Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: fireslight    23/11/2014    6 recensioni
{Return to Winterfell|Missing Moments|Future!Fic}
Dopo alcuni mesi trascorsi a Nido dell’Aquila, Alayne Stone − Sansa Stark − decide di tornare a casa, a Grande Inverno. Eppure, non è sola.
Sandor Clegane, ritenuto morto nei Sette Regni, giura fedeltà ad una fanciulla che tempo prima era stata del tutto affascinata dalla prigione dorata che era Approdo del Re, proteggendola, e diventandone la spada giurata. Con il tempo, Sansa comprenderà quanto regnare e guadagnarsi il rispetto delle propria gente sia un compito assai arduo e che la corona di ferro degli antichi re dell’Inverno − la medesima indossata da suo fratello − può rivelarsi un peso consistente sulle sue spalle. Tuttavia, con il tempo, Sandor la aiuterà a trovare un proprio equilibrio, e ad essere sé stessa.
- Perché, a dispetto di quante tempeste abbiano dovuto affrontare, l’inverno volgeva ormai alla sua fine.
[Sandor/Sansa♥]
Genere: Angst, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sandor Clegane, Sansa Stark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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There are ghosts in Winterfell
and I am one of them.
 
 
 
Il silenzio è padrone incontrastato di quei corridoi, delle ampie sale di marmo bianco, padrone esigente che nulla pretende, e nulla concede.
Sansa vede il sangue colare dallo squarcio fra la gola e la spalla dell’uomo riverso a terra, gli occhi grigio-verdi privi di vita, di quell’insolita capacità ammaliatrice che lo caratterizzava, della convinzione di ottenere qualsiasi cosa desiderasse, sempre e comunque. Sul pavimento, il rosso del sangue stona con il candore del marmo bianco, e − osservando le elaborate finestre della sala −, anche con le prime nevi, le quali rivestono Nido dell’Aquila di una purezza che non gli appartiene davvero.
Stringe ancora la daga fra le mani, e le maniche della tenuta da caccia cominciano a sporcarsi di rosso.
Vuole convincersi del fatto che, finalmente, non sarà vincolata da un qualsiasi tipo di riconoscenza nei confronti di un uomo calcolatore ed ambizioso che l’amava − a modo suo, poiché quella avrebbe potuto definirsi ossessione − nel ricordo di una madre morta ormai da tempo, e della quale Sansa serba ancora un bel ricordo, nonostante tutto.
Stringe fra le dita un’arma portatrice di morte, − ma per lei, di ritrovata libertà − sentendo il peso del sollievo invaderle l’anima. Il suo ultimo pensiero, − poco prima di inforcare a passi misurati le scale, confondersi fra i servi e riuscire ad andare via dalla fortezza sino ad arrivare alla Porta Insanguinata −, è di silente vittoria, una rivalsa attesa da troppo tempo.
Alayne Stone − no, Sansa Stark − ha imparato come destreggiarsi nel Gioco del Trono.


 
 
−•●•−

 
 
 
L’immensa brughiera si estende da est a ovest, alternando tratti di cupe foreste a pianure immense, colme d’erba verde, e anche delle prime nevi. Il cielo, solcato da nuvole color fumo, una cappa pregna di umidità, mentre i primi freschi fiocchi di neve, scendono dal cielo, danzando armoniosi.
Sandor Clegane osserva dall’alto del proprio destriero le mura di Grande Inverno, più alte ed imponenti di quanto le ricordasse durante la sua ultima visita al Nord.
Pietra grigia su pietra grigia, nient’altro che monotonia nella varietà disarmante di colori del paesaggio circostante, − forse fin troppi, anche per lui −.
Concentrato nei suoi pensieri, fa appena in tempo a sentire il rumore soffuso di zoccoli giungere alle sue spalle, e sulla collina dalla quale osserva la centenaria fortezza degli Stark, i boschi circostanti sembrano animarsi di vita.
«Allora?»
La sua voce è raschiante come lo stridio di un corvo e Straniero si agita inquieto, smuovendo con uno zoccolo la terra friabile, morbida dopo giorni di tempeste.
 
 
 
I’m a princess cut from marble, smoother than a storm
 
 
 
Sansa Stark abbassa il cappuccio dell’ampio mantello scuro, volgendo il proprio sguardo verso Grande Inverno, provando una velata nostalgia per quel che le è stato rubato − la serenità della sua vita prima della guerra, i suoi fratelli, e i litigi con Arya − una nostalgia che, se da una parte le fa desiderare d’essere inflessibile con sé stessa, calma come acqua stagnante, dall’altra le vorrebbe poter consentire di lasciarsi andare alle proprie emozioni, a quei tumulti che irrimediabilmente, fanno somigliare la sua anima ad una nave in balia di una tempesta.
Tuttavia, l’uomo che ha ucciso pochi giorni orsono le ha insegnato anche, − e soprattutto − questo.
«Come vedi, sono qui. Non un graffio.»
Non attende neanche la risposta dell’uomo al suo fianco, lanciandosi al galoppo giù per la collina, quella furia che nessuno avrebbe immaginato di vederle addosso, un giorno.
 
 
 
And the scars that mark my body, they’re silver and gold
 
 
 
Il Mastino accenna un ghigno che forse è un sorriso, colpito dall’impulsività della giovane e al contempo, dalla calma letale che le attraversa i lineamenti come il corso impetuoso del Tridente attraversa le Terre dei Fiumi.
Anch’egli spinge il proprio destriero al galoppo ed in breve − non le darebbe mai la possibilità di vincere, in quella malcelata gara di velocità sino al sentiero della fortezza − quasi la raggiunge.
Adesso, Sansa cavalca come un uomo del Nord e lui si chiede da chi abbia imparato a farlo, una punta fastidiosa di innata gelosia che lo porta a domandarsi sull’identità di chi le avrà mai insegnato a tenere le gambe così in sintonia con i fianchi del cavallo, o la schiena in avanti, ed il volto − gli occhi, soprattutto, come lame di ghiaccio pronte a fendere l’aria gelida − a contatto con la criniera dell’animale.
Poi, come un fulmine squarcia la quiete della notte, una consapevolezza bruciante si fa strada nella sua mente, come una nebbia venefica e vagamente sopportabile seppur dolorosa.
Sangue di lupo, aveva mormorato una volta la regina Cersei, quello non muore mai. Puoi regalarle oro, gioielli ed abiti preziosi, diceva al figlio, renderla una docile ragazzina ingenua del Sud, ma il sangue di lupo non si estinguerà mai dalle sue vene.
 
 
 
My blood is a flood of rubies, precious stones
 
 
 

 
−•●•−
 
 
 

«Vostra Maestà.»
Sansa accenna un sorriso che è riconoscenza ed ammonimento, facendo cenno alle guardie ai cancelli di rialzare il capo e alla gente che compone la sua corte di rialzarsi, − cavalieri, septon, funzionari vari, servi − attraversando a cavallo i cortili di Grande Inverno, seguita dall’ombra fedele che sa, non la tradirà mai.
Sandor Clegane è di fatti silenzioso, avendo imparato che in quel tipo di situazioni, le parole sono di troppo. Lei attraversa i corridoi della fortezza come se niente e nessuno potesse toccarla né minimamente sfiorarla − il che, tecnicamente, è così −, pensa lui con un vago sorriso.
La sala grande è vuota, eccezione fatta per le guardie alle porte, che al passaggio della donna chinano il capo con deferenza.
Fuochi ardono ai lati delle pareti, lanterne e fiaccole accese giorno e notte, come da lei ordinato, a scacciare quel buio perenne visto dal Nord in quei mesi, quando non v’era nessuno Stark e a Grande Inverno traditori camminavano per i suoi corridoi.
 
 
 
It keeps my veins hot, the fires find a home in me
 
 
 
Sansa ferma la sua corsa verso un apparente obiettivo non identificato, osservando attentamente il trono posto su una piattaforma all’estremo opposto dell’immenso salone, ed il trono sembra osservare lei.
Istanti in cui Clegane mantiene una certa distanza, spezzata da alcune sue parole.
«Per favore, avvicinati.»
Obbedisce, il clangore della spada al suo fianco lo accompagna sino a pochi passi dalla figura esile della ragazza − no, donna −.
Adesso, è una donna che si muove nella fortezza appartenuta ai suoi antenati − i re dell’Inverno sepolti nelle cripte sotterranee, a far da custodi ai loro eredi − con una naturalezza tale da far supporre che non se ne sia mai andata, che fosse da sempre rimasta in quelle terre indomite almeno quanto lei lo è adesso.
È una sicurezza conquistata dopo varie cadute, − come un giovane lupo che appena nato, stabilisce la propria posizione all’interno del branco −.
 
 
 
I move through town, I’m quiet like a fire
 
 
 
Poi, Sansa fa cenno alle guardie di andare, così da rimaner completamente soli.
Si avvicina ad una colonna lignea finemente intagliata accanto al trono, ove è poggiato un sottile cerchio di ferro, decorato quasi modestamente, in maniera per niente frivola e con sottili lamine di zaffiri sulla sommità.
Sandor la osserva poggiarsi al tavolo al centro della sala, alquanto vicina a lui − perché ormai, sa che non ha paura di lui, non più − rimirando il ferro che intersecandosi, da come l’illusione che fiocchi di neve danzino sulla sua sottile circonferenza.
Si posa la corona sul capo, i lunghi capelli del colore del fuoco a far da contorno all’incarnato chiaro, raccolti in una treccia semplice e pervasi da quell’aria di distratta eleganza da sempre posseduta.
«Trovi che mi stia bene?»
Sandor la osserva attentamente, − sa che non è vanità a farle porre una simile domanda − accenna una risposta, ma inaspettatamente, lei lo precede.
«Io ne dubito. Quando mio fratello partì per liberare nostro padre, raccogliendo i vessilli.. Non avrei immaginato che sarei giunta fino a questo punto.» una pausa, durante la quale posa con delicatezza la corona sul tavolo, osservandola di sbieco, «Sembrano passati secoli da quel giorno.»
«Nessuno l’aveva programmato.»
Sansa inarca un sopracciglio, sciogliendosi in un debole sorriso − uno di quelli che il Mastino riconosce appena nell’ingenua fanciulla di Approdo del Re, alcuni anni prima −.
«Voglio proporti una cosa, Clegane.»
A quel punto, Sandor sa già dove vuole andare a parare, nonostante ne abbiano discusso diverse volte, tra urla varie e futili litigi per l’intera fortezza.
Sa perfettamente che la discussione si protrarrà a lungo e ne approfitta per slacciare il cinturone della spada dal fianco, poggiandolo sul grande tavolo di legno.
«Ne abbiamo già parlato, uccelletto.»
Sansa ride, guardandolo di traverso come si guarderebbe un bambino capriccioso, intimamente felice del fatto che dopo così tanto tempo, lui la chiami ancora in quel modo.
 
Nonostante gli anni ad Approdo del Re siano stati i più duri da sopportare, Sansa sapeva su chi contare, sebbene avesse qualche riserva a proposito; Tyrion Lannister aveva preso a cuore il suo benessere, la teneva al sicuro dalla minaccia per lei rappresentata da Joffrey, le faceva regali che lei non avrebbe voluto ricevere, poiché odiava sentirsi in debito con uno come lui, con un Lannister.
Ma per quanto potesse negare, Sandor Clegane era stata la sua àncora ed un motivo in più per non lasciarsi andare all’oblio, in quella capitale così calda in cui uno Stark non era abituato a vivere.
Le aveva impedito di cercare di uccidere Joffrey e a sé stessa di suicidarsi, e sebbene le loro brevi e concise conversazioni avessero come argomento la sua infantile stupidità, lui aveva sempre, sempre avuto ragione.
I cavalieri non esistevano, e quelli che si definivano tali, lo erano solo a parole.
Come se non bastasse, l’aveva difesa da un membro della Guardia Reale che su ordine del medesimo re, l’aveva picchiata e pubblicamente umiliata, coprendola con la sua cappa bianca.
Poco tempo dopo, Sansa aveva capito.
Era come se ogni avvenimento spiacevole le stesse confermando ciò che già nel profondo, sapeva di conoscere. Sandor c’era sempre stato, e nel bene e nel male, aveva cercato di proteggerla in ogni modo, arrivando persino a proporle di fuggire durante la Battaglia delle Acque Nere per riportarla a casa, a Grande Inverno.
 
Come quel detto, ‘dopo la caduta, viene la scalata’, insegnatole da Ditocorto, una preziosa lezione che non aveva dimenticato.
Come un cappio stretto al collo di un condannato che, in rare circostanze − ed utilizzando l’intelletto, modellando le parole in maniera tale che non potessero in alcun modo tradirla − riesce infine a sciogliere la propria corda, come quella vendetta che finalmente era stata sua, non senza qualche rimorso, o tentennamento.
Semplicemente, aveva imparato a disprezzare la debolezza, poichè nella realtà in cui viveva, non avrebbe potuto fare altro.
 
 
 
And my necklace is a rope, I tie it and untie it
 
 
 
«Potrei proporla in maniera diversa.»
Lui alza gli occhi al cielo, stupendosi della testardaggine dimostrata dalla figura di fronte a lui.
«In qualunque modo tu voglia proporla, la mia risposta è no.»
Sansa sospira, avvicinandosi ancora a lui.
Il Mastino vorrebbe dirle che troppa vicinanza non rappresenterebbe esattamente la cosa migliore per lui, o in generale, per qualsiasi uomo. Non è più la ragazzina che credeva ciecamente nelle ballate, troppo impegnata con le sue canzoni per discernere fantasia e realtà.
Sansa Stark è cresciuta e lui se ne rende conto quasi con rammarico.
I capelli non più d’un anonimo castano, e più lunghi di come li ricordasse da Approdo del Re, le scorrono per l’intera lunghezza della schiena simili a fiamme di sfumature cangianti, il volto dai lineamenti più adulti, fini e modellati con mirabile maestria, gli occhi azzurri simili al cielo d’estate, e la pelle eterea, pallida come il marmo bianco delle sale di Nido dell’Aquila.
Non è solo una Stark, è la Stark.
Se non fosse stato per lei, probabilmente, i Bolton starebbero ancora banchettando in quelle stesse sale, gettando fango sull’onore di una casata antica quanto l’inverno stesso.
«Una regina deve avere il suo primo cavaliere.»
«Io non sono un fottuto cavaliere, uccelletto. Di cavalieri ce ne sono in abbondanza, qui al Nord.»
Sansa riconosce il disprezzo nella sua voce, come se vi fosse qualcosa di sottinteso che lui non voglia esplicitamente dirle; sa che non vede di buon occhio i giovani cavalieri che, in effetti, smaniano per mettersi alla prova davanti a lei, per dimostrare il loro valore. Il punto è che non vuole accontentarsi di un cavaliere qualsiasi.
«Sciamano intorno a te come avvoltoi in attesa di divorare la loro preda.»
«Io non sono la loro preda, Clagane.»
 
 
 
And our people talk to me, but nothing ever hits
 
 
 
Si avvicina ancora, e nonostante possa sembrare un terribile controsenso, il Mastino prova l’istinto di indietreggiare. Sa di doverle rispetto, perché ciò è giusto, perché lui è un cane e lei un lupo − e mai, avrebbe immaginato di accettare di inginocchiarsi di fronte ad una fanciulla che, tempo addietro, era stata talmente ingenua −.
«Sono loro le prede. Credono di avermi in pugno, ma non è così. Credi che non sappia, o che non veda come aspettano che faccia un passo falso, per gettarsi come carogne ai miei piedi, fingendo di volermi proteggere?»
Il suo silenzio è la conferma − no, piuttosto la resa pacifica − che aspettava.
Sansa alza lentamente una mano, − minuscola, se messa a confronto con le sue − sfiorandogli il volto nella sua parte deturpata, sciolta dalle fiamme. Lui si volta quasi di scatto, e per la sorpresa, lei è tentata di ritrarre la mano, senza volerlo realmente.
«Credono soltanto ciò che io voglio far loro credere.. E ora come ora, ho bisogno di qualcuno di cui potermi fidare.»
 
 
 
So people talk to me, and all the voices just burn holes
 
 
 
Sandor vorrebbe ribattere che non dovrebbe fidarsi di lui, − ha ucciso innocenti, donne, bambini, era al servizio dei Lannister, non ha mai mosso un dito per aiutarla se ciò non lo avesse compromesso, implicando che la sua fedeltà era a lei, a lei soltanto − eppure, per qualche arcano motivo, vuole credere che lei possa dire la verità.
Vuole credere che ci sia altro, − poiché non ha mai conosciuto altro che la vedetta − oltre al sangue, ed alla morte.
Non vuole sottrarsi a quel calore, − alla mano di lei sul suo viso, dopo così tanto tempo −.
«Come puoi fidarti di me, uccelletto?»
C’è tormento nella sua voce, roca come il vento che attraversa i rami dell’albero del cuore, e Sansa sorride, perché non ha mai potuto credere che lui potesse provare altro che non fosse rabbia, o voglia di uccidere chiunque gli capitasse a tiro.
«Mi hai insegnato che i cavalieri non esistono,» sussurra, ed è con riconoscenza − chissà cosa ne sarebbe stato di lei, se non avesse compreso almeno quello, ad Approdo del Re −, «.. mi hai insegnato che quelli che si definiscono tali, lo sono solo a parole.»
Gli è così vicina che se solo volesse, Sandor potrebbe farle qualsiasi cosa − stringerla a sé, baciarla, far scorrere le sua mani rovinate su quella pelle d’alabastro − consapevole del fatto che lei non avrebbe la forza − né la volontà − di opporsi.
Che siano dannati gli Dei.
È con dolce impeto che la bacia, circondandole rapidamente la vita e spingendola con fermezza senz’essere violento contro il tavolo, mentre la sente spaesata fra le sue braccia, inizialmente stordita da quell’assalto che per lui è di resa, − per lei di vittoria −.
Sansa non ha mai immaginato come potesse essere baciarlo, forse perché non aveva mai immaginato che il loro rapporto potesse evolversi a quel mondo, − perché ad Approdo del Re era stata terrorizzata dalla sua figura immensa ed altissima − eppure, riconosce nei suoi gesti una dolcezza incomparabile, movimenti talmente in sincronia con i suoi da farla tremare.
Quando si separano, teme che il suo respiro possa non tornare regolare per un po’; inaspettatamente, Sandor le bacia la fronte, mentre lei è ancora sepolta − come se fosse caduta in mare, e non volesse più riemergerne − fra le sua braccia possenti, desiderando unicamente di rimanere così, per sempre.
«Temo di aver ricevuto la tua risposta, dunque. Non è vero?»
«Può darsi.»
Sansa sorride, ed è un sorriso vero, di quelli che Sandor riconosce nella ragazzina che nella capitale, a Sud − dove non sarebbe mai dovuta andare, poiché il Sud non era un luogo adatto ai i lupi − credeva ancora alle sue dolci ballate.
È un sorriso di rinascita, − e di rivalsa − perché dopo tanto tempo, la Stark ha avuto la sua pace e in parte, la giustizia a lungo desiderata.
 
 
 

−•●•−
 
 
 

L’acqua della vasca è bollente sulla sua pelle, e Sansa gode del calore benefico che prova sul corpo, i capelli rossi − più scuri e lunghi poiché bagnati − a coprirle il petto.
Le finestre delle sue stanze sono aperte, e l’aria fresca del Nord inonda l’ambiente di quel profumo che ricorda sin da bambina, dell’odore di terra proveniente dai cortili, di pioggia e degli alberi nella Foresta del Lupo.
Messi a confronto, il clima afoso della capitale è niente rispetto alla magnifica sensazione di gelo e neve fresca sulla pelle accaldata.
Una delle serve la aiuta ad asciugarsi, e ad indossare la biancheria.
«Quale vestito desiderate, mia regina?»
Sansa non si è ancora abituata a quel titolo. Forse è questo il suo difetto, il fatto che quello stesso titolo promessole da un contratto di matrimonio così effimero in passato, abbia potuto donarle nuovamente questo.
Il ritorno a casa, dopo così tanto tempo.
«Nessun vestito, voglio la tenuta da caccia.»
Congedata la serva, indossa calzoni aderenti color della terra, una camicia sabbia ed un corpetto di cuoio allacciato da alcuni nastri sulla schiena ad evidenziare curve e forme proprie di una splendida donna e alti stivali da caccia; i capelli lunghi sciolti sulle spalle.
Attraversa i corridoi di pietra grigia e gelida dirigendosi verso i cortili, per la prima volta sola con i suoi pensieri, come non lo è da tempo. Tali riflessioni la portano inevitabilmente al pensiero di quanto successo un paio di giorni prima, nella sala del trono, in compagnia di Sandor Clegane.
Sansa non si sarebbe mai aspettata che le cose avessero potuto prendere quella piega, che sentimenti seppelliti in un antro del suo cuore e della sua mente potessero riemergere quasi bruscamente, quando aveva deciso di non voler provare niente che potesse farla soffrire, rintanandosi nella propria maschera di estrema serietà e intransigenza che non le erano mai appartenute.
Ma nonostante questo, sa che un suo singolo passo falso sarebbe come un invito a coloro che vogliono vederla cadere, dimostrare d’essere poco più che una ragazzina con la corona degli antichi re dell’Inverno sul capo.
 
I cortili di Grande Inverno sono come li ricordava.
Facendo più attenzione, e chiudendo gli occhi, Sansa riesce quasi a sentire le urla di gioia dei suoi fratelli impegnati in duelli con le loro spade; riesce a scorgere fra le prime nevi il sorriso di Bran e Rickon alle prese con arco e frecce, e come se potesse dimenticarla, i dispetti infantili di Arya.
Da quando è tornata a casa, ha esplicitamente chiesto che le venisse insegnato a cacciare e, quantomeno − avendo appurato che la spada non faceva per lei, − a tirare con l’arco.
Il maestro d’armi è un uomo sulla quarantina, un viso ordinario ed onesto con il quale si ritrova a passare diverse ore del pomeriggio. La sua pazienza, a tratti, le ricorda quella di ser Rodrick Cassel, − l’uomo che aveva insegnato l’arte della guerra a Robb, − ucciso durante il sacco di Grande Inverno diversi mesi prima.
Adesso, l’arco che tende sembra essere un prolungamento del suo corpo, e le sue frecce armi letali, come affilati pugnali capaci di intercettare un obiettivo a molteplici distanze.
«Dovreste tenere il braccio più teso, ecco, così.»
L’ennesima freccia intercetta l’obiettivo a mezz’aria − una mela rossa più delle sue labbra spaccate dal freddo −, mandandolo a conficcare su un tronco di un albero vicino, con sua somma soddisfazione.
Pochi minuti dopo, avverte rumore di passi far capolino tra i suoi riflessi e, concentrata a prendere la mira una seconda volta, Sansa non riconosce immediatamente la voce forte e potente dell’individuo che le rivolge la parola.
«L’uccelletto impara a combattere.»
Reprime l’istinto naturale nel provare un inaspettato spavento, non credendo che lui avesse potuto coglierla di sorpresa. Clegane la osserva da poco distante, vicino ad uno degli ingressi per i cortili; come lei, indossa una semplice tenuta da caccia senza la sua preziosa quanto arrugginita armatura − nonostante Sansa l’avesse più volte invitato a sostituire con una nuova, senz’essere ascoltata − e la spada lunga al fianco.
«Potete andare, Francis. Continuerò da sola.»
«Come ordinate.»
Il maestro d’armi si inchina, allontanandosi poco dopo. Sansa comprende che non v’è modo migliore, − ed occasione più propizia − per convincere Sandor del suo intento.
Posa il proprio arco e la faretra in una zona coperta dell’armeria, facendo cenno all’uomo accanto a sé di seguirla, − senza più mostrare quell’insicurezza che, da ragazzina, l’aveva caratterizzata −.
Sorride, indicando uno dei sentieri che conduce al Parco degli Dei.
«Facciamo quattro passi.»
 
Sandor non ha mai visto davvero un luogo come quello.
Il tutto sembra essere imbevuto di quella strana sacralità che possiedono i luoghi religiosi, − cose cui lui non ha mai ritenuto necessario dedicarsi, forse con ragione.
Vi sono alberi dai tronchi pallidi con lunghi, possenti rami dalle foglie rosse come sangue, sorgenti d’acqua bollente tutt’intorno, abeti, alberi-sentinella ed ogni altro genere di arbusti di cui non avrebbe saputo indicarne il nome, − non che fosse poi così importante −.
Al centro della radura v’è un lago dalle acque talmente scure da sembrare nere, e l’albero più imponente, − a tratti terrificante − con un volto inciso sopra.
Clegane non ha mai condiviso il fervore con il quale gli uomini del Nord sembravano così legati ai loro preziosi alberi, né vuol conoscerne il perché.
Scorge la fanciulla avvicinarsi al tronco pallido, − fanciulla che è la regina cui ha prestato lealtà eterna − ed osservarne attentamente l’intrico irregolare delle foglie, così come la resina rossastra che sgorga dagli occhi nel volto dell’albero.
«Ho ripensato molto alla proposta che ti ho fatto..» Sandor è a pochi passi da lei, che, tuttavia, rimane concentrata nell’osservazione del paesaggio circostante. «.. e so altrettanto bene che quel semplice ‘ser’ davanti al nome, non sia l’ideale per te. E ne comprendo il motivo, sul serio.»
Quando si volta, osservandolo negli occhi, Sandor è consapevole del fatto che non abbia più paura o timore nell’osservarlo dritto in faccia e se necessario, a tenergli testa.
«Non voglio che tu sia il mio primo cavaliere.»
Quelle parole sono la sua rovina, e in minima parte, la sua salvezza.
Gli occhi della Stark sono limpidi come il cielo d’estate nel Sud, come il candore della neve che si scorge sin dalla Barriera, un azzurro talmente chiaro e al contempo vivace da fargli desiderare di volerla vedere così per sempre.
Serena, felice in un posto cui sente di appartenere.
Tuttavia, quella frase lo ha spiazzato.
Vorrebbe voler dire che si è arresa, non reputandolo all’altezza di quel compito?
Un primo cavaliere dovrebbe saper governare, ed amministrare il regno per il suo re; e per quanto lo riguarda, la politica non è mai stata il suo forte.
Sandor rimane in silenzio osservandosi guardingo intorno, non sapendo cosa fare né cosa dire, per la prima volta.
«Temi che possano spuntare altre guardie dai cespugli?»
Sansa sorride, deliziata in maniera quasi infantile del timore reverenziale che gli alberi-diga ispirano in chiunque non sia abituato alla loro aurea, o al loro silenzio innaturale e a tratti inquietante.
«No, uccelletto. Non è questo il punto.»
«E allora qual è?»
Sansa lo fissa curiosa, come aspettandosi chissà quale rivelazione importante. Si avvicina ad una delle sponde del lago dalle acque nere, sedendosi su di un masso.
Lui preferisce non rispondere, − non al momento, comunque − mentre una timida brezza muove le foglie cremisi degli alberi-diga.
«Era il posto preferito di mio padre. Veniva qui spesso, sperava che gli Antichi Dei lo ascoltassero, ma evidentemente così non è stato..»
Sandor Clegane la imita, sedendosi quasi goffamente al suo fianco − ma a debita distanza, in ogni caso −; non capita spesso che l’uccelletto si lasci andare a chiacchiere sul passato e come ha imparato, quando ciò accade, v’è aria di cambiamenti.
«..gli Antichi Dei non hanno evitato che Joffrey gli facesse tagliare la testa.»
«Il passato è passato, uccelletto. Parlare di tuo padre non lo farà tornare indietro.»
Lei si volta di scatto, e i suoi occhi sono lame di ghiaccio pronte ad essere scagliate con la violenza di una tempesta d’inverno, letale come stalattiti in una grotta.
Sansa si alza con impazienza, osservando nuovamente l’albero del cuore, le sue foglie color sangue.
«Non voglio costringerti ad avere quel titolo, Clegane. Non lo farò. Ma a quanto si dice dalla capitale, tuo fratello è morto ormai da tempo e di conseguenza, la fortezza e le terre della tua famiglia adesso appartengono a te.»
«Non ho intenzione di tornarci, nelle mie terre, uccelletto. Il Nord va più che bene.»
Vorrebbe pentirsi di quell’ultima frase, Sandor, ma al tempo stesso sa che non ne ha motivo. Al Nord ha la protezione ed un tetto sulla testa che non potrebbe sperare di avere in nessun altro luogo dei Sette Regni.
Al Nord, pensa, ha lei.
«Fino a qualche mese fa avresti pagato oro per andartene. Cos’è cambiato?»
Hai fatto una promessa, qualcosa che non si può cancellare, sussurra la sua coscienza ed è assai raro che Sandor decida di ascoltarla.
«Niente d’importante, uccelletto. Ma adesso avrei da fare. Hai qualcosa da dire?» il suo tono è burbero, quasi infastidito e Sansa sa che quello è il momento migliore per ottenere ciò che vuole e per agire.
Clegane accenna voltarle le spalle, quasi in procinto di lasciarla lì da sola, in un luogo che lei capisce che significa e rappresenta troppo, per uno come lui.
«Clegane!» si accorge troppo tardi che non è così che una regina dovrebbe parlare, ma il loro non è mai veramente stato un rapporto così serio da richiedere altrettante formalità; lui non accenna a voltarsi e, quasi facendolo apposta, comincia a camminare in direzione del sentiero che porta all’uscita per il Parco degli Dei.
Sansa non si muove, rimanendo nei pressi del lago, controllata in ogni gesto − ed intimamente furente per i suoi comportamenti lunatici −.
«Sandor,» urla, ed è allora che lui si blocca, a pochi passi dall’albero del cuore, atteggiando il volto in un ghigno soddisfatto.
Al contempo, però, lo stupore solca i lineamenti sciolti dal fuoco.
Lo ha chiamato per nome, qualcosa che non aveva mai fatto in quei mesi, né che probabilmente lui sapeva avrebbe mai fatto in futuro.
Questa è la mia regina, pensa tra sé, questo è il gelo nella sua voce, l’uccelletto che si trasforma in un lupo.
Sansa gli si avvicina lentamente, l’espressione più dura del marmo − e della pietra grigia che costituisce Grande Inverno −.
«Non osare voltarmi le spalle.» dice, il tono controllato e sicuro di chi sa come dare ordini, un tono che il Mastino le ha visto unicamente durante le sue udienze, o quando ha condannato i Bolton come traditori, senza rimorso ed incertezza.
Sa bene di aver oltrepassato ogni limite, − sa che avesse anche solo provato ad accennare un simile tono con i Lannister, la sua testa sarebbe finita su una picca − ma lei è diversa, così come diverso è sempre stato il loro rapporto.
«Io sono più che il tuo uccelletto. Io sono la tua regina.»
Sandor si volta di scatto, trovandosela praticamente alle spalle, più vicina di quanto avesse immaginato − eppure ancora troppo distante, con troppe differenze fra di loro quasi impossibili da colmare −.
La osserva − i lineamenti contratti dal furore, i capelli rossi sulle spalle simili a lingue di fuoco pronte a scottarlo, e dalle quali non avrebbe la forza né la volontà di sottrarsi, il petto che al di sotto del corsetto di cuoio, incamera aria con evidente sforzo e gli occhi azzurri che tradiscono un’impazienza mai avuta davvero − e Sansa osserva lui, non accennando a distogliere lo sguardo neanche per errore, poiché sa che è lui a dover cedere, e non il contrario.
Poi, lei inclina il capo di lato − impercettibilmente, come un bambino impegnato a decifrare un complicato enigma, − come se volesse capire con chi ha a che fare, e sorride, posandogli una mano sul braccio, delicata come il battito d’ali di una farfalla.
«Una volta, mi hai detto che un mastino non mi avrebbe mai mentito e che, se necessario, sarebbe morto per me.»
Lui guarda altrove, distogliendo la sua attenzione da lei e Sansa capisce che in qualche modo, stranamente per il suo carattere taciturno e violento, Sandor Clegane non risponde sarcasticamente come è solito fare.
«Non voglio che tu sia il mio primo cavaliere. Se voglio che il Nord mi rispetti, − che i miei nemici mi rispettino −, dovrò governare da sola ed è ciò che intendo fare. Ma voglio al mio fianco qualcuno di cui potermi fidare. Voglio che tu sia la mia ombra, e la mia guardia personale.»
Rimangono in silenzio alcuni secondi, e nonostante non voglia ammetterlo, lei non contempla minimamente l’idea di un suo rifiuto.
Sa bene che lui non screditerà una simile proposta, − come lei, Sandor vuole starle accanto, e Sansa sa che ormai negarlo sarebbe come mentire a sé stessa −.
«Ma niente ‘ser’ davanti al nome, uccelletto. Altrimenti l’ombra se ne va.»
Sansa sorride, e lui sembra accennare qualcosa che vagamente somiglia ad un sorriso; nonostante il tono rude − un tempo quel medesimo tono l’aveva spaventata, ma era stato qualcosa come secoli fa − Sansa è consapevole di potersi fidare, di poter mettere la propria vita e la propria sicurezza nelle sue mani grandi, rovinate a causa dei numerosi allenamenti nei cortili di Grande Inverno.
Può fidarsi, − possono fidarsi l’uno dell’altro, adesso − ed è ciò che conta.
 
 
 
 
−•●•−
 
 
 
 
«Quest’uomo ha rubato del cibo dai miei granai, Vostra Maestà, ritengo che debba essere punito di conseguenza.»
La sala grande è colma di signori del Nord, quella stessa gente che anni prima aveva sostenuto ed approvato le decisioni di suo padre e che, adesso, approvavano le sue.
Sansa porta sul capo la corona di ferro degli antichi re dell’Inverno ed il metallo è gelido contro la sua pelle − come doveva esserlo stata la lama contro la gola di sua madre, poco prima di morire −.
Un uomo è inginocchiato a pochi passi dal suo trono, gli abiti smessi ed informi, un vecchio che ha visto più inverni di quanti lei ne avesse anche soltanto immaginati.
I Manderly sono da sempre una casata orgogliosa, questo Sansa lo ricorda dalle parole di suo padre, − parole che ha impresso a fuoco nella propria mente ormai da tempo −.
«Comprendo la vostra preoccupazione, ser Jerome. Avete delle prove di quanto affermate?»
Ser Jerome Manderly sembra non recepire immediatamente le sue parole, troppo impegnato nel voler dimostrare la colpevolezza del vecchio contadino ai suoi piedi, e fa appena in tempo ad accennare qualche parola lasciata al caso.
«Prove, Maestà? Che genere di prove?»
Sansa reprime l’istinto di scuotere il capo, sinceramente colpita della così bassa opinione del cavaliere nei suoi confronti.
Davvero crede che potrei condannare un uomo solo in base a futili ipotesi?
 
Alla sua destra, poco dietro rispetto al trono, Sandor Clegane osserva attento e vigile ogni movimento nella sala, ogni respiro di ogni singola persona.
Quasi, è tentato di alzare gli occhi al cielo per l’evidente stupidità di quel Manderly, uno dei tanti fottuti cavalieri pieni di sé ed orgogliosi di nulla, pronti ad impalarsi con la sua stessa spada, se l’uccelletto l’avesse anche solo pensato.
«Certo, prove di quanto affermate. Qualcuno ha visto quest’uomo rubare dai vostri granai, qualcuno lo ha aiutato?»
Il cavaliere diventa pallido prima del previsto, mentre Sansa continua a fargli domande da lui ritenute quasi inappropriate, − anche se non lo ammetterebbe mai pubblicamente −.
Poi, con inaspettata tranquillità, lei si rivolge al vecchio chino ai suoi piedi, pochi passi distante dal trono.
«Come ti chiami?»
Il vecchio contadino alza il capo lentamente, il peso degli anni sulla spalle ormai fragili. Per un orribile istante, i suoi occhi grigie e spenti, ma che ancora conservano un bagliore di vitalità, le ricordano quelli di sua sorella Arya.
«Il mio nome è Arold, Vostra Maestà.» e la sua voce è incerta, come un uomo consapevole d’essere condannato a morte.
Sansa si alza lentamente dal trono, scendendo con quella grazia che le è sempre appartenuta i pochi gradini che la separano dal vecchio.
«Mia regina, quest’uomo è colpevole di furto..»
Quando ser Jerome Manderly pronuncia quelle parole, è con rabbia ed ira trattenuta che Sansa lo osserva, voltandosi lentamente al suo indirizzo e fulminandolo con gli occhi.
«Alzati.» sussurra poi, ed il contadino obbedisce, silenzioso ed in attesa del suo destino.
«È vero quanto sostiene ser Jerome, hai rubato il suo grano?»
Gli occhi del contadino nono osano muoversi su di lei, fissi sul pavimento di pietra.
«No, Vostra Maestà. Non avrei avuto motivo di rubare del cibo al mio padrone. Vivo ormai da solo da molti anni, e..»
«Sta mentendo, mia regina.»
«Silenzio.»
Quella che rivolge a Manderly, è l’ennesima freccia scagliata dal suo arco, l’ennesimo ammonimento al silenzio. Può vedere chiaramente gli occhi dell’intera sala puntati su di lei, sulle sue azioni e sulle sue parole. Sansa percepisce ogni cosa, e comprende che gli uomini del Nord l’hanno accettata come regina in memoria di suo padre.
Eppure, nel profondo, lei sa di non essere come suo padre.
Il suo cuore, un tempo dedito alle canzoni e a quelle ballate così false, è diventato di pietra, − della medesima pietra su cui è stata ricostruita Grande Inverno −; la sua pelle non è più delicata come un tempo, ma è divenuta porcellana, avorio e acciaio.
«Clegane,» si volta impercettibilmente osservando l’uomo imponente al suo fianco, guardandolo negli occhi scuri, un tempo accesi di rabbia e odio. «Qualora ser Jerome dovesse parlare nuovamente, allontanalo dalla sala.»
Lui le fa un cenno con il capo, mettendo mano all’elsa della spada.
Poi, Sansa si volta verso il vecchio contadino, sorridendo e inducendolo a parlare.
«Continua pure.»
«I miei figli sono morti, mia regina, uccisi dai Bolton. Non ho nessuno per cui rubare grano in vista della primavera e il mio signore, lord Wyman, mi ha sempre assicurato cibo a sufficienza e un tetto sul capo. Non avrei avuto motivo di rubare.»
Bolton. È un nome che ritorna spesso, e Sansa pagherebbe oro pur di non sentirlo più. Adesso, Forte Terrore è passato sotto il dominio di Grande Inverno e lei, mesi addietro, aveva mandato persone fidate perché se ne occupassero, rimuovendo ogni traccia dell’esistenza di quelle casata, così come i Lannister prima e i Frey dopo, avevano tentato di fare con gli Stark.
Al tempo stesso, capisce che quel vecchio non avrebbe potuto rubare il grano che ser Jerome sostiene manchi effettivamente da Porto Bianco, il che può significare un’unica cosa.
Alcune settimane prima, i Greyjoy avevano ripreso il coraggio mancatoli durante il breve regno di suo fratello, facendo incursioni sulla costa, depredando e saccheggiando tutto ciò che si trovava sul loro cammino.
Spingendosi troppo ad est.
«Ser Jerome, quest’uomo è innocente e voglio, − anzi pretendo − sia trattato come tale. Al contrario, vi invito a fare migliori ricerche sul vostro grano scomparso, potrebbe essere che i Greyjoy abbiano ripreso le incursioni sulle coste. Occupatevene, ed io mi occuperò di non avvisare lord Wyman di questo spiacevole inconveniente e di mandare messaggeri a Pyke.»
«Come comandate, Vostra Maestà.»
Sansa è nuovamente seduta sul suo trono, adesso, e la corona di ferro degli antichi re dell’Inverno sembra un peso nullo in confronto a quanto debba ancora fare per guadagnarsi il rispetto di chi vuole vederla cadere.
Ci riuscirà, col tempo.
 
 
 
 
−•●•−
 
 
 
 
Nel castello è notte fonda, mentre la luce della luna filtra dalle finestre, illuminando scarsamente i lunghi corridoi.
Nonostante quell’inverno sia ormai sul punto di volgere alla fine, l’aria è ancora gelida e si insinua nella carne, fino alle ossa. Si dice di aver fatto bene a procurarsi delle vesti più pesanti, non essendo abituato − anche dopo quell’inverno così freddo, durato pochi mesi − al clima del Nord.
Sandor Clegane si muove silenzioso quanto possa permetterglielo il clangore della spada legata al fianco, in quell’intrico di corridoi adatti a formare un labirinto quasi più esteso e complicato da ricordare di quello della Fortezza Rossa.
All’improvviso, la quiete delle notte viene spezzata da un sommesso cigolio alle sue spalle. Voltandosi, Sandor scorge nell’ombra del portico in cui si trova, l’ingresso per le cripte sotterranee; di norma, nessuno che non appartenga alla famiglia reale è autorizzato a scorrazzare liberamente per il castello a quell’ora.
E dire che aveva lasciato l’uccelletto davanti alle porte delle sue stanze un paio d’ore prima..
Si accosta silenziosamente alle porte delle cripte, aspettando il momento in cui esse verranno aperte da chi non dovrebbe trovarsi lì sotto, ed estrae la spada lunga dal fodero, stringendone l’elsa in cuoio.
Pochi istanti dopo, qualcuno di estremamente minuto, − a giudicare dall’ombra proiettata sul muro da una candela, o torcia che sia − apre delicatamente gli spessi portoni in legno, facendo per procedere nel corridoio.
Sandor è consapevole del fatto che non vi sia momento migliore per scoprirne l’identità, ed è in pochi istanti che spinge l’esile figura di una fanciulla contro la dura pietra grigia del corridoio, puntandole la spada alla gola.
Lei trattiene a stento un urlo, sussultando quando il suo corpo viene spinto contro il freddo della pietra; dapprima, Sandor non ne vede il volto, coperto dal cappuccio di un mantello scuro.
Eppure, è come se ricordasse di chi siano quelle curve minute, l’andatura elegante e la sagoma, perfino. La fanciulla è ancora ferma contro il muro, forse troppo terrorizzata per accennare a muoversi; del resto, la sua lama è ancora puntata alla gola candida e Sandor si vede costretto ad abbassarla con lentezza, onde non farle venire un infarto per lo spavento − che prevede possa già essere troppo −.
«Togli il cappuccio.»
Lei obbedisce, e quando una cascata di capelli rossi come fuoco le si riversa sulle spalle, degli occhi azzurri − in netto contrasto con l’oscurità della notte − si fissano nei suoi.
Manca poco perché la spada non gli sfugga dalla presa delle dita, eppure non si sorprende più di tanto, alla fine. Ultimamente sembra che sfuggire alla sua sorveglianza sia diventata la sua occupazione più dispendiosa ed importante, così come vagare per l’immensa fortezza in piena notte.
«Uccelletto.»
«Mi dispiace, avrei dovuto avvisarti.»
Senza avere neanche il tempo per rispondere sarcasticamente come al suo solito, l’uccelletto si getta letteralmente fra le sue braccia, e Sandor non può − e non vuole − fare altro che stringerla a sé.
Sa che è più che la sua regina, − così come sa che sarà sempre il suo uccelletto, certe abitudini non andranno mai via − eppure comprende che per lei dev’essere complicato mostrarsi ferrea ed intransigente con i suoi fottuti finti cavalieri o con quei piccoli pirati dei Greyjoy, ed è solo in sua presenza che può lasciarsi andare a ciò che effettivamente è.
Se la stringe contro più che può, attento a non spezzarla, e poggiando il capo sui suoi capelli, sciolti e fluenti sulle spalle minute. Si ferma addirittura a constatare quanto profumino di buono, di dolcezza e di neve, perfino.
Sansa Stark era stata la fanciulla giunta diversi anni prima in una capitale che di falsità ne aveva costruito la sua corazza dorata, piena di sogni e speranze infrante bruscamente da un spada amica.
Tuttavia, la regina del Nord, o la giovane lupa − come la chiamano nei Sette Regni, in onore del fratello prematuramente assassinato − era stata una donna costretta a crescere in fretta, comprensiva e leale con il suo popolo e letale verso i suoi nemici, o chiunque avesse osato minacciare il Nord stesso.
«Cosa ci facevi nelle cripte, uccelletto?»
Separandosi, Sansa si stringe nelle spalle a causa del freddo.
«Non riuscivo a dormire, tutto qui.»
«Tutto qui? C’è mancato poco che non..» Sandor ripone la sua arma nel fodero, guardandola con quella preoccupazione mai avuta per nessuno, tranne che, ultimamente, per la sua regina.
Si accorge quasi con fastidio di stare cambiando, e ciò che più lo mette in soggezione − se non in imbarazzo − è il fatto che ad operare quel cambiamento, è ella stessa.
«Ti sei spaventata, vero uccelletto?» Lei alza nuovamente lo sguardo, fiera come solo una lupa potrebbe essere nel proteggere la propria dignità.
«Non mi aspettavo la spada alla gola, ma ne ho viste di peggiori.» Sandor la vede guardasi intorno, in direzione delle serre al di fuori del porticati, mentre la neve continua a scendere lenta ed inesorabile sui cortili e la notte si fa ancor più fredda per il vento proveniente dalla Barriera.
«Ti accompagno nelle tue stanze, uccelletto. Fa troppo freddo per rimanere qui fuori.»
 
 
 
 
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Quando apre gli occhi, nonostante sia ancora un po’ intontito dal sonno − e dal freddo, cazzo, chi aveva avuto la geniale idea di lasciare le finestre aperte? −
Sandor sposta lo sguardo alla sua destra, mentre fra lenzuola e pesanti pellicce, la sua regina-lupo dorme sonni tranquilli.
Non si chiede davvero mai quand’è che sia cominciata, quando la loro confidenza si fosse allargata a quello, o a quando i suoi capelli − così morbidi da far scorrere fra le dita, − fossero diventate le uniche fiamme di cui non aver paura.
La guarda con attenzione, adesso, rimirandone la curva sottile ed elegante del collo, il volto parzialmente nascosto nel calore del cuscino, completamente nuda nel letto che da poche settimane li ha visti amarsi.
Bellissima, e a volte, Sandor si chiede come possa essersi meritato così tanta bellezza avendo commesso crimini terribili.
Si chiede cosa lei abbia mai potuto vedere nella sua anima tormentata e negli occhi scuri ormai abbandonati da ciò che per lui era unicamente odio e rabbia incontrollata. Delle dita piccole ed estremamente delicate si artigliano dolcemente al suo braccio − ricordandogli di non volersi sottrarre ai suoi artigli di lupo, ed alla sua determinazione − mentre i suoi occhi sono ancora chiusi, un sorriso appena accennato sulle labbra rosse come sangue.
«Non andare, Sandor.» sussurra piano, gli occhi adesso vigili ed attenti, uno scintillio d’estate nel grigiore dell’ampia stanza.
Lui si china sino a sfiorarle la fronte, «Ordinamelo, uccelletto.» mormora con voce roca, e Sansa è costretta a reprimere un brivido che non è freddo.
La sente ridere piano, come non volendo farsi sentire da chi non dovrà sapere di loro, ed immediatamente la stringe a sé, permettendole di poggiare il capo sul suo petto.
«Rimani, per favore.» mormora l’uccelletto, e Sandor darebbe la sua stessa vita per  rimanere così per sempre, senza dover vivere all’ombra di niente e nessuno.
«Sono qui, Sansa. Non vado da nessuna parte.» ed è anche raro che la chiami per nome, se non quando l’angoscia di doversi separare seppur vivendo praticamente a stretto contatto si fa troppo forte ed in apparenza insopportabile.
«Verranno a cercarci a breve, ad ogni modo. Non puoi spere quanto le serve siano curiose.» Sansa sorride, tracciando figure immaginarie sulla sua pelle, felice come non lo è da troppo tempo.
«E allora digli di ritirarsi e di non disturbare la loro regina.»
«Fosse così facile.. Abbiamo dei doveri, lo sai.»
«Mandali a fanculo, uccelletto. Vedrai come ti guarderanno scandalizzate.»
«Smettila!»
«Mai.» come un predatore avvista la sua preda nel mezzo di un bosco, Sandor la bacia con impeto, − quelle labbra che non fanno altro che ricordargli l’estate e l’inverno stesso −, quel profumo che l’avvolge sempre come una seconda pelle, di rose e neve.
Qualche minuto dopo, Sansa indossa una leggera veste bianca, lunga sino ai piedi ed osserva dalle alte finestre i cortili, la neve − sebbene il clima cominci a virare al tiepido − cadere in una discesa lenta e quasi giocosa.
Non ha freddo, la regina del Nord, poiché del Nord è l’essenza stessa ed il freddo, per lei, è come calore sulla pelle.
«A che pensi, uccelletto?»
La voce di Sandor è roca alle sue spalle, e lei sorride, nonostante le sue effettive preoccupazioni siano altrove, − non in quella stanza, non a loro due −.
Sospira, sfiorando il davanzale in pietra della finestra e cogliendo la brina li depositata durante la notte, avvertendo il fresco del ghiaccio fra le dita, qualcosa che le è mancato più di altre.
«Se dovesse tonare da Sud..»
«Li ucciderò tutti, basterà un cenno.»
«Non è così semplice.»
Sandor asseconderebbe l’istinto primario della risata, se non fosse che la sua regina è realmente preoccupata per qualcosa che lui non concepisce pericoloso.
«Ho inviato le carte alle Cittadella, ieri pomeriggio. Non è ancora arrivata risposta.»
«Prenderanno tempo. Magari è la prima richiesta del genere che ricevono, e potrebbe prendergli un colpo, ai maestri.»
Sansa si volta, osservandolo, poi annuisce piano. «Come minimo.» asserisce, pensierosa. «Ma se lui, dovesse tornare?»
«Non ne ha motivo, uccelletto. L’ultimo contingente dal Sud è rientrato dall’Incollatura diverse settimane fa.»
Le si avvicina, cingendole piano le spalle − come per paura di spezzarla − ed osservando i cortili di Grande Inverno, servi e cavalieri che sfrecciano da una parte all’altra. Sandor crede che vi sia qualcosa di rilassante nell’osservare la neve che continua a scendere, eppure non è abituato a quello come lo è lei, cresciuta ed allontanata così bruscamente da casa da non ricordare cosa fosse, la neve gelida sulla pelle.
Lui, di neve, ne aveva vista solo poche e scarne volte.
«Lannister non tornerà, uccelletto. Non vorrà rischiare la sua testa, dopotutto.»
Sansa sorride al ricordo, trovandosi d’accordo con l’uomo. «Sa essere testardo.»
Tuttavia, lui cambia discorso, − forse allo scopo di farle dimenticare tutto, o semplicemente perché parlarne non gli va poi così a genio − «Com’è che gli hai detto l’ultima volta? Se oserai presentarti..»
«Se oserai presentarti alla mia vista, la tua testa adornerà le mura di Grande Inverno.»
Non riesce a sorriderne, tuttavia, poiché far del male non le è mai riuscito bene, eppure è per il Nord, per il suo popolo − per loro, per se stessa − che lo ha fatto, che ha pronunciato parole delle quali non si è ancora pentita.
«Infatti non tornerà, uccelletto. Sta’ tranquilla.»
La sua regina non ha paura dei leoni dorati, e questo lo riempie di una strana consapevolezza − forse orgoglio, chi può dirlo? − che riesce a tranquillizzarlo, seppur di poco. Non ha intenzione di andarsene, sa ormai qual è il suo posto, Sandor.
«Se si presenterà all’Incollatura, lo sapremo.»
La stringe a sé, poiché sa che ha bisogno di lui − in verità, è consapevole del fatto che sia lui ad averne disperatamente bisogno, come un assetato perdutosi fra i deserti di Dorne − ma è la necessità reciproca di avere qualcuno di fidato al proprio fianco a tenerli così uniti, al solo pensiero che separarsi sia impossibile, per come le cose si sono messe.
Sansa accenna un sorriso, sapendo nel profondo che finchè lui sarebbe stato la sua ombra − un fratello, un amante, tutto − ogni cosa, per quanto difficile potesse  apparire, sarebbe andata bene.
L’inverno, dopotutto, volgeva alla sua fine.








Note dell'autrice.
Salve, gente. Confesso che scrivere una SanSan con tutti i santi crismi mi frullava in mente già da parecchio tempo, solo che non riuscivo a trovare il contesto adatto, e ammetto con sincerità che l'idea m'è venuta dopo aver letto diverse ff sul tema, ahem.
E niente, ci tenevo a precisare che l'ultimo pezzo non era stato davvero immaginato così, anzi non era stato proprio immaginato, però alla fine ho voluto commettere una piiicola follia e quindi niente, eccoci qui. Inoltre, avrete notato versi di una canzone nei primi paragrafi, naturalmente di Lorde.
Spero possa piacervi, ricordo inoltre che recensioni e qualsiasi commento bello-buono-brutto-che-sia è sempre ben accetto; fatemi sapere, insomma!
Alla prossima,
fireslight.
 
 
 
 
 
 
  
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