Colpa delle Stelle
John
sa che non dovrebbe farlo, sa che sua madre potrebbe
sgridarlo, ma questo non gli impedisce di sgattaiolare via dalla sala d’attesa
e addentrarsi tra i corridoi del grande ospedale, ritrovandosi presto a
guardarsi intorno spaesato.
Ed è lì che trova il reparto, quello che a prima vista
ha tutta l’aria di essere una sala di giochi per bambini.
La gente è tanto stupida, a volte. Sempre. Gli aveva
detto Sherlock, una volta, e John ci aveva pensato un po’ su.
A
volte non è poi così brutto. Aveva presto risposto, perché
quella non era stata una cosa brutta. Non fino a quel
momento, per lo meno.
Entra guardandosi intorno curioso, sorpassando una
coppia con gli occhi lucidi davanti al proprio bambino e una in lacrime
all’uscita di una stanza, e si deve fermare qualche passo dopo, realizzando che forse non è il posto giusto per lui.
Non saresti mai dovuto venire qui. Lo aveva rimproverato.
John non
gli aveva dato particolare ascolto, Sherlock lo rimproverava sempre. Ma qualche
mese dopo si era ritrovato a fissare un cielo nero, punteggiato di stelle, e
l’unica domanda che si era posto, era stata Perché.
«Non dovresti essere qui.»
John si gira di scatto, sorpreso, e guarda
il ragazzino magrolino che lo scruta con un paio di occhi chiarissimi, quasi
color del ghiaccio.
«Stavo solo facendo un giro…» Si scusa in
fretta, facendo un passo indietro. Qualcosa in quel bambino lo inquieta,
qualcosa che non saprebbe spiegarsi neanche lui.
«La gente è così stupida, a volte…» Mormora
l’altro, roteando gli occhi, e si allontana di qualche passo verso una stanza
dalle pareti colorate.
John esita per qualche istante, poi lo
segue, incuriosito. Qualcosa gli dice di tornare indietro dalla sua mamma, che
quello che sta facendo non è la cosa giusta, ma lei gli ha sempre detto che è
un bambino testardo, e lui sembra fare di tutto per avvalorare il suo pensiero.
«Perché mi stai seguendo?»
Ha appena fatto un passo nella stanza, e
già si trova a sobbalzare per la seconda volta quando la voce del bambino gli
parla alle spalle. O è molto silenzioso nel camminare, o le voci dei bambini
che giocano lì dentro sono troppo alte per sentirlo
arrivare.
«Non ti sto seguendo…» bisbiglia John,
sconcertato, fissando stupefatto e con un lieve timore i bambini davanti ai
suoi occhi.
«Ecco perché non
dovevi farlo.»
Quindi questa malattia fa perdere i capelli? Alla fine
aveva dovuto chiederlo, spinto dalla curiosità.
Sherlock aveva alzato gli occhi al cielo, come faceva sempre, e aveva scosso la testa. Non è la malattia, John, è la cura.
~
Si era ritrovato ben presto davanti alle
porte di quel buffo reparto, e non aveva potuto fare a meno di entrare di
nuovo. Sua madre lo aveva lasciato alle cure di un’infermiera particolarmente
sbadata, e John ne aveva approfittato per tornare a fare visita al bambino
strambo.
Per sua fortuna lo
aveva trovato nel corridoio, mentre si dirigeva verso una delle stanze letto
lungo le strette pareti. Si era avvicinato prima che potesse chiudere la porta
dietro di sé, e quando l’altro si era voltato, la sorpresa dipinta nei suoi
occhi, John gli aveva sorriso. «Ciao.»
Io non ho
amici…
John si era offeso. Non era tornato
da lui per i tre giorni seguenti.
«Perché
sei qui? Tu non sei come gli altri bambini.»
La stanza 221 è in penombra, John ha
provato ad alzare un po’ le tapparelle, ma il ragazzo lo ha
ripreso, dicendogli che quella non è la sua stanza e non può fare quello che
vuole lui. John pensa che abbia ragione, così lascia perdere
e si siede sul letto morbido, incrociando le gambe.
«Non hai risposto alla mia domanda.»
puntualizza dopo un po’, e l’altro sbuffa.
«Perché ho i capelli, non vuol dire che non
sia come gli altri.» ha una faccia schifata mentre lo dice, John si ritrova a
chiedersi il perché.
«Presto cadranno anche i miei.»
«Oh…»
Mi piacevano
i tuoi capelli. Lo accarezzò piano sulla testa, lasciando che
Sherlock si appoggiasse e rilassasse contro di lui. Lo circondò con un braccio
e lo strinse lieve.
Mamma
diceva che erano sempre troppo lunghi.
«Io mi chiamo John, comunque.»
«Sherlock.
In vecchio inglese significa “capelli brillanti”.»
«Nome azzeccato.» sorride.
~
Sua madre lo vede sempre tornare da lei
contento, così alla fine John si trova nella stanza di Sherlock tutti i giorni.
Suo padre dice che non è una buona idea lasciarlo scorrazzare per l’ospedale da
solo, ma non hanno i soldi per pagargli la scuola estiva, così è costretto ad
andare al lavoro con lei tutti i giorni. Non che la cosa gli dispiaccia,
comunque.
Non ha ancora visto
i genitori del suo nuovo amico: lui dice che vengono soltanto negli orari di
visita, e quando John gli chiede come mai l’altro si gira dall’altra parte e
non gli risponde. Non ha ancora capito il perché.
Ti mancherò, John?
Ogni giorno.
Sherlock gli piace, nel modo in cui gli piacciono i suoi amici. Sherlock è un suo amico ora, e gli racconta
tante cose strambe. John ride quando scopre che non sa che la Terra gira
intorno al Sole e non viceversa, e il moro si offende un pochino.
Ma
è un bambino fantastico. Il più meraviglioso che abbia mai conosciuto. E
nonostante lo conosca solo da un mese lo sente già
come il suo migliore amico.
Quando glielo dice, Sherlock sorride.
Hai mai dato un bacio? La
domanda arrivò inaspettata, un giorno ozioso in cui giacevano abbracciati sul
letto.
John lo guardò nella penombra,
accarezzando con gli occhi il suo profilo spigoloso.
No… rispose, non se la sentì di
dirgli che Sarah, la sua compagna di banco, una volta gli aveva premuto le
labbra sulla guancia, lasciandogli sopra un po’ di saliva.
Sherlock
non dice più niente per il resto del pomeriggio.
Una volta, quando entra, lo trova a fissare
la parete opposta. Non si gira a guardarlo quando si avvicina, e John si
ritrova a sporgersi in avanti per vedere oltre la sua spalla.
Il suo amico stringe qualche ciocca di
capelli tra le mani, e John sente una lacrima umida bagnargli la guancia.
Lo abbraccia da dietro, appoggiando il
mento sulla sua spalla, e rimane lì finché Sherlock non si è sfogato del tutto.
Da quel momento gli
abbracci sembrano diventare una routine.
Le labbra screpolate si
appoggiarono lievi sulle sue, premendo piano, e Sherlock si aggrappò alle sue
spalle, stringendo forte.
John si staccò un attimo per
prendere fiato, poi lo baciò di nuovo, muovendo le labbra in sincronia con le
sue.
Anche i baci
diventarono una routine.
John lo convince a guardare le stelle,
quella sera, così che il giorno dopo possa raccontargli ciò che ha visto. Da
quando si è messo in testa di spiegargli un po’ di astronomia, ha provato a
spiegargli qualcosa sulle costellazioni, e Sherlock si è sforzato di capirle,
ma quando si ritrova a guardarle dal vivo ha l’impressione di sbagliare tutto.
Fa uno schizzo, tanto per essere sicuro.
Il giorno dopo le confronta con quelle del
libro del suo amico, e John ride divertito quando Sherlock butta tutto all’aria
e mette il broncio.
John incolpa le stelle, quando Sherlock non
gli parla per tutto il giorno dopo, e rinuncia a spiegargliele.
~
Non si sono visti per tre giorni: sua madre
ha scoperto tutto. John è disperato, rivuole il suo amico, ma quando gli viene spiegato cosa c’è in quel reparto, cosa accade ai
bambini che si trovano lì dentro, John passa la notte a piangere tra le sue
braccia, e non riesce a farsi vedere dal suo amico per un po’.
Quando torna al reparto, con il permesso di
sua madre, trova Sherlock senza la sua solita energia ad attraversarlo. Quando
lo stringe lo sente più magro, e quando lo bacia il
moro sembra fare di tutto perché quel momento non finisca mai.
John non ha il coraggio
di dirgli quello che ha scoperto.
L’orsa maggiore,
Orione, il Sagittario e il Cancro.
John non riesce più a riconoscerle.
~
Quando succede, John sente di non riuscire
a sorprendersi.
È appena arrivato in ospedale e sua madre
si sta cambiando il camice quando un ragazzo elegante gli si avvicina con gli
occhi lucidi. Non ha bisogno di nient’altro per capire.
Percorre i corridoi ormai così famigliari
come a rallentatore, i passi che risuonano pesanti sul pavimento.
Quando raggiunge la porta
la trova socchiusa, e per la prima volta vede la famiglia Holmes al completo.
Si avvicina al letto senza badare agli
altri tre e si siede sul materasso, mentre Sherlock si gira a guardarlo con
occhi stanchi. «John…» Mormora.
John gli prende la mano e si sdraia al suo
fianco, accarezzandogli piano la testa.
«Voglio diventare una stella.»
Sorride tra le lacrime. «Cercherò
nel cielo, finché non ti troverò. Ti farai vedere, vero? Sarai la mia stella.»
Sherlock annuisce e si fa un po’ più
vicino, il fiato più corto.
«Ho paura…»
«Sono qui…»
~
Questa tua passione per le stelle è una cosa stupida. Gli aveva detto Sherlock, quel giorno.
John aveva sorriso. Perché?
Non hanno senso.
«Lo
vedi il Grande Carro? La costellazione di fianco, un po’ più piccola, è il
Piccolo Carro, Sherlock.»
«Perché dobbiamo guardare le stelle tutte
le sere?»
«Perché
più le guardi, più ti rendi conto della grandezza dell’universo. Siamo tutti
come briciole di pane, qui sulla Terra. Un giorno lo capirai, scoprirai quanto ti
sembrano inutili gli sforzi di una piccola stella in confronto all’infinito.
Nessuno può competere con la forza della natura, ma ci sono cose che riesci a
fare, in un certo senso, ci sono cose che puoi provare a contrastare. Io ci ho
provato.»
Il bambino rimane qualche minuto in
silenzio al suo fianco. «Non mi piacciono comunque, papà, non hanno senso…»
John sorride al cielo nero, poi si volta a guardare
suo figlio negli occhi: azzurri, come il cielo senza stelle. «Lo so.»
«Possiamo tornare in casa?»
Lo stringe con un
braccio e gli passa le dita tra i riccioli scuri. «Ti voglio bene,
sai?»
Anch’io, John.
Ci sono momenti in cui ti viene da scrivere una certa cosa,
e anche se ti sforzi per non farlo quella ti prende comunque e ti trascina le
dita sulla tastiera.
Non mi dispiace, comunque. L’idea doveva essere qualcosa di
molto angst ma so che il risultato non è quello. E va
bene così com’è. (A parte che ora MelaChan mi odia –
a proposito grazie per il betaggiooo <3 – e lo
farà probabilmente anche mezzo mondo ma anyway).
Alla prossima shot (sì, ne ho tre
in corso e mi metto a scrivere pure questa, bah…)