Sul treno, Evelyn fantasticava sulla sua nuova vita ad Ashford, con la zia Libby. Aveva salutato i genitori e le sorelle la sera prima, e aveva preparato gli abiti e gli oggetti da portarsi dietro: vestiti robusti, scarpe comode e sciarpe calde, per il nuovo lavoro che l’aspettava.
Era così eccitata!
Avrebbe voluto cantare, ballare, agitarsi sulla poltroncina…
Mangiò un pezzo di torta salata dal sacchetto marrone.
Presto avrebbe guadagnato un po’ di soldi e si sarebbe fatta una vita nuova; e in un paese così vicino alla capitale!
Evelyn Cleve, la donna lavoratrice, si disse, compiaciuta, mentre si grattava il foruncolo che prudeva.
No, no: Eve Cleve, l’infaticabile donna lavoratrice.
Eve Cleve. Evelyn ridacchiò fra sé e sè. Faceva rima. Ridacchiò un altro po’.
Il controllore, che passava in quel momento a obliterare i biglietti, le lanciò un’occhiata strana.
Evelyn smise di ridere.
Il controllore indietreggiò lentamente, e se ne andò senza annullare il suo biglietto.
Sorrideva nervosamente.
Evelyn tornò alla sua occupazione.
E.Cleve, la pioniera del lavoro femminile.
Eve, l’eroina delle fabbr…
Mentre era immersa in questo appagante attività, nel suo scompartimento entrò un giovanotto in divisa.
Evelyn raddrizzò istantaneamente la schiena e accavallò le gambe; con fare disinvolto, lo sbirciò mentre gettava il suo bagaglio nella reticella sopra il sedile.
Piegò la testa, allungò le braccia e cercò di assumere una posa da femme fatale.
Il sacchetto marrone che teneva sulle ginocchia si rovesciò.
A Greta Garbo non sarebbe successo. Probabilmente.
Dal sacchetto uscì una mela, che rotolò per lo scompartimento fino a fermarsi contro lo stivale dello sconosciuto. Ne uscirono anche parecchie briciole di torta salata.
Il giovane si chinò a raccogliere la mela, e la porse a Evelyn con mossa da prestigiatore.
Lasciò dov’erano le briciole di torta salata.
“A lei, signorina.”, le disse con un sorriso accattivante.
Afferrando la mela dalle sue mani, Evelyn sentì le orecchie bruciare, dal che capì che la sua faccia doveva avere assunto un color ciclamino.
“Gra…zie tante, Mr.--?”, balbettò Evelyn, fissandolo negli occhi. Era proprio bello, accidenti!
Il ragazzo si era seduto, e la guardava sempre sorridendo, in modo vagamente divertito. Aveva grandi occhi azzurri e un paio di baffetti sottili, alla moda.
“Sono il Caporale Damian McIntire”, si presentò.
Un caporale! Evelyn si sentì riempire di incondizionata ammirazione.
Non che sapesse che diavolo volesse dire essere un caporale.
Tantomeno che fosse giusto un gradino appena sopra il soldato semplice.
O che ultimamente facessero caporale chiunque lo chiedesse ‘per favore’.
Suonava importante, però.
Evelyn Cleve, la graziosa accompagnatrice del Caporale
McIntire.
Evelyn diede un’occhiata alle spalline coi gradi.
Lo guardò in viso, con un sorriso estatico, e si accorse che lui la stava fissando con aria perplessa.
“Evelyn, uh, Cleve. Piacere.” Si affrettò allora a dire.
Pensò di aggiungere l’infaticabile donna lavoratrice, poi lasciò perdere.
“Piacere mio, Miss Cleve.” Si strinsero cerimoniosamente la mano.
Evelyn tentò di prendere una posa naturale. La poltroncina scricchiolò un po’.
Tornò alla posizione originaria.
“Mi dica… Va a Londra, caporale?” chiese, in quella che sperava fosse una voce sensuale e adulta.
Addentò la mela con fare provocante. Un rivolo di succo appiccicoso le scivolò dentro la manica.
“No, ad Ashford. Il mio plotone è a Londra, però.”, disse, orgoglioso.
Evelyn strabuzzò gli occhi. “Davvero?”, squittì.
Coraggioso, oltre che bello, pensò.
Lo immaginò sovrastare un campo di battaglia con le mani sui fianchi, col mantello che sventolava dietro di lui, illuminato da una luce divina.
Con solo il mantello.
“Proprio così, signorina. E l’addestramento è duro.” E dicendo l’ultima frase sollevò la manica sinistra dell’uniforme, mostrando una candida fasciatura sull’avambraccio.
“Se l’è fatta in battaglia?”, chiese Evelyn, affascinata.
“Beh, non proprio…” disse lui, a disagio.
“Oh?”
“Sono caduto dalla branda perché il mio compagno ha urlato nel sonno…”,
“Oh.”
“Ma urlava perché il sergente ci spaventa tutti a morte, e la notte abbiamo gli incubi.”
“Ci credo.”, fece Evelyn, compunta.
Continuando a fissarlo negli occhi, abbassò la mano con la mela fino a posarla sul bracciolo della poltroncina.
Strofinò il polso contro l’imbottitura, cercando di asciugare senza farsi notare il succo di mela che era colato nel suo polsino.
Le faceva un solletico maledetto, quella goccia.
“Signorina?”, disse a un tratto McIntire, guardandola con interesse.
“Sì?”
"Posso dirle una cosa?"
“Sì?”
McIntire si sporse sul sedile.
Evelyn si protese verso di lui.
“Sta sfregando la mela contro il corpetto del suo vestito.”