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Autore: CupOfEternitea    12/11/2014    4 recensioni
“Tempo da lupi, stanotte”. Sansa si immobilizzò all’istante, non appena quella voce graffiante si sovrappose al rumore del temporale. Ora lo sentiva, inconfondibile e familiare: odore di vino e di ferro. O forse di sangue. L’odore è il medesimo. Lo aveva imparato sulla propria pelle: il sangue che sgorgava dai suoi graffi aveva lo stesso odore del duro guanto di ferro di Meryn Trant. “Ma tu sei un uccelletto. Che ci facevi sul davanzale? Non è la notte adatta per volare.”
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sandor Clegane, Sansa Stark
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Un suono assordante la svegliò dai suoi sogni di pace, di silenzi nella neve. Rimase momentaneamente spaesata tra il sonno e la veglia, con la terribile sensazione che la Fortezza stesse crollando, che il soffitto sopra di lei si stesse sgretolando per seppellirla, pietra dopo pietra.
Morirò qui. Sarà questo il mio sepolcro. Non riposerò nelle cripte di Grande Inverno. Non ci sarà un metalupo di pietra a vegliare sul mio sonno, come per sua zia, Lyanna, tanto bella da scatenare una guerra.
Il caro muso di Lady le balenò, fugace, alla memoria, i suoi contorni indistinti, i dettagli fumosi. Gli occhi della lupa, al contrario, risultavano vividi, come se li avesse avuti davanti. Avrebbe potuto descriverne le sfumature, ogni singola pagliuzza dell’iride, lo sguardo dolce e mansueto della più docile della cucciolata. Aveva provato paura, la sua Lady, quando il lord suo padre si era avvicinato a lei? Aveva compreso che la morte si celava dietro le carezze dell’uomo? Si era sentita sola in quegli ultimi istanti?
Mio padre non lo avrebbe mai permesso.
No, era stata fortunata ad andarsene tra mani amiche, si rispose; un tenue barlume di fortuna in tutta quella sventura. Con tutta probabilità, si rassicurò, Lady non doveva aver avuto il tempo di conoscere il dolore, quello vero.
Ogni pensiero era nato e sfiorito in un battito di ciglia, senza che lei potesse appena afferrarne il senso, lasciandole solo sensazioni confuse e tracce di consapevolezza. La lucidità giunse assieme a un brivido gelido.
Una corrente d’aria fredda penetrava dalla finestra aperta, infiltrandosi al di sotto delle coltri scomposte sul suo corpo, attraverso le pieghe e le pellicce che avrebbero dovuto tenerla al riparo. La pioggia scrosciava con violenza, abbattendosi contro le pietre della Fortezza e rovesciandosi all’interno. Poteva sentirla gocciolare monotona sul pavimento, la stessa nota ripetuta ritmicamente in un suono delicato. Le ricordava Grande Inverno, il parco degli dèi dopo un acquazzone: le gocce, che scivolavano dalle foglie rosse dell’albero del cuore, rotolavano lungo le nervature e si tuffavano nella sorgente con un tintinnio argentino. Piccole gocce, minuscole, ma ognuna di esse produceva cerchi sulla superficie placida dello stagno che si infrangevano contro le rive e deformavano il suo riflesso.
Chiuse nuovamente gli occhi e provò a immaginare di essere ancora a casa, ma fingere non sembrava riuscirle più bene come una volta.
Con un breve sospiro, tornò a guardare la finestra aperta, avvolgendosi nelle coperte per ripararsi dal freddo. Avrebbe dovuto trovare il coraggio di alzarsi e richiuderla, ma il tepore del letto era troppo piacevole in confronto al gelido pavimento che l’avrebbe accolta. Tirò la coperta fin sotto il naso, in attesa che sopraggiungesse il coraggio a convincerla a rinunciare a quell’abbraccio confortevole.
Era una notte nuvolosa, nera come le ali di un corvo. Non sarebbe stata capace neanche di notare la pioggia, se non fosse stato per lo scroscio sonoro e per un tenue bagliore di qualche torcia in lontananza che le permetteva di coglierne qualche riflesso scintillante; troppo tenue per riuscire a illuminare la sua stanza; appena sufficiente a rischiarare i contorni del proprio corpo sotto le coltri.
Una volta, da bambina, aveva avuto paura del buio. Ricordava il giorno in cui Robb e Jon l’avevano spaventata, nelle cupe cripte di Grande Inverno: per qualche tempo aveva finito per temere l’ora di coricarsi, perché avrebbe voluto dire affrontare la notte e le cose che potevano nascondervisi.
Ora, però, quell’oscurità non le faceva più paura. La lady sua madre le aveva spiegato che le storie della vecchia Nan erano solo fantasiose leggende, che Grande Inverno era un luogo sicuro, protetto da suo padre e dai valenti uomini del Nord. Si era sentita al sicuro in quel mondo popolato da cavalieri e giuramenti d’onore, finché non aveva imparato che nella vita reale sono i mostri a sopravvivere e che gli eroi che tanto aveva ammirato non erano altro che bugiardi e adulatori. Le cose da temere non erano quelle nell’ombra, ma quelle visibili alla luce del sole.
Si rigirò nel letto nel momento in cui un lampo aggrediva la stanza con un’accecante luce azzurrina. Soffocando un gemito di spavento, si levò di scatto a sedere sul letto, le coperte tirate fino al mento, strette tra le dita: la luce non era durata che un istante, eppure le era sembrato di scorgere una figura umana, appoggiata al ricco mobilio di quella che era diventata la sua cella.
«C-chi… c’è qualcuno?»
Rimase immobile, in silenzio. La stanza era stata nuovamente inghiottita dal buio e nessuno aveva risposto alla sua voce. Avrebbe dovuto tornare sotto le coperte e smetterla di abbandonarsi alla propria immaginazione, eppure era certa che quella sagoma non fosse solo un mero frutto della sua fantasia. Tacque, decisa ad aguzzare l’udito per cogliere un segno della presenza di un intruso, ma tutto ciò che riusciva a udire erano il suono della pioggia e quello del proprio respiro spezzato dalla paura. Pensò di chiamare una delle servette, ma come avrebbe giustificato una simile chiamata a quell’ora tarda, se si fosse dimostrato tutto irreale? Erano spie della Regina, dopotutto: non avrebbe potuto contare sulla loro riservatezza e non aveva assolutamente intenzione di diventare argomento di conversazione nelle stanze reali: Joffrey non avrebbe rinunciato all’ennesima occasione per umiliarla e torturarla.
Tanto era concentrata, che il violento rombo del tuono le fece sfuggire uno squittio di terrore, soffocato subito tra le coperte. Riconobbe, in quel rumore, il suono che l’aveva svegliata e in cui le era parso di riconoscere il boato del crollo della Fortezza.
Stupida. Era solo un tuono, così come l’ombra sulla parete era sicuramente solo un gioco di luci creato dal mobilio. Doveva smettere di vedere nella realtà più di quanto i suoi sensi le dimostrassero. Le cose erano ciò che erano: la gentilezza che le veniva mostrata era solo una falsità, una crudele copertura dei piani in serbo per lei; i cavalieri che tanto aveva ammirato ai tornei erano solo uomini armati di lame, non importava quanto splendida fosse la loro armatura; Joffrey era solo un mostro. Ogni tentativo di vedere in lui il principe che aveva pensato di amare era ormai inutile e doloroso: come aveva potuto permettersi di non vedere la sua vera natura, continuava a ripetersi? Ma ogni ricordo, ogni rimprovero a se stessa serviva solo a riaprire le ferite inferte dal suo senso di colpa.
Raggelata da quei pensieri, si decise finalmente a scendere dal letto e ad affrontare il freddo di quell’orribile nottata. Abbandonò il tepore del letto e percorse rapidamente sulle punte dei piedi la distanza che separava il letto dalla finestra spalancata. Per un istante restò immobile, vestita solo della camicia da notte, stringendosi nelle braccia mentre le gocce di pioggia si abbattevano contro l’ostacolo costituito dal suo corpo.
In lontananza, la Baia delle Acque Nere si rendeva meritevole di quel nome. Ovunque il suo sguardo vagasse, quella notte, tutto ciò che vedeva era solo una vasta distesa di tenebre, il nulla attorno all’abisso. Non un solo posto in cui rifugiarsi, al di fuori del luogo in cui era prigioniera e che desiderava solo abbandonare.
Si concesse di lanciare un’occhiata sotto di sé. Quante volte aveva formulato questo pensiero, dalla morte di suo padre? Solo un salto. Un ultimo volo prima della libertà. Avrebbe fatto male?
Un brivido di freddo la riscosse, e con esso fuggì ogni pensiero di morte.
Voglio vivere!
Fece un passo indietro e con entrambe le mani sospinse il vetro della finestra contro la furia del temporale, a capo chino per evitare che la pioggia le sferzasse il volto.
Rialzò il viso per incontrare il proprio riflesso sul vetro, solo per essere terrorizzata da un’alta ombra scura riflessa alle spalle della Sansa che le stava di fronte e che ricambiava il suo sguardo con gli occhi sbarrati.
Si voltò di scatto urlando, scattando di lato per sfuggire all’intruso, ma questo fu più rapido di lei ad impedirle ogni via di fuga. Avvertì una grande mano premersi sulla sua bocca e soffocare le sue proteste, poi l’aggressore la trascinò verso il letto, intrappolandola sotto di sé .
Voglio vivere!
Ancora quel pensiero, ancora più violento, più prepotente dentro di sé. Ricominciò ad agitarsi, ora cercando di liberarsi della sua mano per poter gridare aiuto, ora tentando di colpirlo, di sfuggire all’infrangibile prigione del suo corpo. Continuava a gridare contro il palmo di quella mano calda, ma il suono ne usciva soffocato, debole come il corpo che lo aveva emesso. Finalmente, le parve che la sua ribellione fosse servita a qualcosa, quando avvertì il proprio ginocchio cozzare contro il corpo dell’uomo, forse al fianco. Lo sentì espirare rumorosamente l’aria, un gemito misto a un ringhio.
«Tempo da lupi, stanotte». Sansa si immobilizzò all’istante, non appena quella voce graffiante si sovrappose al rumore del temporale. Ora lo sentiva, inconfondibile e familiare: odore di vino e di ferro. O forse di sangue. L’odore è il medesimo. Lo aveva imparato sulla propria pelle: il sangue che sgorgava dai suoi graffi aveva lo stesso odore del duro guanto di ferro di Meryn Trant. «Ma tu sei un uccelletto. Che ci facevi sul davanzale? Non è la notte adatta per volare».
  
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