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Autore: tropicanaroses    11/11/2014    1 recensioni
La musica si era spenta d'un tratto, qualcuno applaudiva: un suono appannato come un vetro, lontano, estraneo. Lui le aveva baciato la fronte e lei, dopo un secondo di impasse, la guancia. Poi aveva sciolto l'abbraccio cortese della danza che la vincolava a lui – una barca che si stacca dalla riva, verso il mare aperto, destinata a perdersi in spazi troppo grandi – ed era scappata verso il terrazzo; ora si trovava lì, aggrappata alla ringhiera come se la presa delle sue mani fosse in grado di tenere insieme il mondo per impedirgli di crollare.
Pensò di nuovo alle parole di suo padre – e del padre di suo padre – quando le aveva insegnato a ballare il valzer.
"Do you know what is it that makes a good waltz?"
"A good lead."
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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The waltz
 

Sentiva un dolore persistente, lievissimo al centro della schiena, nel punto in cui poco prima c'era una mano.
- Do you know what is it that makes a good waltz?
- A good lead.

Il vestito lungo, bianco, le frusciava intorno alle gambe in quel modo particolare e lento in cui frusciano i vestiti quando sono impegnati nei giri di cuore. La mano che teneva leggermente poggiata sulla spalla di lui le sembrava pesante come un macigno; si sentiva rigida, bloccata, timorosa di non riuscire a seguire i suoi movimenti; le lacrime le bruciavano le ciglia, ai lati degli occhi, e lo sforzo di trattenerle le costava più energia di quanta fosse sicura di avere.
Inspirò l'aria gelida della notte, in equilibrio precario su un terrazzo che dava a precipizio su una campagna immensa, inafferrabile: aveva lasciato il suo cavaliere in mezzo alla pista da ballo dopo un gesto così teatrale e inaspettato da sorprendere perfino lei stessa.
Le note di Pachelbel si erano susseguite con ritmo ancestrale, una dietro l'altra; scivolavano su di loro, impegnati a volteggiare per la pista come dentro le migliori favole di tradizione e amore dolceamaro. Si sentiva stanca. Il mio cuore non era che i tuoi lenti passi. Per tutto il tempo che avevano ballato, era stata consapevole degli occhi che le perforavano il vestito, la pelle, la nuca, tutti su di lei, la sconosciuta, l'allucinazione che veniva dal Sud Europa, un nebuloso sogno di seta senza un passato né, per quel che se ne sapeva, un futuro.
Non si aspettava di trovarci lui, quando era andata a quella festa. Per una volta, non si aspettava di trovarci nulla: voleva soltanto passeggiare, chiacchierare, non vivere, non ascoltare, non pensare a tutto il resto. Distrarsi da un'esistenza che le sfuggiva tra le dita come sabbia sottile, sparpagliandosi in giro, facendo il proprio corso e lei il suo, incompatibili e refrattarie a collaborare l'una con l'altra – lei e la sua vita, due entità sconosciute che dovevano sforzarsi di non litigare, di non crearsi troppi problemi a vicenda.
Ancora le note che gli sbattevano addosso come farfalle curiose, le note che li avevano portati in giro per la pista – un inchino, uno sguardo – che li avevano guidati verso le pesanti porte d'ingresso – ancora una giravolta, ancora uno sguardo, forse un sorriso – non si erano detti niente, neanche il nome, non ce n'era bisogno – non si erano mai visti prima, non così da vicino, non così da dentro.
La musica si era spenta d'un tratto, qualcuno applaudiva: un suono appannato come un vetro, lontano, estraneo. Lui le aveva baciato la fronte e lei, dopo un secondo di impasse, la guancia. Poi aveva sciolto l'abbraccio cortese della danza che la vincolava a lui – una barca che si stacca dalla riva, verso il mare aperto, destinata a perdersi in spazi troppo grandi – ed era scappata verso il terrazzo; ora si trovava lì, aggrappata alla ringhiera come se la presa delle sue mani fosse in grado di tenere insieme il mondo per impedirgli di crollare.
Pensò di nuovo alle parole di suo padre – e del padre di suo padre – quando le aveva insegnato a ballare il valzer.
- Do you know what is it that makes a good waltz?
- A good lead.

Era così anche nella vita? Ci voleva un buon conducente, per renderla bella, fluida, più o meno priva di intoppi?
- Non credo di averla mai vista, prima.
Si voltò al ralenti e sapeva già quel che avrebbe trovato: quel cavaliere con il cuore in mano, quello smoking di taglio londinese, quegli occhi da pirata e quell'aria da gentleman.
Lo guardò senza dire una parola, con l'ombra di un sorriso; la cosa parve incoraggiarlo, perché fece un altro tentativo.
- Lei è dell'ambiente?
- Senz'altro. Dipende quale ambiente, però.
Fu lui a sorridere, abbassando gli occhi.
- Del mio.
- No, non sono del suo ambiente.
Il cavaliere le si fece accanto e si appoggiò alla ringhiera, voltando le spalle al panorama e il viso verso di lei.
- Di cosa si occupa, allora?
Lei si prese un secondo per rifletterci.
- Di parole. - rispose poi.
- Che genere di parole?
- Tutti i generi.
Il cavaliere affrontò la tenda con lo sguardo, pensieroso.
- Dunque, se io le dico una parola, lei sa darmi una definizione? Un'etimologia?
- Tra le altre cose, sì. Posso dirle comunque che quasi tutte le parole di una certa importanza che usiamo derivano dal greco o dal latino.
- Lo so. Sono laureato in lettere.
- Lo so che è laureato in lettere. - gli rispose lei, nascondendo un sorriso timido in uno sguardo fugace all'orizzonte.
Lui le gettò un'occhiata sorpresa.
- Ha intenzione di dirmi di più? - la incoraggiò.
Lei cercò di capire a cosa si riferisse, poi convenne che una risposta che andava bene per tutto fosse la scelta migliore.
- No, credo di no. - disse, tranquilla, guardandolo.
Lui annuì lentamente.
- Lei non è di qui, vero? - le disse poi, affondando le mani in tasca.
Lei rise, prendendolo alla sprovvista.
- E' molto evidente?
- Lo è. Non ci sono donne così belle, qui.
- Vuole essere un complimento?
- Di certo non vuole essere un'offesa.
Sorrise, lei, reprimendo la tentazione di mordersi un labbro.
- Allora grazie.
Senza preavviso, il cavaliere si sporse verso di lei.
- Che ne dice se usciamo un po' fuori di qui?
- Non siamo già fuori?
- Non fuori dalla sala, fuori dalla festa.
Lei era sempre stata contemporaneamente tentata e refrattaria a gettarsi di testa in cose delle quali non poteva neanche immaginare l'esito: forse non si era mai sentita pronta, forse aveva troppa paura e troppa poca voglia di ammetterlo a se stessa. Però quel giorno era un giorno così particolare, e continuavano a ronzarle in testa le parole di suo padre: what is it that makes a good waltz? A good lead. Decise, dunque, di lasciarsi guidare.
- Va bene. - disse, abbassando il tono della voce per dissimulare l'incertezza. Di lì a poco sarebbero dovuti diventare concreti, reali: avrebbero dovuto darsi dei nomi e un passato.
- Non pensa anche lei che spesso le cose tra due persone vanno bene fino alle presentazioni? - gli chiese lei, mentre si alzava il vestito per scendere a precipizio le scale del palazzo e gettarsi nel cortile; nel futuro, o quantomeno nel futuribile.
- Ne sono più che convinto, e nondimeno non ho mai risolto nulla.
Un bip acuto segnalò lo sblocco delle portiere di una macchina.
- E' qui per lavoro, per una vacanza, per amici o per me? - le chiese, prendendo posto alla guida dopo averla aiutata galantemente a salire.
- Per tutte e quattro le cose, suppongo. Esistono ancora i gentiluomini: da dove vengo io è un miracolo se le porte non ti arrivano in faccia.
- Sapeva che mi avrebbe trovato qui?
- Questa domanda non è da lei e la risposta è no.
- Come sa che non è da me?
- Mi diverte immaginare la gente.
- E se sbaglia?
- Ci resto male.
Restarono in silenzio, mentre la campagna sfrecciava sibilando ai loro lati.
- Dove vuole andare? - chiese infine lui, massacrandosi una barba appena accennata con gesti nervosi della mano. Forse si stava già pentendo di quel colpo di testa.
Lei voltò il capo verso di lui, perforandolo con due occhi dolci, suadenti, da cerbiatto.
- South Bank. - gli disse.
Ci sarebbero volute non meno di due ore per arrivarci, ma lui si tirò un po' su, rincuorato per qualche motivo che non gli era consentito conoscere.
- Ti stai chiedendo se non era meglio lasciare tutto su quella terrazza? - chiese lei, passando bruscamente al tu.
Il cavaliere sulle prime non rispose – non parve nemmeno turbato da quel repentino cambio di registro, quella rivendicazione arbitraria di confidenza – poi si decise a dirle esattamente ciò che pensava.
- Non riesco a farne a meno.
- Siamo persone del genere, noi?
- Di che genere?
- Del genere che si chiedono se hanno fatto uno sbaglio prima ancora di fare qualunque cosa.
Lui guardava la strada e lei guardava lui.
- Temo di sì. -, rispose al nulla.
- Bene – disse lei – sappiamo già qualcosa l'uno dell'altra che è di gran lunga più importante di un nome.

 

 

What matters the most is how well you walk through fire.”
- Charles Bukowski

 

 

Le creature marine che le piaceva immaginare nel Tamigi erano insolitamente quiete, quella notte. Scrutava la superficie dell'acqua come se stesse guardando dritta dentro il passato.
Il cavaliere le sostava di fianco, senza molto da dire; impegnato in un diverso infinito, faceva correre lo sguardo al di là del Millennium Bridge, verso i tetti lontani.
- Ti stanca mai? - chiese lei, seguitando a guardare il fiume.
- Vivere? - disse la voce misurata del cavaliere, e poi proruppe in una lieve risata che rimbalzò sulle pareti del teatro alle loro spalle.
- Fingere. - rettificò lei, incrociando le caviglie e sporgendosi un po' oltre il muretto. Il brivido del volo. - Fingere di aver dimenticato, e ricordare.
- Quelli come noi dimenticano?
- Quelli come noi amano?
- Quelli come noi esistono in un tempo che sia ora e qui?
Si scambiarono uno sguardo più vecchio di loro.
- Mi piace come balli il valzer. - le disse lui, semplicemente, - Hai l'aria di qualcuno che lo consideri più di una danza.
- Io considero spesso le cose più di quel che effettivamente sono.
- E questo è un bene o un male?
- Non lo so. È un dunque, almeno. Un modo di affrontare la realtà.
Il movimento brusco che la testa del cavaliere compì per voltarsi velocemente verso di lei provocò uno spostamento d'aria che le fece arrivare, limpido e indimenticabile, tutto il profumo di lui addosso.
- Credi che sia possibile? - le chiese, serio – Non affrontare la realtà?
- Certo che è possibile. Il problema è che, di contro, non si può evitare che la realtà affronti te.
Il cavaliere chinò il capo.
- E la realtà ti affronta sempre. - osservò, con un certo rassegnato distacco.
- Sì, sempre.
Alzarono insieme lo sguardo verso la trapunta di cobalto che era stata messa al posto del cielo di Londra; qualche nuvola grigio fumo, solitaria; poche, luminosissime, stelle.
- Cosa vuoi dalla vita, tu?
Il cavaliere le aveva fatto una domanda semplice, lineare, di quelle a cui nessuno sa rispondere.
- Potrei dirti molte cose, ma nessuna sarebbe vera. A parte una, che è senz'altro vera perché è vera anche adesso, in questo istante.
- Dimmi quella, allora.
- Voglio te.
Lei non si aspettava niente, quindi accolse con un'aria genuinamente meravigliata quel che accadde; e accadde che lui chinò il capo, sorridendo all'acqua scura.
- In quali termini, vuoi me? - le chiese poi, senza lesinare sulle virgole.
Fu lei a sorridere, questa volta. Si girò di spalle, appoggiandosi alla ringhiera, incrociò le braccia e misurò uno sguardo lieve che, sapeva, avrebbe incontrato i suoi occhi tormentati. Tormentati, ma non da lei: non ancora.
- Anche questi possono essere dei termini accettabili. - disse, abbracciando con lo sguardo il mondo silenzioso intorno a loro.
- Uno non può avere qualcuno su un ponte, a tempo determinato e senza fondamenti né progetti.
- Può darsi. Può anche darsi che uno abbia tutto il tempo del mondo, in teoria, e moltissimi fondamenti e una marea di progetti e non abbia lo stesso quel qualcuno. Quel qualcuno che vorrebbe, e che è diligentemente incluso in tutta questa burocrazia del programmare l'improgrammabile.
Si studiarono in silenzio, soffermandosi sulle curve che entrambi avevano nel viso.
- Non si può conferire un incarico d'ufficio alla gente nella propria vita – disse lei, e lo chiamò per nome, - la si deve lasciar fare, credo.
- Fare cosa?
- Cose! L'amore, colazione, la doccia, programmi, scenate, il pane, un applauso, un'osservazione, una festa, progetti, dichiarazioni, il bello e il cattivo tempo. Bisogna lasciare spazio alle persone, tesoro. Lasciargli in mano la possibilità di renderci migliori o peggiori, ma diversi. Diversi da noi, da quello che credevamo di essere, che credevamo di volere. Bisogna prendere aria, nella vita, e non è possibile farlo rinchiusi in se stessi.
Il silenzio si accese come si spensero le parole di lei: il cavaliere cercava di afferrare i sottintesi nascosti lì dentro, e alla fine ci riuscì.
- Tu l'hai mai fatto? Hai mai lasciato a qualcuno la possibilità di cambiare le cose?
- Spesso.
- E com'è andata.
- Male.
Scoppiarono a ridere all'unisono, guardandosi con tenerezza. Le venne da tendergli una mano e, per una volta, lo fece. Lui la prese nella sua con una leggera circospezione: era inglese, e gli inglesi sono poco inclini a queste manifestazioni d'affetto – trovano molto più semplice affrontare duecento chilometri in piena notte per andare a fare due chiacchiere sulla riva di un fiume.
Avrebbe voluto abbracciarlo, e ancora una volta lo fece. Il collo del cavaliere, sotto il suo viso, profumava di molte cose ma non di lei.
- Verresti a cena con me? - le chiese, intrappolato tra i suoi capelli. La teneva come quando avevano ballato il valzer, ma più stretta: dove una volta c'era una mano, ora sentiva la consistenza solida e protettiva di un braccio forte.
Lei sorrise contro il suo collo e annuì.
- E, prima di venire a cena con me, visto l'orario... verresti a colazione con me?
Annuì di nuovo, e il sorriso le si aprì ancora un poco.
- Dove altro vuoi che venga, con te? - gli chiese, stringendoglisi addosso. Lo sentì irrigidirsi leggermente, e poi dirle – Non farmi fare promesse che non so se potrò mantenere.
- Onestà è tutto quel che ti chiedo, innanzitutto.
- D'accordo.
- Quindi non dirmi non farmi fare promesse che non so se potrò mantenere. Dimmi non farmi fare promesse che non so se vorrò mantenere.
Alzò lo sguardo, staccandosi dal suo corpo, e si ritrovò dentro i suoi occhi, riflessa.
- E non ti ho chiesto di promettere. Ti ho chiesto cosa vuoi.
Lui le sorrise, avendo già deciso che andava bene così.
- In questo caso, la risposta è: voglio che tu venga a casa con me, e che ci resti.

 

La vita /
dovresti poterla /
ricordare /
come un viaggio all'estero.”
- Cees Nooteboom

 

La notte scorticava le pareti.
Il letto profumava di legna, come tutto il resto della stanza; legna e caldarroste sul fuoco.
C'era davvero poco di umano o di tangibile in quella baita in mezzo alle montagne; soltanto, come portata dal silenzio, una eco di tutto ciò che non era la vita reale.
Tutto ciò che non era caos, non era scadenze, non era dubbi, non era preoccupazioni, non era tormenti si assiepava lì, negli angoli del tappeto, dietro il divano, sotto le finestre che davano sulle valli innevate.
Il cavaliere suonava un violino, peraltro molto male.
Lei sedeva ad una vecchia scrivania d'acero, faceva calcoli con le variabili di compensazione con davanti tre dizionari di lingue morte da molto tempo.
- Cosa fai? - si sentì chiedere, e il violino tacque per un momento.
- Cerco risposte. Un amico voleva sapere qualcosa a proposito di un'apofonia.
Il sorriso le partì da dentro come il riverbero di un ricordo e si andò a infrangere sui fogli che aveva davanti, sulla tazza di tè ormai freddo da tempo.
- Perché non usciamo a passeggiare? - propose lui.
- Credevo che stessimo lavorando.
- Possiamo sempre lavorare passeggiando.
- Se porti quel violino fuori di qui ci arrestano.
La baita l'aveva scoperta lei, come il posto in cui si trovava, e, come aveva fatto anche con molto altro, gli aveva presentato quell'angolo di sé privo di sottintesi e gliene aveva fatto dono, perché diventasse anche suo.
Di lì a poco il sole del mattino avrebbe sfasciato le zone d'ombra: avevano preso l'abitudine di alzarsi ridicolamente presto, negli ultimi tempi.
- Andiamo, allora?
Si infagottarono in cappotti pesanti e infilarono la porta d'ingresso: l'aria gelida li accolse con una carezza gentile, quella che le persone scambiano per uno schiaffo.
- Sei innamorata di me? - le chiese il cavaliere, per la prima volta. Lei restò un po' sorpresa, affondando il piede nella neve fresca, e quasi perse l'equilibrio.
- Perché me lo chiedi?
- Una volta mi hai detto che l'amore si fa.
- Lo penso ancora.
- Io credo invece che si dica anche. Che si debba dire tutto, sempre, senza lasciare nulla al caso o al sottinteso. Non c'è cosa su questa Terra abbastanza chiara da non aver bisogno di essere detta comunque.
Le tese una mano e lei la prese. A quell'ora di solito incrociavano un sacco di caprioli.
- Tu me l'hai detto spesso, che mi amavi. - osservò lei, tranquilla.
- Appunto.
Si voltò verso di lui sentendo la tenerezza accenderle i sensi, e posò un bacio nello stesso punto del suo viso dove ne aveva posati già centinaia: erano passati quarantadue anni dalla sera del valzer.
Camminarono per un po' in silenzio; poi lui, che era rimasto il suo cavaliere nella buona e nella cattiva sorte, sentì di aver qualcos'altro da dire.
- Non mi hai neanche mai più detto perché sei venuta a cercarmi.
- Non te l'ho mai detto perché non lo so. Deve essermi semplicemente sembrata una buona idea.
- Anche tu mi sembravi una buona idea, su quella riva del fiume.
- E lo ero?
Il cavaliere sorrise. Tra il fiume e quella passeggiata c'erano stati figli, fogli, litigate, nipoti, torte, case, lontananze, scommesse, lacrime, tagli, tazze di tè. C'erano state pareti di fotografie scattate controluce, dettagli di loro – mani intrecciate, parti del corpo – che ornavano i muri come frammenti di un puzzle che non sapevano se sarebbero mai riusciti a completare perché, per quanto tempo passassero insieme, non era mai abbastanza.
- Tu sei stato l'amore, per me. L'essenza stessa dell'amore. Molto prima che ti incontrassi, sei stato la somma e la fine di tutte le mie speranze e i miei desideri. Tutti i miei sogni, i miei traballanti progetti, le mie idee inquiete. Tutto rispondeva a te, come il coro di un canto. Ti ho amato molto. Ti amo ancora. Ti amerò sempre. Ho amato anche altri, se lo vuoi sapere, ma non dopo di te. E, in ogni caso, nessuno quanto te. E lo sapevo già quella sera al fiume. Lo sapevo già da tempo e in certi momenti della mia vita è stata l'unica cosa che ho saputo, anche se me ne sono resa conto tardi. Ma non ha importanza, perché anche quando non me ne accorgevo tu mi guidavi; alla fine, mi hai guidato fino a te.
Si erano fermati e lui la guardava come se la stesse scoprendo; sapeva già, dentro di sé, tutto ciò che lei gli aveva detto, ma aveva ragione: le cose vanno dette, non basta che si sappiano.
- Mi hai riportata a casa tante di quelle volte. Mi hai sempre riportata a casa, in tutti i modi in cui si possa riportare a casa qualcuno.
- Noi funzioniamo perché tu funzioni, bambina.
La chiamava kid da quando le aveva aperto la porta di casa sua, dopo il fiume. L'aveva chiamata kid quando l'aveva invitata ad entrare e a sedersi sul divano, quando le aveva accarezzato i capelli in sala parto, quando uno spavento terribile li aveva colti alle spalle, quando si era sentita stanca e vuota, quando gli aveva detto che sarebbero diventati nonni e in generale ogni mattina in cui si era svegliata in qualunque modo e di qualunque umore, da quarantadue anni a quella parte.
Lo sguardo che le stava rivolgendo, ora, era lo sguardo di una vita passata insieme a fare e disfare trame intricate e complicatissime in cui solo loro due sembravano a proprio agio.
- Sei tu che conduci, in questo valzer. - le disse, scostandole una ciocca di capelli bianchi dal viso.
- Non dirmi addio. - rispose lei, che aveva sempre avuto paura di momenti come quelli: nella sua memoria, corrispondevano alla quiete prima della tempesta. Un ultimo, immenso attimo di poesia prima di dolori così totalizzanti e fradici che appuntivano i cuscini e strappavano via la carne di dosso.
Come altre volte era accaduto, lei si sbagliava.
Un gruppo di caprioli transitò per nulla incuriosito a qualche metro da loro, inoltrandosi nel fitto del bosco. Il cavaliere la prese per mano e la condusse sulle tracce fresche del passaggio degli animali, mentre l'alba rompeva la cornice delle due montagne che svettavano in lontananza, oltre gli alberi. Vissero ancora a lungo, insieme. Vissero e ci furono violini, apofonie e voci; ci furono nipoti e sorrisi, fiumi, baite e valzer.
Ma, oltre tutto questo, ci furono gli occhi.
- E' come quando scrivi – disse lei a qualcuno che non era il cavaliere, in un ricordo di quarantacinque anni prima – Tutto sta nell'iniziare a farlo. Nel sedersi e iniziare a farlo. Il resto, poi, viene da sé.

 

 

Go all the way with it.
Do not back off.
For once, go all the goddamn way with what matters.”
- Ernest Hemingway



 

   
 
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