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Autore: Tiger    23/10/2008    1 recensioni
storia scritta per un'amica. storia di reincarnazione, storia degli istinti umani e del delirio.
Genere: Azione, Thriller, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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succubus ( Idiòtes, ou )


Si alzò di scatto, sudato, ansante, neanche il tempo per mettere ordine ai pensieri che le immagini cruente del sogno ofuscarono la vista delle cose attorno a lui. Ancora una volta, sangue, carne, fluidi e fetore avevano dominato la sua notte. Ormai, era diventata routine. Non sognava più. O per lo meno, non nel senso comune del termine. Aveva dimenticato cosa fossero i prati, i visi amici, le sensazioni amplificate del giorno passato. Lentamente, dal nulla, una forza estranea si era impadronita di lui e aveva preso possesso della sua fase rem, in un crescendo inesorabile di immagini in bianco e nero. Come un vecchio film scolorito, un otto millimetri graffiante, colorato a mano con un pennello intriso di inchiostro rosso. Si svegliava, andava al lavoro, anche, dapprima. Aveva un lavoro rispettabile, poco impegno, soldi a sufficenza per fare la colazione al bar tutte le mattine. In mezzo a centinaia vestiti come lui, diretti ad uno stesso rispettabile lavoro, in strade uguali con palazzi uguali. Si chiedeva adesso, talvolta, come avesse fatto a non accorgersi di ciò. Non prendeva più la metropolitana da almeno due anni, ormai. Non avrebbe più saputo da che parte andare, nemmeno dove prendere il biglietto. Era tutto cambiato, pensò. E così in fretta. Si passò le mani sulla faccia, in una simulazione disperata di quel gesto mattutino e familiare che da tempo, per lui, era diventato inutile. Da due anni, in effetti. Da quella volta.
La prima volta. Si era svegliato sudato, sconvolto, aveva faticato a  riprendere contatto con la realtà. Si era attccato ai mobili della sua stanza, con il corpo, con la mente, ed aveva pianto, poi, quando - non ricordava più dopo quanto tempo - aveva cominciato a ricordare, anche da sveglio. Ma allora un caffè al solito bar aveva ancora la capacità di rimetterlo al mondo, e di mandarlo al lavoro con un po' di serenità interiore.
Era uscito con buoni voti dall'università, economia, il lavoro a portata di mano, in banca. Qualche soldo da parte, le giornate piene di numeri. Per questo, era stato subito ossessionato dall'andamento esponenziale. Lo disegnava ovunque nei momenti di lucidità, lo ridisegnava nel delirio, curve asintotiche e scomposte, tremolanti a volte o quasi ellittiche, spiraloidi. Le tracciava nel fango, nella polvere, fin sui muri scrostati delle camere in affitto, quando ancora poteva permettersele. L'andamento matematico della sua fine. Ormai non dormiva nemmeno. Chiudeva gli occhi e partiva il film, ingranava dapprima con lentezza, le figure sfuocate si animavano di modi meccanici e cominciavano il loro balletto di morte. Gli era sembrato di aver raggiunto l'apoteosi, quando aveva ricordato e contato ventiquattro corpi. Ventiquattro figure distorte e colorate di rosso da un pennarello di bambino ridevano della sua paura con sorrisi osceni. Paura, sì, all'inizio l'aveva provata. Aveva abbandonato la sua casa al sesto piano della zona residenziale sperando di lasciare dietro la porta a quattro mandate tutti i suoi mostri, i suoi incubi. Aveva creduto che fossero le mura, era stato propenso - come mai nella sua vita - a credere ai fantasmi. Al terzo motel davanti ad una cena cinese d'asporto il suo cervello aveva finalmente processato la frase intera, i suoi mostri. E aveva capito. Non c'era più nulla da fare, per lui, non aveva più senso. La sua scrivania non l'aveva rivisto, dopo.
Per un periodo, aveva spiato quei sogni come uno spettatore senza biglietto intrufolato nella cabina di proiezione, soffocato dal calore della macchina e cullato dal suo ronzio, senza poter staccare gli occhi dallo schermo che intravede appena dalla finestrella. Sveglio, aveva riempito taccuini interi di appunti giocando al detective, provò a risolvere il mistero. Aveva cercato negli archivi dei giornali, delle riviste di cronaca, ovunque gli venisse in mente. Ma gli appunti sembravano non bastare mai, mancava sempre quel qualcosa - che taluni chiamano parola chiave.
I sogni - o meglio, l'altra realtà - cominciarono a mutare. Il film cambiava, a salti, mostrando particolari sempre nuovi, singole membra, ferite aperte, spaccati di interiora o angoli di un interno macchiati da armonie di gocce rosse. Non prendeva più appunti, il solo accostare la penna al foglio lo nauseava. Come scrivere simili scene, come esprimerle? Il proprietario del Roadside Motel lo aveva cacciato come un'erinni, trovandosi un giorno le pareti del bagno imbrattate e appiccicose ovunque di delirio.
Aveva vissuto per strada, attorno ai fuochi dei senza tetto dentro scatole del supermercato marce e puzzolenti. Aveva cominciato a vedere solo pareti, nel sonno, pareti bianche e maculate che lo fissavano con scherno fagocitandolo nel loro non colore frammentato. Un pusher impietosito gli aveva passato roba scadente tagliata col gesso, le pareti le macchie avevano preso a vorticare lentamente come fiocchi di neve nel cielo d'inverno. La mattina trovarono il cartone vuoto, la bustina slabbrata e il contenuto come sabbia sparso in un disegno aberrante. L'esponenziale dei suoi mostri da una parte, quella dei suoi giorni dall'altra.
Era arrivato congelato dall'inverno, trascinandosi sulle piaghe, ai margini di una bidonville che sapeva di fogna. Gli altri derelitti si erano concessi il lusso di guardarlo con sospetto, di tenerlo lontano, uniti contro l'estraneo dal completo liso color delle pozzanghere. Aveva rubato ai disperati, ammassando cinque lamiere contorte a formare una tana lunga a mala pena quanto il suo giaciglio, di fianco al canale di scolo.
Era lì che viveva, adesso, cercando tra i rifiuti della sua vecchia vita l'indispensabile alla sopravvivenza. Aveva attaccato alle pareti in lamiera di eternit scrostato ritagli di giornali e riviste conservati a caso dal mucchio degli archivi, la carta si era consumata e l'inchiostro cancellato dopo mesi passati nelle sue tasche in compagnia delle sue mani sudate. Li aveva appesi con un nastro adesivo mangiucchiato trovato in un bidone d'ufficio, uguale a quello che aveva un tempo sotto la sua scrivania, come quella dei suoi colleghi. Non l'aveva nemmeno guardato, solo aveva stretto nel palmo il rotolo come un appiglio titanico.
Si sentì stanco, tremendamente stanco, seduto lì tra le coperte di fortuna a fissare la stessa parete di tutte le mattine, lo stesso fascio di luce satura che entrava dalla fessura e lo puntava in mezzo alla fronte facendogli sperare, ogni volta, di essere un presagio di fine. Si passò le mani sulla faccia, sporca lei e sporche loro, riuscì a scorgere appena i pochi oggetti di cui si era circondato - uno spazzolino senza setole, una gavetta di latta col cucchiaio tutto storto, buste colorate e altre cose della stessa importanza di legnetti secchi - che subito la realtà perse di consistenza. La lamiera divenne bicolore, non esistevano più i puntini ma solo larghe macchie indefinite. Rivide per l'ennesima volta i corpi trucidati, squartati. Il lezzo degli scarti umani confuse le sue nari diventando lezzo di interiora, o forse semplicemente i due erano così simili che il delirio non dovette fare troppo sforzo. Non aveva più avvicinato quei tipi agli angoli delle strade, nessuno dei loro viaggi in bustina era risultato più forte della sua genuina realtà onirica. Scostò le coperte pidocchiose e le sentì fradice di umori. Le lanciò con violenza contro una delle pareti sghembe, vedendole rosse e bianche a tratti. Ma quell'ultima violenza risultò eccessiva, per la povera baracca, che collassò in silenzio e tanta polvere sulla sua testa.
Non aveva la forza per rimetterla in piedi, si accontentò di sistemare i pezzi come le carte in un castello inventato sul tappeto, e rannicchiato là sotto non si rese conto delle lacrime che gli pulivano le guance, incapace di trattenere qualsiasi umore, senza pensare anche a quell'essudato salino.
Dal suo rifugio di bestia braccata, l'incubo crebbe in lui tanto da diventare quasi corporeo alla sua immaginazione, producendo l'apparenza di un ragazzo dal volto scavato, sporco, seduto da parte in mezzo a ragazzi come lui. I capelli gli ricadevano gonfi di unto davanti agli occhi da manicomio, fissi sulla stoffa logora ma ancora riconoscibile stretta convulsamente tra le sue dita. Come gli altri; figure varie di abbandono e disperazione. Vide il ragazzo preda di un raptus che avrebbe riconosciuto come proprio se fosse stato lucido, lo fissò negli occhi ricolmi del vorticare della sua stessa anima mentre compiva il suo rito animale, e sperimentò incosciente l'apoteosi del delirio di fronte all'atto osceno della fine.
Si accasciò scomposto riverso nella terra, il corpo scosso da tremiti convulsi e brividi di gelo al freddo impietoso del vento di settentrione, vento maledetto che portava i resti dei parchi di città, foglie morte buste del pranzo e vecchi giornali sfilacciati. Un piccolo mulinello sputò una pagina rosata nel canale, e proseguì la sua strada. Si sporse, mosso da una curiosità strascicata e raccolse quel foglio bagnato appiccicandolo sulla lamiera ondulata. E tra una curva e l'altra del metallo, comparvero le parole che a lungo aveva cercato e temuto.

                    [--le, 16 febbraio 2009.]
   [litz della polizia]
[da tempo indagato per frod]                                     [ttato giù la port]                                   [macellaio]
                     [egami sconvolgenti con il rapimento di 2]    [ragazzi]                                                     [denunciato trent'anni f]    

L'inchiostro slavato lasciava lacune enormi nel testo, ma si fermò alla parola            [carcere].

Fissò quel foglio con odio, cercò di eliminarlo lottando contro l'effetto collante dell'acqua, senz'altro risultato che unghie lacerate e sanguinanti. Si guardò le mani, le vide finalmente del colore tanto assurdamente ricercato e i lineamenti gli si contrassero in una smorfia scimmiesca di riso. La sua risata si propagò nel vento, bloccando stupiti gli altri umani sotto i tetti di metallo, ignari della provenienza di un suono così raro, da quelle parti.  
La mattina dopo - o forse era pomeriggio, non si distinguevano nemmeno più in mezzo a quel turbinare grigio e freddo - trovarono un corpo di traverso al canale di scolo, mezzo travolto dai gorghi marroni. Lo spostarono di fretta, ostruiva il canale, e spaventati lo gettarono lontano.
Tra i cumuli della discarica, una maschera dal volto deformato in un sorriso infernale sta attaccata ad un corpo spezzato e guarda il cielo, sapendo che la giustizia umana ha fallito ancora, imprigionando un innocente.



        
  
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