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Autore: moonwhisper    29/10/2008    10 recensioni
Trovava sempre sconvolgente il fatto che le macchine fotografiche permettessero di fermare gli attimi e nello stesso tempo rendessero più concreto lo scorrere veloce degli istanti, facendole percepire sulla pelle la nostalgia del passato, seppur recente.
Quel breve minuto in cui lei era rimasta immobile di fronte allo specchio non sarebbe più tornato.
Avrebbe potuto scattare la stessa foto centinaia di volte, ma non sarebbe mai stata uguale a quella precedente, semplicemente perché quel frammento di vita non esisteva più.

Diane non è solo una fotografa. E' qualcosa di più.
Il tassello mancante. Confidente, amica, musa, donna, bambina, anima, corpo.
E' ciò che occorre per ricucire insieme i lembi di un amore impossibile. Ciò di cui si ha estremo bisogno per comprendere se stessi.
Ma in realtà... chi è Diane? Cos'è Diane?
{Sequel di "And... can you dream?"}
Genere: Generale, Romantico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Kaulitz, Georg Listing, Gustav Schäfer, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Marzo

 

 

 

Si guardò intorno, cercando il “qualcosa”. Il particolare, il colore, la forma da ritrarre per ricordare quel giorno. Ma non c’era nulla in quell’asettica sala d’attesa dalle pareti candide e lucide. Solo un tavolino di vetro, sei sedie di pelle bianca, due porte ed una finestra. L’unico elemento che spezzava quel tedioso ordine era la parete di specchi alla sua sinistra. Si alzò, andando incontro al suo riflesso. Studiò la sua gemella con curiosità, chiedendosi se era così che la vedevano gli altri.

Viso pallido, mento piccolo, naso appena all’insù affacciato su una bocca morbida, a cuore. Occhi grandi e grigi, dalle ciglia molto lunghe. Capelli di un castano intenso, scuro, lisci come spaghetti, che le incorniciavano il volto in un caschetto perfetto, e le coprivano la fronte con una frangetta precisa, un po’ troppo lunga.

Forse avrebbe dovuto scegliere degli abiti più consoni alla situazione, pensò studiandosi meglio. Non che non ci avesse provato, ma le riusciva davvero difficile adattarsi ai gusti degli altri. Perciò, dopo aver acquistato due o tre capi che in altre occasioni non avrebbe mai nemmeno preso in considerazione di comprare, aveva optato per i suoi soliti vestiti, ottenendo il consueto aspetto stravagante e retrò.  Maglietta leggera, di cotone bianco, aperta sul davanti, in uno scollo che lasciava appena intravedere l’incavo del seno. Gonna al ginocchio, di un pallido verde acqua, con inserti di tessuto ricamato. Bassissime ballerine rosa tenue. Sapeva bene di non corrispondere ai canoni di moda, ma lei si piaceva solo così, non riusciva ad accettarsi in altro modo. E in ogni caso, coloro che la conoscevano come artista, le perdonavano le sue stranezze.

Si, perché lei, era un’artista. Un’artista con i fiocchi per la precisione, una delle più giovani in circolazione, e chi frequentava l’ambiente della fotografia conosceva bene il suo nome. Nome che era stato notato dal management di una famosa rock band, poco tempo prima. Nome che le aveva consentito di ottenere quel colloquio di lavoro, in una mattina di marzo insolitamente calda. In realtà vedendola in modo soggettivo si sentiva parecchio strana. Lei si occupava di ritrarre la vita vera, le cose che si potevano toccare con mano, annusare, gli oggetti e le persone vicine a coloro che avrebbero ammirato le sue fotografie. Il mondo dello spettacolo era quanto di più lontano ci potesse essere dalla sua concezione di “artistico”, non riusciva a trovare poesia in quella dimensione popolata da trucco e luci. Ma in ogni caso, il lavoro era lavoro, ed era stato proprio quello il motivo ad indurla a concedere un appuntamento al tale che si era occupato personalmente di contattarla. Un pezzo grosso, da quanto le era stato fatto capire. Non che fosse impressionata, semplicemente pensava che cimentarsi con qualcosa di nuovo le sarebbe servito. Prevedeva di lasciare l’incarico dopo poco tempo, un anno, al massimo con uno o due mesi d’aggiunta, se per assurdo le fosse piaciuto il contesto nel quale avrebbe operato, cosa che dubitava.

Terminò il suo esame. Non era soddisfatta, ma nemmeno delusa da se stessa.

Portò le dita sottili alla cinghia che aveva intorno al collo, scivolando lungo il tessuto ruvido, fino ad arrivare al confortante contatto con il prolungamento del suo corpo. Canon EOS 1Ds, nera, discreta, qualunque, dagli angoli già un po’ sbucciati e il suo nome inciso su un fianco. I cultori delle macchine fotografiche storcevano il naso di fronte al trattamento che riservava ai suoi strumenti, ma questo non la metteva in soggezione. L’essenziale per quanto la riguardava era sentire suo quell’oggetto, suo e di nessun altro, sentire che era usato, appena ammaccato e imperfetto come qualunque altra parte del suo corpo. Ogni sua macchina fotografica aveva una personalità, una denominazione, un’essenza. Probabilmente era una cosa un po’ folle da pensare, ma non se ne preoccupava.

Scostò il copri obiettivo e portò il mirino all’occhio. Regolò il diaframma e la messa a fuoco, per poi portarsi la macchina al ventre e puntarla contro lo specchio. Incrociò i suoi stessi occhi ed esitò giusto un istante prima di praticare una leggera pressione sul pulsante di scatto. Un tac sommesso la informò che l’immagine era stata immortalata. Trovava sempre sconvolgente il fatto che le macchine fotografiche permettessero di fermare gli attimi e nello stesso tempo rendessero più concreto lo scorrere veloce degli istanti, facendole percepire sulla pelle la nostalgia del passato, seppur recente. Quel breve minuto in cui lei era rimasta immobile di fronte allo specchio non sarebbe più tornato. Avrebbe potuto scattare la stessa foto centinaia di volte, ma non sarebbe mai stata uguale a quella precedente, semplicemente perché quel frammento di vita non esisteva più.

Sentì qualcuno abbassare la maniglia della porta alle sue spalle e si voltò, coprendo di nuovo l’obiettivo. Una donna sulla trentina comparve sulla soglia, stretta in un tailleur nero e in bilico su alti tacchi a spillo. Teneva una cartellina tra le mani e sorrideva in modo professionale.

- Prego, si accomodi – disse, con voce gentile, scostandosi per farla passare.

La ragazza annuì impercettibilmente e raccolse la sua grande borsa di tela grezza, spessa e bianca, per poi varcare l’entrata con educazione.

- Mi segua – disse di nuovo la donna, facendole strada. Lei si guardò intorno, cercando invano un elemento di colore in quel mescolarsi senza fine di bianchi e grigi, stesi su lunghe e pulite superfici.

- Ecco, può entrare da quella porta – la segretaria catturò la sua attenzione indicandole un’altra porta bianca, di fronte a lei.

- Grazie – disse, con la sua voce bassa, dolce. Poi sfiorò con le dita la sua “bambina” e si diresse verso la porta. Posò una mano sulla maniglia con una strana sensazione che le comprimeva lo sterno. Un presentimento. Il presentimento che se avesse aperto quella porta qualcosa sarebbe cambiato, per sempre. E sempre è… per sempre.

Fece un bel respiro ed entrò, tuffandosi ad occhi chiusi in quell’universo sconosciuto.

 

Il Signor David Jost era una persona che sapeva il fatto suo. Una persona molto sicura di se e del suo aspetto, lo si intuiva dal modo in cui indossava i jeans sdruciti e la maglietta nera, morbida, dalle maniche tirate su sui gomiti. Aveva lo sguardo ridente di chi è abituato a sorridere per lavoro e lo sa fare senza apparire un’idiota. La accolse con uno smagliante sorriso, oggettivamente convincente. Il suo studio era un po’ più colorato e vissuto rispetto agli altri. C’erano delle piante in un angolo, un divanetto, uno scaffale pieno di dischi e sulla scrivania facevano bella mostra di se portapenne sontuosi e stilografiche di lusso, varie scartoffie e brochure e un bicchiere vuoto di caffè.

- Buongiorno! Lei è la signorina Diane Köhler immagino – disse alzandosi e sporgendosi verso di lei, che lo raggiunse e gli strinse la mano. Aveva una bella stretta, sicura, calda e asciutta.

- Buongiorno a lei – rispose Diane rivolgendogli un sorriso educato – E lei dovrebbe essere Il Signor Jost –

- Ah, no, mi chiami pure David -  disse lui agitando una mano – Ma prego, si sieda – aggiunse poi indicandole la coppia di sedie poste di fronte alla scrivania. Diane prese posto, sedendosi composta su una delle due.

- Dunque, veniamo al punto senza girarci troppo attorno. Mi perdoni per la scarsa capacità di fare conversazione, ma il tempo che ho a disposizione è sempre insufficiente – disse l’uomo aprendo un cassetto della scrivania per estrarne un sottile fascicolo blu.

- Non si preoccupi. Non sono una persona di molte parole – lo tranquillizzò Diane, con un cenno del capo. David Jost le sorrise ed estrasse un foglio dal fascicolo.

- Vediamo, qui c’è più o meno un resoconto delle sue esperienze lavorative e scolastiche. Tutte cose che ho già esaminato personalmente e che mi hanno lasciato francamente basito… Lei ha… - sfilò un altro foglio dal fascicolo – Ventitré anni e possiede l’esperienza sul campo di un fotografo professionista. Ho il dubbio di trovarmi di fronte ad una bambina prodigio – terminò con un sorriso affabile.

Diane si irrigidì appena sulla sedia, ma l’uomo non se ne accorse.

- I miei genitori mi hanno iniziata alla fotografia quando avevo appena dieci anni. E’ tutto merito loro ho il dubbio – disse, portandosi un ciuffo del caschetto dietro l’orecchio sinistro.

- Non tutto, mi permetta di correggerla. Ho visto una delle sue mostre, a Berlino, un anno fa. E devo sinceramente dirle che mi ha colpito non poco. Le sue foto sono straordinarie – ribatté il Signor Jost.

- La ringrazio per i suoi complimenti – disse Diane sorridendo di nuovo.

- Di nulla. E’ bene che sia consapevole delle sue capacità, se non fosse un’artista più che eccellente non avrei richiesto un colloquio con lei – l’uomo conservò i fogli nel fascicolo ed intrecciò le mani – Andiamo al sodo. Vorrei assumerla come fotografa ufficiale della band che la casa discografica per cui lavoro produce, i Tokio Hotel. Li conoscerà suppongo –

Li conoscevano tutti, pensò Diane. Anche lei, suo malgrado, perché frequentando saltuariamente l’ambiente dello spettacolo sfuggire alle ultime novità in fatto di VIP era praticamente impossibile. Le era capitato più di una volta, ad alcune cene tra colleghi e gente del mestiere, di sentir parlare di quel gruppo. Tuttavia le informazioni che aveva carpito riguardavano soprattutto Photoshoot e tecniche d’inquadratura adatte al set che il fotografo incaricato avrebbe usato, non considerazioni personali. Volendo fare una somma di quello che sapeva dei Tokio Hotel, si otteneva davvero poco. Erano famosi e avevano sbaragliato la concorrenza musicale europea guadagnando un sacco di quattrini. Le sue nozioni si fermavano li, contornate da un paio di foto che aveva visto di sfuggita il giorno prima e uno o due video che aveva analizzato per accertarsi che non avrebbe avuto a che fare con tossicodipendenti, alcolisti o gente simile.

- Si – rispose semplicemente.

Il Signor Jost sorrise.

- Bene. Saprà che sono giovani ed anche piuttosto bellocci. Il fatto è che ai piani alti si sono messi in testa di cominciare a costruire attorno a loro un’immagine più… accessibile, per far si che i fan li sentano più “vicini” – spiegò con l’aria di quello che non condivideva appieno l’idea, o comunque aveva delle riserve su quel progetto.

- Capisco… - disse soltanto Diane, le mani ancora saldamente ancorate alla sua Canon.

- E, insomma, chi meglio di lei per farli apparire più… - l’uomo si appoggiò allo schienale della sedia, senza trovare la parola esatta.

- Umani? – terminò per lui la ragazza. Jost le rivolse un sorriso.

- Mi ha compreso alla perfezione. Devono sembrare umani, delle persone che potremmo incontrare per strada, con cui potremmo parlare e scambiare opinioni. Non è un incarico particolarmente facile, me ne rendo conto, ma so che è perfettamente alla sua portata – disse.

Diane tacque per un attimo.

- Ovviamente terremo conto della sua rispettabilità quale artista. Pubblicizzeremo il fatto che è lei l’autrice di ogni singolo scatto e proibiremo ad altri fotografi di prendere il suo posto. Lo consideri come un ingaggio qualsiasi, per una rivista di moda o il set di un film, solo che durerà qualche mese in più – aggiunse l’uomo con voce tranquilla.

- Di quanto tempo stiamo parlando? – chiese infine la ragazza.

- Un anno all’incirca. Il tour dovrebbe terminare a Marzo dell’anno prossimo. Faremo delle pause durante il tour ad ogni modo, tre o quattro mesi sparsi qua e la – rispose Jost alzando le spalle.

- E quando li dovrei ritrarre, precisamente? – domandò Diane, pensierosa.

- Durante le esibizioni, ma soprattutto prima e dopo. Nei loro momenti di tempo libero, quando sono stanchi, quando si sono appena svegliati, quando stanno fumando. Quando fanno ciò che farebbe ogni ragazzo della loro età – spiegò l’uomo tirando fuori una sigaretta da un cassetto – Ne vuole una? – le chiese.

- No, grazie – rifiutò cortesemente Diane, riportando di nuovo la ciocca ribelle dietro l’orecchio.

David Jost sorrise, accendendo la sigaretta che aveva tra le labbra.

- Per quanto riguarda i noiosi particolari… - disse afferrando un foglio che giaceva sotto il bicchiere di caffè – Le garantiamo il compenso fisso mensile indicato sul modulo di contratto, oltre naturalmente ai diritti ogni qual volta una delle sue foto comparirà su giornali, cd e cianfrusaglie varie –

Diane annuì. La retribuzione era importante, rispecchiava le sue aspettative. Aggiungendo i guadagni di quell’anno ai soldi che aveva messo da parte fino a quel momento, avrebbe potuto comprarsi la casa che desiderava e concedersi il lusso di una vera e propria stanza per lo sviluppo artigianale delle sue foto. O magari un piano intero… forse in quel palazzo che aveva notato in centro, poco tempo fa. Nei suoi pensieri si insinuò prepotentemente e all’improvviso, un paesaggio brullo. Degli alberi di ulivo su un campo di terra rossa. Un muretto a secco ingiallito dal sole ed una vecchia casa. Sarebbe stato bello tornare in Spagna…

- Perfetto – disse, impedendosi di indugiare oltre su quella riflessione pericolosa.

- Ottimo. Quindi, accetta? – le domandò, scrutandola con discrezione. Diane lo guardò.

- Si, accetto – disse infine, con un lieve cenno del capo.

- Fantastico! – esclamò l’uomo alzandosi in piedi – Andiamo – disse, sorpassando la scrivania e raggiungendola.

- Dove? – chiese Diane spaesata, sollevandosi.

- Le faccio conoscere i ragazzi – spiegò l’uomo, pimpante, soffiando fumo come una ciminiera. Le cedette il passo facendola uscire per prima dallo studio e poi urlò il nome della segretaria, facendosi dare giubbotto e chiavi della macchina.

Diane, ancora confusa da quell’improvvisa frenesia che si era impossessata del manager, lo seguì in strada, fino ad una macchina nera e lussuosa.

- Prego, salga – le disse Jost aprendole la portiera.

Diane scivolò dentro l’abitacolo con lo stomaco sottosopra. Non era abituata a tutto quel muoversi e parlare. Le sue giornate, solitamente, trascorrevano nel silenzio. Ripensò al fatto che aveva appena accettato di seguire in tour un gruppo rock e si lasciò sfuggire un sospiro rassegnato. Artista o non artista, anche lei doveva vivere come tutti gli altri.

- Vedrà, le piaceranno – disse il manager dal lato del guidatore, con un altro, abbagliante sorriso, prima di lanciare la metà non ancora consumata della sigaretta fuori dal finestrino.

 

L’edificio davanti al quale l’uomo parcheggiò la macchina era moderno, dipinto completamente di grigio, con l’entrata supervisionata da un portiere arcigno.

Diane lo seguì, taciturna, iniziando a provare un accenno di curiosità verso coloro che avrebbero incontrato di li a poco. Con l’ausilio di un ascensore raggiunsero il secondo piano dell’edifico.

Appena ebbero sorpassato le porte scorrevoli la ragazza sentì una melodia sconosciuta raggiungerla, come attutita da una parete. Difatti, dopo un paio di metri, il manager si fermò di fronte ad uno spesso vetro affacciato su di una stanza insonorizzata, dove Diane vide finalmente quelli che sarebbero stati i soli ed unici soggetti delle sue foto per un intero anno. Si era fatta una vaga e frettolosa idea del loro aspetto, ma vederli così da vicino le permise di prendere in considerazione diversi particolari che le erano sfuggiti.

Al centro della stanza, seduto su di un alto sgabello, proteso verso il microfono che pendeva dal soffitto, c’era quello che sembrava un ragazzo, almeno al suo sguardo abituato a bellezze efebiche, ma Diane non si sarebbe stupita se qualcuno l’avesse scambiato per un membro del gentil sesso. Teneva i lunghi  capelli corvini, striati qua e la di bianco, lisci sulle spalle, e il capo coperto da un berretto scuro. Anche alla poca luce della sala registrazione si notava l’alone nero dell’ombretto steso su entrambi gli occhi. Era vestito in modo sobrio, un paio di jeans ed una felpa, anche quella color pece.

A poca distanza da lui,  c’era un ragazzo con lunghe dreadlocks bionde, raccolte in una coda che usciva da un cappellino da baseball bianco, calato su di una fascia del medesimo colore. Imbracciava una chitarra e sorrideva tra se e se, mentre suonava muovendo una delle gambe coperte dagli enormi jeans.

Diane ricordò al volo che due componenti della band erano gemelli, ed individuò immediatamente le somiglianze tra il vocalist e il chitarrista.

Dietro il chitarrista, seduto alla batteria, c’era un ragazzo biondino, dallo sguardo vispo e il viso roseo, che maneggiava le bacchette con una tranquillità disarmante. Alla sua sinistra, l’ultimo componente della band, era intento a far scorrere le mani sulle spesse corde di un basso, i capelli lisci e castani che gli spiovevano davanti al viso, le gambe larghe e le spalle curve in avanti.

Ragazzi. Avranno avuto si e no la sua età, forse qualche anno in meno.

Quindi erano quelli, i reali Tokio Hotel?

- Mia cara Diane Köhler, le presento i Tokio Hotel – disse il Signor Jost, lasciandosi sfuggire una smorfia tronfia sul viso.

Diane mascherò l’espressione seria con un sorriso enigmatico.

Guardò il manager salutare il chitarrista, che era il primo ad essersi reso conto della loro presenza. L’uomo fece segno di interrompere le prove e di uscire dalla sala registrazioni.

Diane premette un po’ di più la macchina fotografica al ventre. Non le era mai piaciuto particolarmente conoscere persone nuove, troppo frequentemente non sapeva cosa dire o come dire ciò che aveva in mente. Inoltre spesso e volentieri le era capitato di fare conoscenza con persone famose davvero scortesi, per non dire maleducate.

I ragazzi uscirono uno per volta, e lei notò che erano molto più alti di quello che le erano sembrati. Ancora prima che il manager dicesse qualcosa cominciarono a squadrarla. Diane vide distintamente un sorriso sincero dipingersi sul volto del biondino che suonava la batteria, mentre gli altri tre avevano un’aria diffidente. In particolare il cantante sembrava indispettito dall’improvvisa interruzione.

- Ragazzi, vi voglio presentare la vostra nuova fotografa personale. Diane Köhler – disse il Signor Jost, posandole una mano sulla spalla. Tutti la guardarono con più intensità. Il chitarrista dalle lunghe trecce disordinate mascherò le prime note di una risatina con un colpo di tosse, il cantante inarcò tanto le sopracciglia che sembrava volesse farle sparire sotto il cappellino, il bassista le sorrise incerto e solo il batterista si degnò di porgerle una mano.

- Piacere, Gustav – disse, quando lei gliela strinse. Istantaneamente Diane decise che quel ragazzo era il più simpatico, o almeno, il più socievole, e fu rincuorata dalla sua stretta ferma e asciutta. Il secondo a presentarsi fu il bassista.

- Piacere, Georg – le disse, con voce da uomo.

Il più riluttante a porgerle la mano bianca fu il cantante, lo fece con un’aria di superiorità che quasi le fece rimpiangere di essersi fatta assumere.

- Bill – disse soltanto, con tono indifferente. Diane scappò dalla sua stretta gelida, e passò a quella del chitarrista, che fu ben più energica.

- Io sono Tom – le disse, con voce baritonale.

La ragazza si portò nervosamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio sinistro e tornò affianco al manager.

- Dunque Diane, credo di averti detto più o meno tutto. Segni particolari… Beh, ovviamente Bill e Tom sono gemelli, come tu già saprai. Georg e Gustav non sono gemelli ma in compenso sono degli ottimi musicisti – disse l’uomo scompigliandosi i capelli. Poi si rivolse ai ragazzi – E voi smettetela di darvi tutte quelle arie, avete davanti una professionista riconosciuta a livello mondiale –

Diane abbassò lo sguardo cercando di sfuggire alle occhiate curiose che i quattro le lanciarono, loro malgrado.

- Bene, ora che le presentazioni sono state fatte, potete tornare a lavorare voi nullafacenti, noi vi lasciamo – terminò il manager prendendo sottobraccio Diane e chinando appena il capo.

- E’ stato un piacere fare la vostra conoscenza – disse la ragazza formalmente, lasciandosi trascinare dall’uomo con un nascosto sospiro di sollievo.

I Tokio Hotel non fiatarono, mentre lei e il Signor Jost si allontanavano nel corridoio, diretti all’ascensore.

Diane si azzardò ad alzare di nuovo lo sguardo solo quando si trovò nella cabina dell’ascensore. Prima che le porte scorrevoli si chiudessero prese tra le mani la macchina fotografica e immortalò il primo incontro. Tom Kaulitz e Georg Listing con un sorriso svagato sulle labbra, Gustav Schafer che sorrideva al suo indirizzo in modo simpatico e Bill Kaulitz che continuava a mantenere quel suo contegno da divo, le mani infilate nelle tasche posteriori dei jeans.

Ora si, pensò Diane, che le presentazioni erano state fatte.

 

- Bene, la ringrazio per aver accontentato il mio capriccio di presentarla subito al gruppo, ma nella prossima settimana non avremmo avuto altre occasioni – disse Jost scortandola fuori dal portone dell’edificio nel quale erano entrati poco prima ed inforcando un paio di occhiali da sole.

- Si figuri, posso capire – rispose Diane riparandosi gli occhi dal sole con una mano. Non fece nemmeno in tempo a respirare, che davanti a lei comparve una macchina bianca.

- Mi perdoni ma non mi è possibile riaccompagnarla agli Uffici, le ho fatto chiamare un taxi – disse il manager voltandosi verso di lei.

- E’ stato più che gentile – disse la ragazza avviandosi verso l’automobile. L’uomo la precedette e le aprì la portiera galantemente.

- Partiremo in tour tra una settimana, la chiamerò per illustrarle il programma dettagliato nei prossimi giorni. Benvenuta nello staff Signorina Köhler – il manager sorrise, scoprendo i denti innaturalmente bianchi.

- ArrivederLa – disse Diane a bassa voce prima di infilarsi nell’abitacolo.

 

Ultimo scatto della mattina.

 

Paesaggio che scorre fuori da un finestrino qualunque.

 

 

***

 

Note di Phan: Dunque, eccomi tornata con una nuova fan fiction. L’avevo in mente da un po’ di tempo, ma non ero certa che avrei avuto le forze di scriverla. Invece a quanto pare mi sbagliavo, perciò eccomi qui, pronta a ricevere le vostre critiche, i vostri pareri, i vostri consigli. Come potete vedere dall'introduzione, questo è il sequel di "And... can you dream?". Ci tengo a precisare però che la storia è narrata dal punto di vista di un personaggio totalmente diverso da quelli della precedente fan fiction. Quindi anche il modo di narrare i fatti subirà delle forti modificazioni rispetto al primo episodio. Ma giudicate voi.

Un bacio a tutti coloro che passeranno di qui.

 

P.S. Non so esattamente quando pubblicherò il prossimo capitolo.

 

DISCLAIMER: Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere delle persone citate, né offenderle in alcun modo.

  
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