. Sto aspettando che la mia compagna di stanza scenda per andare a cena»
«Tesoro, i vostri insegnanti non vi lasciano uscire da sole la sera vero?»
«Mamma non preoccuparti siamo tallonate ventiquattro ore su ventiquattro. Sta andando tutto a meraviglia e i francesi non usano le baguettes come armi. Non ti agitare»
«Va bene, ma fatti sentire, altrimenti sarò costretta a chiamare la tua professoressa»
«Mamma non ce n'è bisogno. Ci sentiamo domani»
«Ok. Buon divertimento!»
Judith riagganciò tirando un profondo sospiro. Aveva rischiato di far saltare la sua copertura soltanto perché nel pomeriggio aveva rifiutato quattro chiamate di sua madre poiché troppo occupata a gironzolare. Quella situazione l'avrebbe esaurita. Lo sapeva. Sua madre la credeva in Francia per uno stage con la scuola. Se soltanto avesse saputo che sua figlia si trovava a Parigi tutta sola, sulla tracce di un gruppo di ragazzi, avrebbe dato di matto. Judith era sempre stata una che si gettava a capofitto in tutte le cose e che si lasciava guidare sempre dall'istinto e dai sentimenti del momento. Il suo istinto ora le diceva che qualcosa dovesse essere successa a quel ragazzo. Si strinse ancora di più nella sua giacca e guardò il suo riflesso nella vetrina della panetteria lì di fronte. Pensare che si era data tanto da fare per essere il più carina possibile. In fondo l'aspettava un giro in battello con un ragazzo, ma guardando il suo riflesso esso non faceva altro che ricordarle un pulcino spennacchiato. Negli ultimi minuti il cielo si era incupito e un vento fastidioso si era alzato. Nonostante i suoi capelli fossero corti aveva comunque finito col raccoglierli un uno chignon, ma alcune ciocche ovviamente sfuggite all'elastico continuavano a finirle negli occhi. Mentre controllava per l'ennesima volta l'ora sul suo cellulare, il primo tuono si sentì in lontananza. Ci mancava solo la pioggia. Ormai Tristan era in ritardo di quaranta minuti, ma Judith non voleva arrendersi. Si tolse lo zaino dalle spalle e lo aprì per controllare di nuovo di non aver dimenticato la fatidica lettera. Essa fortunatamente era proprio dove avrebbe dovuto. La ragazza cominciava a sentire la stanchezza di un'intera giornata passata in giro e senza pensarci due volte si sedette sul bordo del marciapiede. I passanti cominciavano ad affrettarsi a rientrare nelle loro case o quantomeno a mettersi al coperto. Il cielo di Parigi era una copia esatta di quello sempre nuvoloso di casa sua. Guardando esclusivamente i tetti dei palazzi e la coltre di nubi Judith aveva la sensazione di essere ancora a Londra. Reclinò la testa all'indietro e poco dopo sentì la prima goccia d'acqua colpirle la fronte. Con una velocità inaudita ne arrivarono altre fino a formare un perfetto acquazzone estivo. Judith saltò immediatamente in piedi e andò a ripararsi sotto l'arco di un portone.
Tristan nel frattempo si era perso almeno un migliaio di volte. Se aggiungiamo il fatto che non sapesse mettere insieme neanche una semplice frase in francese e che tutti erano restii nel dare indicazioni precise, credeva che ormai chiunque gli avesse dato l'appuntamento se ne fosse andato via. Inoltre la pioggia lo aveva sorpreso poco prima di arrivare al luogo prestabilito, ma si era detto che valeva la pena fare un tentativo. Arrivato alla banchina zuppo fradicio non vide nessuno, ma realizzò soltanto in quel momento che non aveva idea di chi dovesse cercare. Nello stesso istante attraccò un battello turistico. Tristan allora lesse l'insegna sopra il chiosco poco più avanti che diceva “Bateaux”. Assistette alla discesa affrettata di una folla di almeno venti persone che una volta toccata terra iniziarono a correre verso la fermata della metro. Nessuno di loro aveva mostrato interesse per lui.
Judith intanto si disperava poiché il chiosco aveva chiuso annunciando che a causa del maltempo i battelli non sarebbero più usciti. Il suo piano era andato completamente in fumo, ma d'altronde Tristan non si era fatto vivo. Avvilita e dispiaciuta uscì dal suo riparo decisa a correre in albergo. Ma a pochi metri di distanza da lei vide un ragazzo immobile sotto l'acqua.
 
Echo era sdraiata sul letto matrimoniale della suite d’albergo, a testa in giù e con le gambe addossate al muro. Contro l’orecchio aveva premuto il suo telefono cellulare di bassa fattura, mentre dall’altro capo il suo migliore amico le raccontava gli avvenimenti verificatisi a Londra nell’ultima settimana.
Echo era arrivata a Parigi circa un paio d’ore prima: giusto il tempo di sgomberare le sue valigie, spargere qualche vestito in giro per la stanza, farsi una doccia ed indossare una grossa maglietta dell’università di suo fratello. Ora sembrava che in quella stanza – dove il pavimento che in precedenza era di un lussuoso tipo di moquette bordeaux, ora era tappezzato di vestiti, coperte e scarpe – fosse passato un tornado che aveva sconvolto tutto. Dall’altra parte della suite, separata dalla zona-letto da un semplice arco, il televisore era stato acceso e sul divano era appallottolato un asciugamano umido rosa in mezzo ai cuscini; lo stereo, nel frattempo, riproduceva una canzone del cd che il suo amico le aveva regalato quando aveva compiuto quindici anni e che Echo portava sempre con se’. Il volume era talmente alto che persino Simon stesso se ne era lamentato dall’altro capo del telefono.
Fuori dalla finestra il sole stava ormai calando, ma continuava a diffondere i suoi raggi contro il cielo privo di nuvole, che Echo sapeva non sarebbe durato per molto; l’avevano avvertita che a Parigi la concentrazione di piogge era molto simile a quella londinese.
«E quindi Lisa ed Alex si sono lasciati!» esclamò l’amico.
Echo sbuffò e si arrotolò una ciocca di capelli fra le dita.
«Vorrei che fossi qui» farfugliò malinconica senza preoccuparsi del fatto che le sue parole potessero essere fraintese: ormai tra lei e Simon c’era quel rapporto di fratellanza tale che persino i loro genitori si erano abituati a vederli dormire e passare la maggior parte della loro vita insieme.
«Potresti spiegarmi dov’è esattamente questo “qui”?»
Echo non poté evitare di sorridere.
«Te lo direi, se potessi»
«Lo so» rispose Simon.
E lo sapeva davvero; nella sua voce non c’era il minimo risentimento, si sentiva quella nota calda che l’aveva sempre caratterizzata ed Echo per un attimo si sentì come se Simon fosse stato lì con lei in carne ed ossa.
«Fammi un favore: – cominciò – se mia madre ti chiama dille che sto bene»
«Da quanto tempo non rispondi alle sue chiamate?» domandò lui sospirando.
Prima che Echo potesse ribattere, però, qualcuno bussò alla porta della sua stanza. Nonostante il volume troppo alto della musica era riuscita a capire che quel qualcuno era stato lì a bussare per parecchio tempo prima che lei potesse accorgersene, poteva riconoscerlo dalla potenza con la quale i pugni si scagliavano sul legno.
«Ti devo lasciare» Echo sbuffò irritata e, dopo aver salutato Simon, chiuse la telefonata.
Solo allora si accorse che molto probabilmente era stata al telefono molto più tempo di quello che pensasse, dato che il sole ora si era nettamente abbassato dietro alla collina rispetto a quando aveva risposto alla chiamata. Una nuova scarica di pugni la fece risvegliare dai suoi pensieri; si avviò a passo stanco verso la porta e guardò nello spioncino per trovare oltre il vetro un improbabile James con un paio di pantaloni di una tuta grigi. Echo non poté fare a meno di spalancare gli occhi, si diresse a ritroso verso il letto e si infilò alla svelta un paio di eccentrici pantaloncini color ciclamino nonostante la maglietta gli arrivasse a metà coscia. James bussò di nuovo ed Echo si ritrovò a pensare che fosse il ragazzo più ostinato che avesse mai incontrato.
Quando aprì la porta, sul volto del ragazzo apparve un’espressione che le fece pensare al fatto che molto probabilmente lui non si aspettava di trovarla lì; o più semplicemente Echo aveva qualcosa di strano sul viso di cui ignorava l’esistenza. Accantonò alla svelta questa ipotesi. Dato che James la fissava ancora così insistentemente – come le era successo in precedenza, lo stesso giorno, sul treno – roteò gli occhi e disse: «ti serve qualcosa?»
James scosse la testa e tornò per un attimo nel mondo dei vivi, rendendosi conto che era rimasto a fissarla per troppo tempo. In realtà in quei secondi si erano scatenate dentro di lui numerose sensazioni diverse: stupore (perché non pensava di trovare Echo nella stanza adiacente alla sua), senso di colpa (perché fino ad un secondo prima l’aveva mentalmente insultata per il volume troppo alto della musica) e piacere (perché aveva in qualche modo percepito che non poteva essere un caso se anche quella sera avrebbe potuto passarla in sua compagnia).
James si schiarì la voce.
«Ehm… Ero solo venuto a chiederti di abbassare il volume della musica. Non sapevo che fossi la mia vicina di stanza»
Echo alzò un sopracciglio. In realtà poco tempo prima aveva visto uno dei suoi amici uscire da quella suite un tantino indaffarato, quindi aveva potuto immaginare che quei tre alloggiassero accanto a lei.
«Ho potuto constatare tutto ciò poco fa. Comunque scusami, a volte non mi accorgo del volume troppo alto»
Per la prima volta James vide affiorare sulle sue labbra un sorriso che non voleva accompagnare nessun tipo di presunzione, bensì quelle che sembravano… delle scuse? James era piuttosto sorpreso. Non ebbe neanche il tempo di pensare a quello che stesse facendo che, nel momento in cui Echo stava chiudendo la porta davanti al suo naso, egli vi aveva già infilato un piede per evitare che questa si chiudesse. Echo sembrava un po’ riluttante a continuare quella conversazione.
«Ti serve altro?» domandò, quindi, confusa.
James si grattò una guancia, «veramente mi chiedevo se ti andasse di stare un po’ con me… Brad è di cattivo umore e Tristan ha quello strano incontro al porto». Disse tutto d’un fiato per evitare che le inibizioni potessero fargli rimangiare tutto. Un leggero rossore gli aveva subito colorato le guance.
Echo titubò per un secondo; aveva capito che mettere davanti alla faccia una maschera da dura non era bastato con James. Lui aveva capito che tipo di ragazza fosse e ormai per tutto ciò non poteva fare nulla. In realtà le piaceva che per una volta qualcuno si interessasse a lei; che poi si trattasse di un ragazzo estremamente carino e che ad Echo piaceva era tutta un’altra storia. James le piaceva, sì. Non come le era piaciuto il suo primo ragazzo e nemmeno come le piaceva Simon; James le piaceva in un modo del tutto diverso e nuovo. Scosse la testa perché aveva deciso che era rimasta a pensarci per troppo tempo. Aprì ulteriormente la porta con gesto plateale delle braccia e tornò a sedersi a gambe incrociate sul letto. Anche se non aveva propriamente dato il permesso a James di entrare, lui aveva comunque varcato la soglia di quella stanza ed era rimasto a guardare inorridito lo spettacolo che aveva davanti.
«Beh – esordì Echo – non so a chi tu ti stia riferendo, ma spero ti piacciano i film strappalacrime»
James chiuse la porta dietro di se’ e sorrise.
 
Aveva i capelli biondi attaccati alla fronte e Judith notò che le sue sottilissime gambe stavano tremando strette nel tessuto poco protettivo dei suoi jeans scuri. La ragazza gli sorrise ma si rese conto che probabilmente lui non poteva notarlo così gli fece cenno di avvicinarsi con la mano e tornò sotto l'arco del portone.
Tristan rimase impalato a guardare la ragazza che si allontanava verso il palazzo. Sembrava che lei lo avesse riconosciuto subito mentre lui era certo di non averla mai vista in vita sua. Tristan non sopportava più l'acqua che gli scorreva lungo il collo e la schiena e sperò con tutto se stesso che la ragazza conoscesse un punto in cui ripararsi. La raggiunse correndo ed entrambi si fermarono sotto l'arco guardandosi impacciati. Adesso che lo aveva a pochi centimetri Judith doveva ammettere che le foto che aveva visto non rendevano affatto giustizia a Tristan. La cosa fantastica era che Judith era alta quanto lui e quindi per osservarlo attentamente non aveva bisogno di alzare gli occhi. Essere molto alti non è sempre vantaggioso. Certo è utile ai concerti o quando devi prendere da mangiare dal ripiano più alto del frigo, ma quando il tuo ragazzo ti arriva a malapena al naso la scena non è molto romantica.
Judith si soffermò sulle linee squadrate del volto di Tristan e sui suoi tratti spigolosi. Judith non poteva sapere che intanto l'altro la stava squadrando proprio come lei. Tristan solitamente in una ragazza non notava mai i tratti o il colore degli occhi. Diciamo che in fatto di donne si limitava ad apprezzare un fisico prestante e un carattere poco autoritario. In Judith non ritrovò le solite caratteristiche che gli piacevano. Ecco, se le fosse passata davanti a scuola neanche l'avrebbe notata. Non che non fosse carina, ma era abbastanza anonima. Nessuna particolarità, capelli corti, alta e senza troppe curve. Insomma una ragazza qualunque. Nella media, anche se forse più alta della media. Inoltre Tristan non capiva proprio perché non si decidesse a parlare. Non poté fare a meno di notare che lei fosse rimasta imbambolata a fissarlo e deciso a mettere fine alla faccenda al più presto si schiarì la gola.
«Ehm...ciao. Sei stata tu a lasciarmi questo biglietto?»
Tristan le mostrò il foglietto che aveva trovato nella cabina telefonica. Judith da parte sua era troppo impegnata a pensare a quanto la sua voce fosse proprio come se l'era immaginata per rispondere immediatamente.
«Eh sì. Ciao, sono Judith»
Le loro presentazioni furono interrotte da un'anziana signora che aprì il portone e inveì contro di loro spingendoli sotto la pioggia. Evidentemente in Francia ripararsi davanti al portone di qualcuno era violazione di proprietà privata. I due ragazzi si guardavano intorno in cerca di un altro riparo, ma nulla sembrava fare al caso loro. Poi Tristan notò il casotto accanto al chiosco ormai chiuso. Senza pensarci due volte corse verso di esso seguito da un'infreddolita Judith. Il ragazzo osservò la porta che non presentava nessun lucchetto o catenaccio. Evidentemente non vi conservavano nulla di valore. Sotto lo sguardo sbalordito di Judith, Tristan colpì la porta con una spallata. Essa cedette al primo colpo lasciandogli libero accesso all'interno. Tristan si fiondò a riparo e Judith lo seguì a ruota scivolando sul pavimento bagnato e finendo proprio contro il ragazzo. I due si separarono immediatamente imbarazzati. Il casotto non conteneva altro che qualche scopa e della fune gettata in terra a formare come dei cumuli. Judith si sedette su uno di essi aspettando che Tristan facesse lo stesso. Era sempre stata una ragazza tremendamente curiosa e il fatto che Tristan stesse perdendo tempo la stava innervosendo da morire. Probabilmente lei e lui avevano lo stesso numero di informazioni su tutto quello che stava succedendo, ma magari leggendo la lettera lui avrebbe scoperto qualcosa e lei avrebbe potuto fare un po' di luce sulla questione. Nervosa, cercò la lettera nello zaino mentre Tristan si era ormai seduto. Stava per porgergliela quando “La vie en Rose” sparata a tutto volume fece sobbalzare entrambi. Judith recuperò il telefono e quando lesse sul display PAPA' fu tentata di non rispondere. Anche Tristan lo aveva letto e pensò che lei non volesse rispondere per non interrompere la loro conversazione, che tra l'altro non era ancora iniziata.
«Secondo me dovresti rispondere. I genitori sanno essere molto apprensivi e si preoccupano se rifiutiamo le loro chiamate»
«Non immagini neanche quanto»
Judith fece un respiro profondo e accettò la chiamata preparandosi al discorso di suo padre.
Tristan non avrebbe voluto origliare, ma l'uomo dall'altra parte della cornetta stava gridando, quindi sarebbe stato impossibile non ascoltare le sue parole. Judith da parte sua sembrava indifferente. Nonostante suo padre le stesse dicendo che al suo ritorno l'avrebbe messa in punizione a vita e che un altro passo falso l'avrebbe portata direttamente all'accademia militare, Judith sembrava addirittura annoiata. Se fino a poco prima il ragazzo non aspettava altro che la lettera per potersene andare via, adesso voleva sapere a tutti i costi cosa avesse combinato Judith.
«Va bene papà. Ci sentiamo domani. E comunque la mamma aveva chiamato poco fa. Anche se non vivete più insieme potreste almeno organizzarvi in orari diversi per farmi la ramanzina»
Judith lanciò il suo telefono nello zaino chiudendo la zip e si sistemò meglio incrociando le gambe. Fece un respiro profondo e senza dire nulla porse la lettera a Tristan. Il ragazzo la prese, ma invece di aprirla la infilò nella tasca laterale dei jeans. Poi si ricordò di essere zuppo e la tolse tenendola semplicemente tra le mani per paura che si rovinasse.
«Allora cosa hai combinato per aver fatto arrabbiare tuo padre in quel modo?»
«Scusami?»
«Hai capito benissimo. Cosa hai fatto?»
Judith era interdetta. Da quando in qua uno sconosciuto si intrometteva negli affari di una completa sconosciuta? Poi avevano ben altro da fare piuttosto che conversare. Non le importava che fosse un ragazzo bellissimo, con una splendida voce e delle mani perfette. Ok, aveva iniziato a delirare.
«Perché dovrei dirtelo? Non sono affari tuoi»
Tristan le rivolse un sorriso beffardo e si sporse pericolosamente verso di lei.
«Perché mi hai incuriosito e io ottengo sempre quello che voglio»
Judith stava iperventilando. Doveva calmarsi.
«Non dovresti leggere la lettera? Non muori dalla voglia di sapere cosa sta succedendo?»
«Si, ma prima vorrei capire se sto avendo a che fare con una criminale ricercata»
«Non sono una ricercata, è solo che i miei si preoccupano troppo e mi credono in viaggio con la scuola»
Judith non avrebbe dovuto rivelare quel particolare a Tristan, perché ora che aveva un indizio in più non si sarebbe fermato davanti a nulla.
«Ah allora stai ingannando i tuoi! Perché? Cosa c'entri tu con la storia di Connor e le lettere?»
Judith temeva che se lui avesse continuato a farle domande, lei avrebbe spiattellato tutta la verità. Ormai la lettera era stata consegnata. Doveva andarsene da lì. Si alzò in piedi e fece per uscire, ma Tristan le sbarrò la strada.
«Dove credi di andare? Ho bisogno di risposte. Chi sono le altre ragazze delle lettere e perché ci state seguendo? Cosa è successo a Connor?»
Tristan non era consapevole del fatto che stesse perdendo il controllo. Senza neanche accorgersene aveva stretto i polsi di Judith. Soltanto ora aveva cominciato a rendersi conto di quanto quella situazione lo avesse stressato. Non aveva mai avuto il tempo di fermarsi a ragionare su tutta la faccenda. Anche se non voleva ammetterlo era spaventato, forse per la prima volta in vita sua. Nessuno di loro sapeva dove l'avrebbe portati quella faccenda e soprattutto non sapevano quando sarebbero tornati a casa e se avrebbero mai trovato Connor. Ciò che lo infastidiva di più era che per quelle ragazze il tutto sembrasse un maledetto gioco. Stava inconsciamente scaricando tutta la sua rabbia su quella ragazza.
Anche Judith era spaventata. Non avrebbe mai immaginato che la serata avrebbe preso una simile piega. Negli occhi di Tristan vedeva rabbia, frustrazione, ma peggio di tutto, paura. Non sapeva come affrontare la situazione e inoltre la stretta di Tristan le stava facendo male.
«Tristan lasciami. Mi stai stringendo»
Tristan allora si accorse delle sue mani strette saldamente attorno ai polsi di Judith. Si staccò immediatamente come se si fosse scottato. Judith allora aprì la porta e si gettò di corsa in strada sotto la pioggia che aveva continuato a cadere imperterrita rendendo l'ormai notturno cielo parigino una cappa di grigio.
 
James fissava insistentemente il vetro della grande finestra della stanza con sguardo vacuo e piuttosto perso. Era iniziato a piovere circa mezz’ora prima ed ora le gocce che vagavano nel buio battevano sul vetro con tanta violenza che sembravano rispecchiare l’inquietudine di James. Dal momento in cui aveva lasciato Londra, quella preoccupazione per il fatto di non sapere dove stesse andando e perché non lo aveva abbandonato nemmeno per un minuto. Si passò stancamente una mano sul viso e poi la strofinò contro il vetro per rimuovere da esso il sottile strano di condensa che si andava formando. Oltre esso, erano poche le luci che facevano capolino nel buio della metropoli. Sebbene fosse piena estate, le temperature avevano avuto un picco tremendo dal pomeriggio alla sera ed ora – sebbene James fosse al chiuso e al riparo dalla pioggia – non poteva evitare di rabbrividire leggermente per il freddo nonostante avesse una felpa addosso. Non riusciva, inoltre, a capire come il clima fosse passato da una calda giornata estiva a quello che sembrava un vero e proprio temporale. Un rumore sordo proveniente dalle sue spalle lo fece risvegliare dai suoi pensieri; per un attimo aveva quasi dimenticato che la camera d’albergo nella quale si trovava non era la sua, ma quella di qualcun altro. Osservò Echo riemergere dalla penombra con un paio di candele nella mano sinistra ed un mucchio di coperte sotto l’altro braccio. La corrente elettrica era ormai fuori uso da una dozzina di minuti e quell’albergo sembrava non avere un generatore di emergenza. I nervi di James erano tesi come una corda di violino: non era preparato ad affrontare una situazione del genere; perché, poi, un albergo così importante non poteva provvedere a tutto ciò? Doveva essere la sua giornata sbagliata.
Echo, d’altro canto, sembrava che non avesse aspettato altro che quel blackout per sfoggiare il suo indomabile istinto di sopravvivenza. Teneva le candele con tanta foga che James temeva gli si sarebbero spezzate in mano.
«Fortuna che c’erano queste!» esclamò lei agitando gli oggetti.
Le aveva trovate nel cassetto del comodino ed aveva tirato un sospiro di sollievo nel vederle; sebbene non ci teneva ad essere particolarmente preparata per quella situazione, il buio l’aveva sempre intimorita un po’.
James la guardò attentamente per un secondo: al buio i suoi occhi erano di un colore che tendeva più al grigio che al verde e i capelli che erano legati in una coda di cavallo ne erano usciti fuori a grandi ciuffi ed ora le incorniciavano il viso pallido dalle guance arrossate. James si ritrovò a pensare, ancora una volta, che fosse davvero bella in ogni suo modo. Sospirò lasciando che la tensione lo abbandonasse insieme a quel respiro. Echo si stava già impegnando per riporre le candele in un candelabro annerito di stampo barocco, mentre la cera nera cominciava a colare sul tavolinetto basso tra il televisore e il divano. Su di esso ormai campeggiavano dei cartoni fumanti di cibo d’asporto cinese. James aveva lo stomaco troppo in subbuglio per metterci qualcosa dentro.
Raggiunse Echo che era seduta sul divano con le gambe incrociate. Quando notò che un brivido le aveva causato la pelle d’oca provò un’irrefrenabile voglia di abbracciarla e stringerla forte. Batté gli occhi: si era sempre attaccato troppo alle persone e troppo presto. Si sedette al suo fianco e cercò di ingerire un po’ di cibo, ma lo stomaco gli brontolava troppo forte. Echo sembrò notare questo suo cambiamento improvviso e gli si avvicinò pericolosamente.
«Va tutto bene?» domandò titubante posandogli una mano sul braccio.
Non ricordava quando fosse diventata così premurosa nei confronti di qualunque altra persona. Nel momento in cui le loro pelli si sfiorarono, James sentì una scintilla partire dal punto in cui la mano di Echo era poggiata su di se’ e senti un brivido percorrergli la schiena. Non avrebbe dovuto sentirsi in quel modo davanti ad una ragazza che conosceva appena. Nonostante avesse voglia di raccontarle quanto fosse nervoso e quanta voglia avesse di rivedere Connor e tornare a casa, James si strinse nelle spalle. Ma se Echo aveva imparato in quegli unici due giorni che James era il ragazzo più ostinato che avesse mai conosciuto, lei lo sarebbe stata ancora di più. Era decisa ad andare in fondo a quella storia.
«A me sembra che ci sia qualcosa che non va. Vorresti parlarne?»
James, come se fosse travolto da un fiume in piena iniziò a tirare fuori tutto ciò che gli passava per la mente in quel momento.
«Non passa minuto in cui non vorrei gridare. Cosa è successo a Connor? Cosa succede a noi? Cosa ci faccio a Parigi in questo momento con una sconosciuta? Non pensavo che l’avrei mai detto, ma mi manca mia madre più di qualunque altro momento. Vorrei tanto capirci qualcosa!»
Echo lo osservò in silenzio mentre si passava le mani fra i capelli. Sembrava così affranto che Echo non ebbe il coraggio di fare o di dire nulla per qualche secondo. Poi, come se stesse agendo secondo il volere di qualcun altro, si avvicinò lentamente a James e gli scostò le mani dal viso; i suoi occhi erano di un blu talmente profondo che Echo si ritrovò a pensare che non fossero reali. Non era sicura di ciò che volesse o non volesse fare in quel momento, ma prima che potesse collegare cervello e muscoli, le sue labbra erano già poggiate su quelle di James.
Neanche lui se ne era accorto; Echo non aveva smesso di stupirlo nemmeno per un secondo, dal momento in cui se l’era trovata sul treno fino ad allora. Le sue labbra erano esattamente come se le era immaginate: morbide calde e che sapevano di fragola. Si domandò come fosse possibile. Forse era solo frutto della sua immaginazione. Sentì che lentamente una mano di Echo gli stava accarezzando la nuca sull’attaccatura dei capelli e, nonostante non gli piacesse la sensazione di freddo che la pelle di lei emanava, la lasciò fare.
Quando si separarono, sembrò che quel bacio gli avesse portato via metà del peso che gli aleggiava sullo stomaco, ma al tempo stesso era come se questo peso fosse stato rimpiazzato da un vuoto. Forse non era durato, poi, così tanto.
La luce si accese qualche secondo dopo e James notò che ora gli occhi verdi di Echo erano intarsiati di piccole pagliuzze color oro. Si chiese se la lucentezza che riflettevano fosse dovuta al bacio di qualche secondo prima. Nonostante ciò, vide che le guance gli si erano maggiormente colorate di rosso e sorrise dolcemente senza, però, dire nulla. Echo fece lo stesso: non era mai stata così intraprendente con un ragazzo e l’imbarazzo dovuto al momento le aveva impedito di dire qualunque cosa. Forse era meglio così. Prese il telecomando del televisore e si sistemò sul divano affianco a James porgendogli una coperta e stendendosene una sulle gambe nude. Ora stargli così vicina le faceva tutto un altro effetto. Si schiarì la voce per ritrovare le parole.
«C’è qualcosa in particolare che ti va di guardare?»
James si voltò verso di lei e vide che aveva lo sguardo rivolto oltre il vetro della finestra: aveva compreso il suo imbarazzo e non era intenzionato a sottolinearlo.
«Qualunque cosa andrà benissimo»
Echo si voltò verso di lui e sorrise. Un sorriso raggiante, vero. Non sorrideva così da tempo, si ritrovò a pensare lei stessa. In un momento tutto l’imbarazzo era sparito ed Echo si sentiva come se conoscesse James da anni. Scelse un dvd che portava sempre con se’ e lo inserì nello strumento del televisore, poi si sedette nuovamente, appoggiò la propria testa sulla spalla di James e premette “play”.


Note delle autrici:
Salve mondo! Allora siamo felici di annunciare che siamo finalmente riuscite a scrivere un capitolo. Ci dispiace farvi attendere sempre così tanto, ma secondo i nostri professori alla maturità manca poco quindi ci stanno torturando. Comunque, in questo capitolo succedono molte cose e soprattutto molto in fretta. Finalmente compare anche la nostra cara Judith (secondo il nostro cervello Emily Browning) (conoscete la procedura) che avrete modo di conoscere meglio. Per qualsiasi chiarimento non esitate a contattarci e fateci sapere cosa ne pensate. Ci siamo dilungate anche troppo perciò buona lettura e un ringraziamento speciale a tutti coloro che ci seguono.
Buona serata e buon fine settimana! xoxo
  
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