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Autore: Mokusha    17/11/2014    0 recensioni
[Raccolta di OS, DallasBuyersClub!Verse]
Il freddo era una sensazione persistente, da quel giorno.
Non se ne andava mai.
OS 1 - Disfigured. Destroyed. Damned. Dead.
OS 2- The soul underneath the skin.
OS 3 - Little ray of sunshine
OS 4 - Take ne to church
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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 Little Ray Of Sunshine
(I cry when I listen to you breathing)


Le fiammelle dei lumini si riflettono sui lucidi petali delle rose bianche e sul vetro della cornice. Le illuminano il viso, e lei non può fare a meno di pensare che la luce le ha sempre donato. Non riesce a staccare gli occhi da quella fotografia, tutto quello che è rimasto, assieme a milioni di ricordi frammentati
La stanza è fredda, lo è sempre stata.
O forse il freddo è solo dentro di lei. Non basterebbe tutto il calore del mondo a scaldarla, adesso che Rayon non c’è più.
Non. C’è. Più.
Queste parole sono terrificanti, spaventose, non riescono ad acquistare un senso nella sua mente.
Il vuoto la inghiotte ed è gelido.
Fa così freddo dentro di lei che le ossa rimbombano dentro la sua pelle, il gelo le scuote, sembra quasi vogliano spaccarsi e urlare tutto il dolore sordo che le pulsa nell’anima.
Si sente immobile.
Sono tutti lì.
Ron, Eve, persino quella dolce signora di colore che lavorava nel Club, e quel biondino di cui non ha mai afferrato il nome, a Ray piaceva chiamarlo Sunflower.
Sono seduti a semicerchio su delle scomode sedie di legno, ma la sua poltrona è vuota, la vestaglia rosa appoggiata sullo schienale. Quel posto libero è così sfacciato, mette tutti di fronte ad una realtà che sembra impossibile da accettare.
La ragazza preferisce non pensarci, ogni volta che le parole ‘mai più’ si affacciano al turbine dei suoi pensieri le sembra di impazzire, e vorrebbe solo annullarsi ed essere morta con lei, assieme al raggio di sole della sua vita.

Ron  sta facendo girare una bottiglia di Bourbon, quando le arriva tra le mani prende una lunga sorsata di liquido dorato che le brucia dentro senza tuttavia scaldarla, anzi.
 La sua voce è roca quando cominci a parlare, graffiata dalle lacrime, dai singhiozzi, dalle urla, dalle parole trattenute.
“Quando l’ho conosciuta, era ancora Raymond. E lui era un ragazzino dai capelli troppo lunghi, gli occhi troppo grandi a cui piaceva vestirsi come David Bowie. Era il mio compagno di banco, e mi faceva sempre fare i suoi temi di letteratura. Non perché lui  non avesse niente da dire, ma perché era convinto che a nessuno interessasse. A me importava, invece. Importava tantissimo.”


Raymond era sempre triste.
Lei lo sapeva, era l’unica a conoscerlo, a conoscerlo davvero, e le bastava guardarlo per capire come si sentisse. 
Era come se fosse capace di vedergli l’anima, e ogni volta pensava di non aver mai visto niente di più bello e più degno d’amore.
Quel giorno di metà febbraio, Raymond era seduto su una delle panchine del cortile della scuola, le spalle curve, dondolava leggermente, avanti e indietro, un movimento involontario che faceva sempre quando era a disagio.
Diceva sempre di sentirsi sbagliato per il mondo, in realtà lei pensava che fosse il mondo ad essere sbagliato per lui.
Lo raggiunse, lascio cadere lo zainetto, e gli si sedette accanto.
“Ray-Ray” disse, posandogli una mano sulla spalla.
Lui alzò il viso e la guardò, e come tutte le volte lei non potè fare a meno di sprofondare nel suo sguardo.
Lui aveva quel suo modo di parlarle con gli occhi, quel cielo liquido le insegnava così tante cose, conosceva così tanto, e nascondeva così tanti segreti non detti, così tanti misteri.
Lo zigomo sinistro era gonfio e arrossato, così come il labbro inferiore, un taglio lo apriva nel mezzo.
“Oh, Raymond..” sospirò lei.
Lui abbassò di scatto la testa, tornando a nascondersi, a vergognarsi.
“Non chiamarmi così” sussurrò “E’ come mi chiama lui.”
“Ray.” lo chiamò, dolcemente, cercando il suo viso con le mani “Ray, fammi vedere.”
A Raymond piaceva la sua voce. Glielo diceva sempre. Era gentile, calda, rassicurante.
Lo faceva sentire giusto, e a casa.
I suoi occhi tornarono a posarsi su di lei. Erano così pieni di tristezza, una tristezza così pura, così autentica, e cruda da farle male.
“Cos’è successo?”
Si strinse nelle spalle.
“Ha trovato il costume che stavo cucendo per la sfilata del Martedì Grasso. Ha detto che è una mancanza di rispetto verso di lui che è mio padre, e che non devo osare nemmeno pensare di potermi vestire a quel modo, in nessuna occasione. L‘ha distrutto. E poi ha… distrutto me.”
Lei si sforzò di ignorare il dolore di cui era tessuto quel sussurro.
“Cosa stavi cucendo?”
“Un’imitazione del vestito rosso di Marylin Monroe.”
“Ray…”
“Sarebbe stato solo per Carnevale. Solo per Carnevale. Viviamo a New Orleans, dannazione. Volevo solo… Osare. Ero… Curioso.”
“Lo so.”
Il ragazzo sospirò.
“Ray?”
“Mh?”
“Hai mai messo un vestito prima d’ora? Intendo… Un vestito da donna.”
Il ragazzo arrossì, ma non rispose. Chinò di nuovo la testa, tornando a fissare la punta delle proprie scarpe.

“Vieni, andiamo.” disse lei dopo un po’. “Oggi saltiamo la scuola.”
Lui sorrise, e il cuore della ragazza vibrò.
E avrebbe voluto solo abbracciarlo forte, e dirgli che lei sapeva, ed andava bene così, sarebbe sempre andato bene, e che niente aveva importanza, ma aveva paura di calpestargli l’anima, di schiacciargliela, di ferirgliela.
“E dove vorresti andare?”
“A casa mia. Mamma ha portato a casa due scatoloni nuovi di stoffe, ieri. Potremmo dare un’occhiata, magari troviamo qualcosa.”

Raymond adorava la casa di lei.
Sua madre dipingeva, era piena di quadri, di tele, i muri erano dipinti, era piacevolmente disordinata e accogliente, sempre profumata di cannella.
Si tolse le scarpe, e si sistemò a gambe incrociate sul letto. Afferrò la chitarra, mentre lei frugava negli scatoloni, e prese a strimpellare la sua canzone preferita.

“You wish and wish, and wish again
You've tried so hard to fly
You'll never leave your body now
You've got to wait to die”

“E’ triste.”
Raymond smise di suonare. “Cosa?” domandò.
“La canzone che stavi cantando. E’ triste.”
Lei parlava senza guardarlo, continuava a frugare negli scatoloni.
“Un po’.”
“E’ così che ti senti?”
Lui sospirò, posando la chitarra.
“Parlami, Ray.”
“Cosa dovrei dirti?”
“Cos’è che ti rende così triste?”
“Sono troppo triste per te? E’ complicato starmi vicino? Ti faccio del male perché ti sembro triste?”
“No, no! Certo che no” esclamò la ragazza. “E’ solo che vorrei che tu… Vedessi quello che vedo io.”
“E cosa vedi?”
Lei si limitò a scrollare le spalle.
“Ecco.” proferì, allungandogli un vestito argentato “E’ degli anni ‘20. Non sarà Marylin, ma può sempre andare.”
Lui prese il vestito e se lo rigirò tra le mani.
Sembrava che tutte le stelle fossero piovute su quel pezzo di stoffa. Provò ad immaginarselo addosso e si sentì arrossire.
Avrebbe voluto scappare, era stata una pessima idea. Fin dall’inizio. 
Senza accorgersene aveva ripreso a dondolare.
Le mani della ragazza si chiusero sui suoi polsi.
“Ray.” sussurrò, calma, gentile, quasi materna. “Mettilo.”
“Poi coprire lo specchio?”
Lei annuì, si alzò, e obbedì.
Raymond cominciò a cambiarsi. Slacciò i bottoni della camicia, la cintura dei pantaloni, e lasciò cadere i vestiti sul pavimento.
Lei le dava le spalle.
Il battito del suo cuore la assordava.
Si sentiva come se stessero facendo qualcosa di perversamente sbagliato, ma sembrava che quella fosse allo stesso tempo la cosa più giusta che potessero fare.
Ray infilò il vestito. La stoffa gli scivolò addosso, baciandogli la pelle, avvolgendogli il corpo come una coperta calda. Gli scendeva fino a sopra le ginocchia, lasciando scoperte le gambe. La scollatura gli stava larga, e le spalline continuavano a scivolargli.
Si schiarì la voce.
Lei si girò, e spalancò gli occhi, ma non disse niente.
Rovistò nella sua cesta da cucito, prese ago e filo e lo raggiunse.
“Non muoverti, okay? Te lo sistemo.”
Lui annuì.
Aveva le labbra secche, le gola arida.
“Siediti qui.” gli indicò una sedia, quando ebbe finito di cucire.
“Dì qualcosa.”
La ragazza sorrise.
“Quando avrò finito. Adesso sta fermo.”
Aprì tutti i cassetti della specchiera, tirando fuori ombretti, rossetti e mascara.
“Chiudi gli occhi.”
Iniziò a truccarlo, le sue dita erano gentili sulla sua pelle, lui non riusciva a ricordare di essere stato trattato con tanta gentilezza da qualcuno prima di quel momento, mentre lei non riusciva a capacitarsi di quanto il proprio cuore volesse disperatamente mostrargli quello che lei vedeva attraverso i suoi occhi.
“Ho finito.” bisbigliò dopo un po’. “Metti questa.” 
Raymond aprì gli occhi, e si sistemò la parrucca che lei le porgeva.
Allungò una mano e le carezzò una guancia, raccogliendo la lacrima che la rigava.
“Perché piangi?”
“Perché tu mi commuovi. Le cose belle mi commuovono sempre. Sei qualcosa di così prezioso.”
“Io.. Non credo.”
“Guarda.” gli disse, scoprendo lo specchio.
Raymond odiava gli specchi. Si specchiava pochissimo, perché gli specchi gli mentivano sempre. Erano crudeli e sprezzanti con lui. Ma non quella volta.
Raymond si trovò per la prima volta faccia a faccia con quello che avrebbe sempre voluto vedere.
Poteva riconoscersi, riflesso in sé stesso.
“Vedi.” la voce di lei interruppe i suoi pensieri. “Questo è quello che io vedo quando ti guardo, Ray.”
Lui deglutì, ricacciando giù il nodo di lacrime che aveva in gola.
“Questo…” sussurrò “Questo sono davvero io.”




“Pochi giorni dopo quell’episodio lasciò la scuola. Venne da me un pomeriggio, e mi disse che sarebbe partito la mattina dopo. Voleva andare a New York, a Chicago Voleva vedere Las Vegas. New Orleans gli stava stretta. L’intero stato della Louisiana gli stava stretto. Diceva che lì nessuno l’avrebbe mai capito, che nessuno l’avrebbe mai accettato. Che non poteva continuare a vivere una bugia per il resto della sua vita. Vivere in un corpo che non gli apparteneva. Una vita che non era la sua, in una pelle che lo soffocava. Che lo distruggeva, minuto dopo minuto. Voleva sentirsi come quando si era specchiato a casa mia. Mi ha detto che ero la persona a cui voleva più bene al mondo. E io l’ho lasciato andare. Volevo che fosse felice, anche se la sua partenza mi avrebbe massacrata. Io lo amavo. Mi sono innamorata di Raymond un poco alla volta. Mi sono innamorata della sua anima, che era Rayon. Quando l’ha lasciata uscire allo scoperto non ho potuto fare a meno di innamorarmene, e di amarla probabilmente ancora di più. Gli ho regalato dei vestiti, dei trucchi e delle calze. Riusciva a smagliare ogni paio che si metteva.”
Ron ride piano, e fa sorridere anche lei.
“Non ho mai più aperto il mio cuore a nessun altro. E’ come se andandosene avesse portato via con sé la mia capacità di innamorarmi, lasciandomi solo l’amore che provavo per lei. E adesso l’ha fatto di nuovo.”
Deglutisce, ingoiando le proprie lacrime.
“E le sono grata per non esserselo portato via. Quando l’ho rivista, anni dopo, ho creduto che il mio cuore sarebbe scoppiato. A prima vista, non c’era più traccia di Raymond, ma solo Rayon. Piena di sogni, folle, gentile, il cuore più straordinario in quest’universo.
Era tornata, finalmente.
I suoi occhi ma hanno raccontato tutto quello che aveva vissuto, che aveva provato, che aveva fatto. E ho scoperta che la sua anima era ancora lacerata, ma non si sforzava più ad ogni costo di nasconderla. Era esposta, nuda, consapevolmente fragile
E io avrei voluto così tanto proteggerla. L’avrei voluto così tanto.
Avrei voluto proteggerla dai suoi vizi, dalle cose sbagliate. Avrei voluto proteggerla da quello che me l’ha portata via. Ma non esisteva un singolo aspetto di lei che non fossi capace di amare disperatamente.
E… Adesso è tutto così vuoto e freddo.
A volte mi fermavo qui, la notte, soprattutto negli ultimi tempi. Mi ero abituata ad addormentarmi ascoltandola respirare, e… Da quando… Da quando se n’è andata io non riesco più a dormire.
E lei mi manca così tanto.”
La stanza è immersa nel silenzio, Ron ha finito l’ultimo sorso di Bourbon, continua a passarsi la bottiglia da una mano all’altra. Eve ha ormai ridotto in briciole il suo fazzoletto di carta. La cera dei lumini si è consumata, solo una fiammella resiste, ancora, debolmente. Danza ancora per un po’, disegna ombre sulla foto in cui si riflette. Sembra cerchi quasi di tenerla in vita.
Poi, in un soffio, anche quella si affievolisce, e muore.

“Mi mancherà per sempre.”




Okaaaay, naturalmente era meglio nella mia testa :')
A parte ciò, nonostante non sia pienamente soddisfatta del lavoro (ma non lo sono mai), non posso dirvi quanto io sia felice di aver postato di nuovo in questa raccolta.
E quindi niente, tutto ciò mi da troppo amore.
Spero che siate un po' feligi anche voi, e vi mando un sacco di baci.
Mokusha



 
   
 
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