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Autore: Fenicella    13/11/2014    1 recensioni
E invece continuo a stare nel silenzio
Ti trascini tra notti insonni e te ne vai come fanno i fantasmi
Assumi i farmaci come fanno i disperati, i dipendenti
E io invece mi sento meglio, mentre sono avvolta dai sussurri dolci e leggeri
I sussurri riempiono il silenzio
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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                   Sussurri 
                      Uno
Ti ho abbracciato, finalmente. E non so cosa stia accadendo, adesso, ignoro completamente le lancette dell'orologio che continuano a muoversi, i sussurri invidiosi di rimprovero che mi lanciano gli adulti attorno a noi. Sento solo che c'é caldo, in questo posto che prima era solitario. Avvolta dal tuo cappotto, dal tuo corpo che é stato per troppo tempo lontano, distante e irraggiungibile. Percepisco il tuo respiro sui miei capelli, la saliva che viene deglutita nella tua gola, le tue mani che sostengono i miei fianchi leggere. Non c'è da biasimarti, se sei sorpreso. Perché mi sono lasciata prendere, ti sono venuta vicino senza essere in me. Perché la Anna che conosco io non lo  avrebbe mai fatto. Quella ragazza mora,  dall'aria sempre sognante ma maledettamente realista quando si tratta di amore, non avrebbe mai abbracciato uno sconosciuto. Che poi, non so se definirti tale é corretto. Sei così incredibilmente vicino, adesso, così  stranamente possibile. Mi concedo ancora  pochi altri minuti, in questo luogo protetto, in cui esiste solo il mio e il tuo respiro, senza niente altro. Ascolto questa poesia che detta il tuo cuore, assisto a questa danza del tuo petto che si alza e si abbassa, nell'infondata  speranza di toccare lontanamente la tua  anima. Quell'entità così inafferrabile, alla quale in pochi credono sul serio, quell'unica che é davvero immortale. Mi piacerebbe vederla, conoscerla, sapere qualcosa di lei. Ma la verità é che non conosco niente di te, neanche il tuo nome. E allora continuo ad ascoltare l'aria che tu espiri vicino alle mie orecchie, che come una ninna nanna segreta e primitiva, mi addormenta definitivamente. 

                        -•-•-•-•

Mi sveglio a fatica, da un sogno in cui avrei voluto rimanere sospesa. La testa mi duole leggermente, e appena cerco di alzarmi mi gira, come tutte le mattine. Fisso il soffitto bianco, dove si staglia uno spiraglio di luce dorata, probabilmente derivante da una porta lasciata un poco aperta. Non ho la minima idea di che giorno sia oggi, ma dato che non sento mia madre chiamarmi dal piano di sotto, deduco che non devo essere a scuola tra poco. Canticchio un motivetto allegro nella mia testa, sussurrandone le parole. Appena finisce il ritornello, decido di alzarmi, almeno per controllare l'ora sull'orologio del mio comodino. Come é mia abitudine, appoggio il braccio destro sul letto, per fare leva. Ma sento un dolore acuto che parte dal polso, una specie di pizzicorio che mi solletica dall'interno. Mi guardo bene la mano: vedo dei tubicini, collegati a degli aghi posizionati sotto la pelle. Studio meglio la stanza: vedo il colore bianco delle lenzuola fredde e spesse, e mi sembra tutto troppo sterile per essere camera mia. Realizzo di essere in un altro posto, uno asettico, impassibile ai cambiamenti della vita, un posto bianco. Sono in un ospedale. Cerco di dire qualcosa, di chiamare qualcuno che mi spieghi che succede. Mi si avvicina un infermiera. La riconosco dalla divisa, quel turchese acceso che la ricopre dalla testa ai piedi, e dal tesserino che porta appuntato sul petto col nome. Mi dice che si chiama Johanna. 
"Ricordi il tuo nome?" continua. "Anna" le rispondo, senza traccia di esitazione.
 "Cosa ricordi dell'incidente?" dice subito dopo. Ma quale incidente?, penso. "Ricordo di aver abbracciato un ragazzo bellissimo, e poi più niente" alle mie parole, aggrotta le sopracciglia, confusa. "Deve essere stato un sogno" risponde pensosa, quasi sussurrando. "Vado a chiamare i tuoi genitori-continua-non ti preoccupare di nulla". E io rimango distesa, a guardare il soffitto, adesso totalmente illuminato dalla luce di una soleggiata mattina di febbraio, una di quelle in cui il cielo é terso, ma fuori fa un freddo cane. Mi sento un po' sperduta, e non perché l'infermiera non sia stata gentile, ma perché quando ho menzionato del mio abbraccio con lui, gli occhi a mandorla castani le si sono assottigliati, e la bocca carnosa le si è corrucciata. Non posso credere che l'evento alla fermata sia stato un sogno. Perché sembrava così vivo, il suo profumo, e così profondo il suo respiro. Così tanto che non mi é possibile credere di aver immaginato tutto. 
Pochi minuti dopo, entrano un signore alto e dai capelli brizzolati, mio padre, e una signora bionda e bassa. Mia madre. Appena si avvicina, la abbraccio forte, sicura che non é successo niente, che l'infermiera ha toppato alla grande chiedendomi di un incidente, mi ha confusa con qualcun altro, che sono qui per degli stupidi esami e non devo farmi troppe domande. Ma lei ha gli occhi rossi, sembra che abbia appena pianto. "Mamma...che succede?" chiedo. 
"Anna, bambina mia. Sei svenuta, in mezzo alla strada, mentre aspettavi l'autobus. Per fortuna, il conducente ti ha vista e ti ha portata qui" mi dice. Ma io non capisco, non ricordo nessun bus, nessun faro nella luce fioca di quella mattina d'inverno, mentre ero alla fermata. I miei ricordi si fermano al nostro abbraccio, a quel sentimento bellissimo che ho provato. Ma c'è qualcos'altro, perché mia madre sta guardando intensamente un punto del mio corpo. Non ha lo sguardo sul mio volto, ma su un punto indistinto in basso, in mezzo alle lenzuola. "Cosa é successo alla mia gamba?" chiedo, timorosa, ma sicura di voler sapere la verità. Perché è quello il punto che guarda lei, la zona che mio padre fissa da quando è entrato. La mia gamba destra. "Sei svenuta, ti dicevo. Hai perso i sensi e sei caduta in avanti, finendo sul ciglio della strada. Un conducente non se n'è accorto e ti ha quasi investita. Hai avuto un lieve trauma cranico e ti sei rotta la gamba" finisce, in un sussurro. 
"M-ma guarirò, vero?" chiedo balbettante. Lei mi sorride, con le lacrime "Certo, tesoro, certo che guarirai.  Tra due mesi circa ti toglieranno il gesso. Hanno detto che se va tutto bene potrai tornare a casa domani". La notizia mi rincuora un po', con la certezza che tra due giorni tornerò alla mia vita normale, fatta di interrogazioni e compiti in classe. Ma non riesco ancora a capire perché nessuno mi dica che fine ha fatto lui. Quel ragazzo della fermata per il quale ho una cotta da due anni.
 "Scusate, ma quel ragazzo?" chiedo ai miei, dopo che si sono seduti sul mio letto e mia madre mi ha alzato la schiena, facendomi posare sulla testiera, così li posso guardare negli occhi senza che loro si debbano chinare. E poi, posso anche scrutare la mia stanza di ospedale. Non é molto diversa da quel che ho scritto prima: bianca, sterile, noiosa. Nessun mobile di design, nessun disegno alle pareti, né poster né illustrazioni del corpo umano, di quelle che hanno i dottori nei loro studi. "Quale ragazzo, Anna?" chiede, con aria indagatrice e sguardo improvvisamente sorpreso, mio padre. "C'era un ragazzo, alla fermata. Non ero sola sotto la pensilina" dico, facendo un po' l'indifferente "Amore-si intromette mia madre-ma l'autista ha detto che c'eri solo tu. I dottori ti hanno dato della morfina per l'intervento alla gamba, hanno detto che dopo esperienze del genere si possono fare sogni molto realistici, é assolutamente normale" finisce. Mi tiene la mano come fosse un gioiello prezioso, e mio padre mi tiene la mano sulla spalla, con fare protettivo, dice "Dovremo chiamare al più presto le zie, hanno detto di avvertirle quando ti saresti svegliata". La nostra famiglia é composta solo da noi tre, almeno qui a Torino. Perché in realtà, tutti e due i miei genitori hanno diversi fratelli e sorelle, che però vivono tutti in Puglia, a Bari. Più che nel capoluogo, in realtà, abitano in un minuscolo paese poco fuori città. Stanno in una casa piccola con un campo enorme intorno, ma non una di quelle ville pretenziose, bensì una costruzione povera, risalente alla guerra, coi bambini che corrono intorno e i vecchi che si siedono sul portico. Ci siamo stati, quest'estate, e per me é come se fossero ancora vivi gli odori, i sapori di quella vacanza. I frutti raccolti con gli zii, le chiacchiere con le zie, i giochi con i cugini. Il profumo del pane, del limone e dell'arancio, del fico fin troppo dolce, del cappero fin troppo salato. Il vino così rosso che pareva viola, il pomodoro che racchiudeva tutta la fatica del lavoro nei campi, dei braccianti che l'avevano raccolto. "Va bene, le chiamerò io dopo pranzo" rispondo a papà. I miei si sono trasferiti qui appena sposati, per delle proposte di lavoro che avevano fatto a tutti e due. Non so se sia corretto definirci una famiglia ricca, perché bisognerebbe specificare di che cosa si é ricchi. Papà va oltreoceano per lavoro circa una volta al mese, mamma lavora dalle otto di mattina alle nove di sera. Durante le vacanze estive, tranne quella volta in cui siamo andati a trovare gli zii al Sud, sto più tempo con la domestica che con loro. "Qualcun altro ha telefonato per chiedere come stavo?" pongo la domanda con un po' di incertezza, perché so che non c'è stato nessun altro. Mia madre mi guarda e non risponde. Mio padre fa no con la testa. 
                       -•-•-•-•

E' solo un sogno. Dentro di me, la mia coscienza lo sa, ne é consapevole. Eppure, sembra quasi che le cellule del mio corpo non se ne capacitino. Il respiro continua ad essere accelerato, le mani a tremare, e una parte del mio cervello sembra essere all'oscuro della falsità delle immagini che mi scorrono davanti. Ho paura, e sono agitata. Mi trovo in mezzo ad una strada, totalmente circondata dalla nebbia. C'è un colore grigio opprimente, che mi avvolge. Sento l'umidità, e il freddo dell'inverno che entrano dentro le mie ossa fragili. E' come se stessi cercando qualcosa. Ad un tratto, sento un rumore; più che altro, un frastuono metallico. Sembra quello di un treno. Che diavolo sta succedendo? Vedo delle luci venire verso di me, dalla mia sinistra. Realizzo che sono su un marciapiede, sotto una pensilina. Alla mia destra, c'è il quadro degli orari: sono alla fermata dell'autobus. I fari si avvicinano di più, e capisco che il suono che sentivo era quello dei freni del bus che arriva. Ma sento ancora qualcosa dentro di me, ancora ansia, paura, come se qualcosa mi mancasse. Il ragazzo. Dov'è? Quella figura alta e longilinea, quei capelli biondi e tinti, che mi aspettano sempre alla stessa ora. Ho bisogno di vederlo, di sapere che é vero. Arriva il mezzo che sto aspettando. Non c'è nessuno alla giuda, ma si ferma di fronte a me, con il solito stridore di freni. Salgo su. A prima vista, sembra totalmente vuoto, ma scorgo una figura in fondo, che appena mi vede si alza. Si sta dirigendo verso di me, con quella sua camminata aggraziata, quel gioco di gambe che mi ha sempre affascinata. E' il ragazzo della fermata. Mi arriva davanti. Sembra quasi che mi stia guardando negli occhi, adesso. Il cuore mi batte più forte, nel petto, sembra quasi che voglia uscire. Mi tocca le guance, mi accarezza. Mi lascia un bacio sulle labbra. 

Ma é solo un sogno. 



Angolo autrice 
Ciao a tutte!!! Allooooora: ho un sacco di cose da dire, ma spero di non diventare troppo lunga. La storia prende il via dalla mia OS "Fa freddo alla fermata", perché ci ho pensato per tanto tempo e alla fine...beh, ecco qui. La storia si svolge appena dopo la fine della OS, che ho ripreso nel primo paragrafo, spero sia tutto chiaro anche per coloro che non l'hanno letta. Adesso...sinceramente sono senza parole. Grazie tantissimissimissimo alle splendide ragazze che mi sostengono, a le mie amiche e a Jeli, che mi recensisce, mi aiuta e mi sostiene anche quando sono giù e vorrei sprofondare. Questa storia senza il tuo entusiasmo sarebbe rimasta incompiuta. Grazie anche a tutti i lettori silenziosi, lo so che ci siete!!
Infine, tanto per cambiare, non mi lancerò in preghiere perché mi lasciate una recensione...vi prego!!!!!
A prestissimo, Fenix;)
  
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