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Autore: ElenCelebrindal    24/11/2014    7 recensioni
Ambientata dopo la Battaglia dei Cinque Eserciti. La stirpe di Durin è sopravvissuta, Thorin è diventato Re sotto la Montagna. Ma un orrore di abbatte sulla foresta di Bosco Atro, lasciandosi alle spalle solo morte e disperazione. Thranduil ha assistito alla morte del figlio, ed è devastato dal dolore, talmente sopraffatto che il suo spirito è ferito in profondità. Una storia triste e colma di dolore.
Non ha collegamenti con la mia one-shot "Fiamme e sangue", sebbene siano simili
Genere: Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Thorin Scudodiquercia, Thranduil
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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IL DOLORE DI UN ELFO

Morte.
Solo morte e disperazione, sangue e tristezza.
Erano le uniche cose che Thorin e il resto dei Nani riuscivano a vedere attorno a loro attraversando la devastazione della foresta degli Elfi; un tempo così piena di vita, ora era piena solo del gelido sussurro della morte e della solitudine.
Nessuno di loro, e il Re sotto la Montagna meno di tutti, si sarebbe mai aspettato di vedere una scena simile, quando era venuto a conoscenza dell’attacco ai danni di Bosco Atro.
Dappertutto, ovunque volgessero lo sguardo, la terra era impregnata dell’odore del sangue, l’erba e le foglie cadute al suolo tinte di rosso, l’intero pavimento naturale del bosco punteggiato di cadaveri di elfi, sia maschi che femmine, senza alcuna distinzione.
Si riconoscevano i guerrieri, armati con coltelli, archi e frecce, ma tra i molti difensori vi erano anche cittadini comuni, bambini perfino; tutti elfi, le meravigliose creature di luce, tutti sopraffatti dall’ombra che, strisciando, li aveva falcidiati uno dopo l’altro.
Frecce, spade, asce avevano messo fine alla loro vita, rubando l’immortalità a degli esseri che mai avrebbero dovuto conoscere la morte, che mai avrebbero dovuto versare il loro sangue in quel modo, che ai avrebbero dovuto vedere la loro luce spegnersi.
 
“Mahal, questa è un’infamia”, disse Balin guardandosi intorno sempre più atterrito, e chinandosi più volte ad osservare i volti dei morti, come a volerne riconoscere qualcuno.
 
“Dobbiamo arrivare al palazzo… questa distruzione non può aver colpito l’intero regno, non può!”, esclamò Thorin, più che determinato nel trovare qualcuno ancora in vita, pur perdendo le speranze ad ogni passo che muoveva in quella devastazione.
Non aveva mai amato gli Elfi, ma tutto quello era troppo perfino per lui.
 
“Thorin ha ragione, non siamo qui solo per osservare senza far nulla. Siamo qui per cercare di aiutare”, concordò Bofur, per una volta senza il suo solito sorrisetto stampato sul viso.
 
Ad ogni cadavere che incrociavano, che fosse riverso al suolo, oppure sopra un albero, o immerso nell’acqua, tutti chinavano la testa, sopraffatti da siffatta malvagità: quale essere avrebbe mai potuto scatenare una furia tale da distruggere perfino un popolo guerriero e potente come quello degli Elfi Silvani?
Arrivarono al ponte sul fiume con lo sguardo ormai pieno solamente dell’immagine della morte, e con ben poche aspettative di trovare qualcuno vivo.
Thorin si fece avanti: “Aspettatemi qui, entrerò da solo”, ordinò ai Nani, prima di incamminarsi velocemente sul ponte, con la mano pronta sull’elsa della spada in caso fosse arrivato il bisogno di sguainarla.
Le due guardie che sorvegliavano i portali decorati dell’entrata erano riverse a terra trafitte da molti dardi, il sangue che si era allargato sotto di loro sembrava quasi brillare sulla liscia pavimentazione di pietra lucida.
Le aggirò senza guardarle e varcò i portali aperti.
“Oh…”, riuscì a dire, osservando cosa era accaduto all'’interno del palazzo; fece del suo meglio per sopprimere l’orrore che lo pervase, nel vedere ogni singolo elfo che lì viveva morto, colpito da frecce o con le lame di spade e coltelli ancora conficcate nella carne, abbattuto molto probabilmente esattamente lì dove si trovava quando era stato travolto dall’ombra.
Molti guardiani e soldati avevano le armi spezzate, oppure giacevano lontano da loro.
Avanzando sui corridoi sospesi, dovette reprimere la voglia di sentirsi male, nel vedere i corpi orribilmente straziati di coloro che avevano cercati di difendersi fino all'’ultimo soffio di vita, nel calpestare ad ogni passo il sangue che si era riversato a terra.
Scosse la testa, abbassando lo sguardo sui suoi piedi, quando si imbatté in una madre, probabilmente uccisa da un colpo di spada alla testa a giudicare dalle ferite, che ancora stringeva tra le braccia il figlio, trafitto da una freccia dall’inconfondibile impennaggio nero.
Fu allora, che se ne accorse.
Il silenzio sarebbe dovuto essere assoluto, un silenzio assordante, ma non era così: un lieve suono, come di qualcuno che piangeva, riempiva l’aria, risuonando tra le immense volute del palazzo, disperdendosi tra le tenebre.
Inizialmente, non comprese bene cosa stava ascoltando ma, quando capì, le sue gambe si mossero quasi da sole, come dotate di volontà propria.
“Thranduil… dove sei?”, si disse sottovoce, correndo alla ricerca del re.
Un paio di volte inciampò nei cadaveri di alcune guardie, ma si rimise in piedi all'’istante e continuò la sua ricerca; ora che aveva trovato ciò che sperava, non si sarebbe fermato dinanzi a nulla.
Non si fermò nemmeno quando, nella foga della corsa, la cintura della spada si impigliò in qualcosa e si spezzò, cadendo con un clangore assordante.
Infine, lo trovò ai piedi del suo maestoso trono, la corona solitamente sul suo capo abbandonata chissà dove.
Stringeva il figlio tra le braccia, incurante del sangue che gli inzuppava la lunga veste, probabilmente il sangue proprio di Legolas.
Thranduil sembrava aver perso perfino la forza di piangere, perché i singhiozzi che avevano condotto Thorin fino al re si interruppero, sostituiti da un’angoscia silenziosa ma talmente straziante che il Nano fu molto tentato dal fare un passo indietro.
Ma lottò contro quel’istinto e avanzò, lentamente: “Thranduil?”, lo chiamò a bassa voce, avvicinandosi.
Quello si voltò, e il principe nano trattenne un sospiro di sorpresa e spavento: la metà sinistra del volto del re era di nuovo sfigurata dall’orrenda ferita causatagli anni e anni prima da un drago, e la metà destra, quella non devastata, era bagnata, umida di lacrime, la luce nell’occhio buono svanita e sostituita dal nulla.
I suoi lunghi capelli, un tempo completamente biondi, chiari come la luce del sole sulla neve, erano ora striati di bianco, e insozzati dal rosso cupo del sangue.
Non sembrava ferito, eppure…
L’eterea bellezza di Thranduil era stata quasi soffocata dal dolore.
 
“Thorin Scudodiquercia…”
 
Due sole parole, pronunciate con un tono di voce talmente flebile, al confronto con la voce di solito potente e austera di Thranduil, con fatica sfuggirono dalle sue labbra screpolate e sanguinanti.
Il suo corpo tremava, avvolto nella pesante veste argentea ora strappata e macchiata, e la sua pelle era più pallida del latte.
D’improvviso, lasciò andare il figlio e si trascinò poco lontano da lui, per poi accasciarsi al suolo, senza forze.
“Thranduil!”.
Thorin corse a soccorrerlo, prendendolo fra le braccia.
Per poco non si spaventò, sentendo com’era magro e debole, percependo il tremore delle sue membra, ma riuscì a restare saldo.
Lentamente, gli sfiorò dolcemente con la mano la parte sfigurata del volto, e si sorprese non poco quando l’orribile cicatrice svanì, coperta dall’illusione, o almeno il nano credeva fosse così, della sua pelle pallida.
Lasciò la mano sul suo volto, spaventato dal vuoto che mostravano i suoi occhi: “Non abbandonare la tua forza, Thranduil, ti prego… non lasciarti andare. Resisti!”, disse, sentendo già le lacrime salire a pungergli gli occhi.
Lo aveva odiato, sì, detestato e trovato insopportabile, ma ora non voleva vederlo ridotto in quelle condizioni, così sofferente e debole.
 
“Sono ferito, Thorin… ferito nello spirito. Non posso resistere…”, replicò debolmente.
Sconvolto, Thorin lo guardò, impotente, piangere.
 
“Non voglio morire… non voglio morire, Thorin. Ho paura”, disse tra le lacrime, sollevando a fatica una mano per metterla su quella che l’altro ancora teneva ferma sul suo volto.
“Ho paura…”, ripeté ancora, mentre le calde lacrime gli scivolavano lente sul viso.
 
Di slancio ma con delicatezza, Thorin lo abbracciò, stringendo l’antico elfo a sé.
Grazie agli insegnamenti di Balin sapeva bene che gli elfi, se feriti nello spirito, soprattutto in quel modo, non resistevano alla chiamata della morte, se non in casi estremamente rari.
E Thranduil fino a poco prima stringeva tra le braccia il corpo esanime del suo stesso figlio, l’unica famiglia che gli restava.
“Sei forte, puoi resistere… puoi riuscirci”, cercò di consolarlo, ma quelle parole suonavano false e inutili anche mentre le pronunciava: il grande re degli elfi non aveva la forza di respingere la morte, non dopo tutto ciò che aveva visto e sopportato.
 
“Thorin?”
 
Il nano sciolse l’abbraccio per poterlo guardare negli occhi.
 
“Portami via da qui, ti prego… non sopporto la morte che si respira qui dentro… non sopporto la vista di Legolas, di mio figlio morto… portami via!”, esclamò in un ultimo impeto di energia, prima di svenire tra le braccia forti di Thorin.
 
E Thorin obbedì, sollevando l’elfo da terra con fin troppa facilità per portarlo lontano da quelle sale maledette.
Non fu facile attraversare il palazzo reggendolo in braccio, ma il corpo dell’elfo era talmente leggero e debilitato che non costò al nano quasi nessuna fatica.
Attraversò il ponte senza guardarsi indietro, tenendo lo sguardo fermo davanti a sé.
 
“Oh Mahal, ma quello è…”
 
“Sì, Dwalin. È Thranduil. È il re di questo regno. Ed è l’unico elfo ad essere ancora vivo, per adesso”, rispose secco Thorin, interrompendo la domanda dell’amico.
“Andiamo via da qui, siamo rimasti fin troppo in questa foresta maledetta”, aggiunse poi, avviandosi davanti agli altri.
 
“Ehm… Thorin? Hai intenzione di portarlo in braccio fino a Erebor? Non possiamo metterlo sul dorso di un pony”, domandò Dori, avvicinandosi.
 
“Certamente no! Qui intorno deve pur esserci rimasto qualche cavallo o una cavalcatura adatta a portare un elfo. Fili, Kili, cercate!”, rispose, ordinando ai nipoti di muoversi con un cenno del capo.
Piegò le ginocchia e depositò delicatamente il re degli elfi sul terreno: “Balin? Quanto può resistere un elfo se ferito nello spirito?”, domandò, tenendo d’occhio i dintorni nella speranza di veder comparire un cavallo da un momento all'’altro.
 
“Da poche ore, fino a mesi interi. Dipende dall’entità della ferita che hanno ricevuto, e soprattutto dal dolore che hanno provato in tutta la loro esistenza”, rispose il nano dalla barba bianca, avvicinandosi per scrutare meglio l’aspetto dell’elfo.
“Che cosa gli è accaduto, per farlo ridurre in quello stato?”, chiese poi, incapace di lasciare lo sguardo fermo su di lui.
 
“Vuoi dire, oltre ad aver affrontato una minaccia che ha distrutto il suo intero popolo? Quando l’ho raggiunto, aveva Legolas stretto fra le braccia. Aveva suo figlio, morto, stretto tra le braccia. Ha perso tutta la sua famiglia”, rispose, affranto.
“Io non amo gli Elfi, questo lo sapete molto bene. ma questo è stato troppo anche per me”.
Sollevò lo sguardo sulla compagnia, e incontrò i loro sguardi comprensivi, e lesse l’orrore nei loro occhi, l’orrore per aver visto la scomparsa di un intero regno.
 
“Zio Thorin! Zio Thorin!”.
 
La voce di suo nipote Kili lo distolse dai cupi pensieri che minacciavano di assalirlo, e l’inconfondibile verso del megacero di Thranduil quasi lo fece ridere di gioia: “Ottimo lavoro, ragazzi”, si congratulò con loro, sollevando ancora l’elfo per poterlo mettere sul dorso della sua cavalcatura.
Non ebbe bisogno di troppo impegno, per convincere l’animale a piegarsi sulle zampe per permettergli di adagiare il suo padrone sulla groppa.
Aiutato dai nipoti, Thorin assicurò il re degli elfi legandolo con delle corde all'’animale, per impedirgli di cadere, poi ordinò a tutti di rimettersi in marcia, per recuperare i pony lasciati all'’imbocco della foresta e fare ritorno a Erebor.
Una volta fuori dalla foresta, tutti tirarono un lungo sospiro di sollievo, lieti del fatto di essersi lasciati alle spalle la devastazione presente tra gli alberi.
I pony li aspettavano tranquilli, brucando l’erba al limitare del bosco incuranti di tutto ciò che i nani avevano visto.
“Andiamo, non resterò un secondo di più”, affermò Thorin montando in groppa al proprio pony, spronandolo a galoppare per tenere testa al megacero che a quanto pare aveva persino meno desiderio del nano di restare.
Al calar della notte si fermarono: “Siamo a debita distanza, accampiamoci qui per la notte”, disse il principe nano, parole accolte da sospiri di sollievo degli altri.
Gloin si occupò di accendere il fuoco, che subito arse scoppiettando nello spiazzo erboso che avevano scelto per accamparsi; un luogo accogliente, ma ben nascosto ad occhi indiscreti e nemici in agguato.
Mentre Bombur, aiutato da Ori, preparava la cena, Thorin si occupò di recuperare Thranduil dal dorso del megacero, che se stava docile a terra, defilato dai pony.
Trasportò l’elfo fino al calore delle fiamme, adagiandolo a terra accanto al fuoco, ma protetto da eventuali scintille, e si sedette accanto a lui, continuando ad osservarlo preoccupato, temendo di vederlo smettere di respirare da un secondo all'’altro.
Thranduil ne aveva sopportate talmente tante in vita sua, come gli era stato raccontato dal re stesso durante la prigionia a Bosco Atro, che Thorin non aveva tutti i torti nel credere di vederlo morire all'’improvviso.
Accettò senza sorridere la ciotola di semplice zuppa che Bofur gli porse, e cercò di mandarne giù un paio di cucchiai, ma aveva lo stomaco chiuso e rinunciò a mangiare, tenendo piuttosto d’occhio ora Thranduil ora l’oscurità che il fuoco non riusciva a illuminare.
“Faccio io il primo turno di guardia, voi dormite”, disse, una volta che tutti ebbero mangiato e bevuto.
Circa tre ore dopo, Dwalin lo scosse per una spalla, e Thorin si distese accanto al fuoco, senza altra difesa dal freddo oltre al mantello bordato di pelliccia che portava sempre sulle spalle.
Il mattino dopo giunse annunciato dal lieve tepore del sole, e dalla voce di Thorin che ingiungeva a tutti di mettersi in piedi per riprendere il viaggio: “Entro questa sera dobbiamo essere a Erebor, datevi una mossa!”, sbraitò, già in sella al proprio pony con una mano nella folta criniera del megacero di Thranduil.
Non si fermarono neppure per il pranzo, fecero soltanto delle brevissime soste per bere da un ruscello o per rintanarsi in un qualche cespuglio.
Giunsero a Erebor ancor prima del calar della sera, quando il cielo aveva ancora le sfumature aranciate di uno splendido tramonto e le nuvole erano tinte di rosa dalla luce morente del sole.
I nani di guardia si affrettarono ad aprire le porte vedendo la compagnia fare ritorno, e Thorin le varcò senza nemmeno degnarsi di scendere dalla groppa del pony.
Fece arrestare entrambe le cavalcature, la sua e quella del re, nel bel mezzo della sala principale del regno sotto la Montagna.
 
“Thorin, cos’è questa storia? Cosa ci fa lui qui?”, gli urlò contro Dîs, additando con l’indice Thranduil, ancora inerte sul dorso del megacero.
 
Thorin affrontò la sorella senza battere ciglio: “Cosa ci fa lui qui? Molto semplice. Tutto il suo regno è stato distrutto, ogni elfo ch’era suo suddito è morto, ucciso dagli orchi o da altre creature appartenenti all'’ombra, e quel povero re io l’ho trovato nel suo palazzo con il figlio morto tra le braccia. Ecco cos’è questa storia. Thranduil sta morendo, e cos’altro potevo fare se non portarlo via da quel luogo maledetto, quando me lo ha chiesto con le lacrime che gli rigavano il volto? So di non essere la persona adatta per dire a te una cosa del genere, ma lascialo in pace. La merita, la pace, dopo tutto quello che ha sopportato. Merita la pace, negli ultimi giorni di vita che gli restano”, disse, accarezzando il pelo lungo e liscio dell’immensa cavalcatura dell’elfo.
 
Dîs restò spiazzata da quelle parole: “E sia. Sei tu il Re sotto la Montagna, perciò tu decidi. Ma hai ragione”, cedette, scostandosi di lato.
 
“Grazie, sorella”, disse Thorin, facendo poi cenno al megacero di piegare le zampe per poter togliere Thranduil dalla sua groppa; l’animale, docile come non mai, obbedì e il nano poté sciogliere le corde che tenevano fermo il re per poi prenderlo in braccio senza fatica.
L’immensa cavalcatura tornò ritta sulle zampe un istante dopo e cavalcò via, fuori dalle sale chiuse di Erebor.
Thorin, ignorando gli sguardi stupiti di molti dei presenti, si diresse alle zone riservate alla famiglia reale e, una volta arrivato in quei corridoi, aprì con un piede la porta di una delle tante stanze deserte mai utilizzate, stando attento a non far sbattere la testa al re degli elfi contro uno stipite quando varcò la soglia.
Lo depositò delicatamente sul morbido letto presente nella stanza, abbastanza grande da impedire ai suoi piedi di sporgere, e non senza un lieve imbarazzo gli sfilò la pesante veste argentea, strappata in più punti e sporca di sangue secco.
La gettò in un angolo, ripromettendosi di farla lavare e ricucire per quanto possibile, senza spostare lo sguardo dall’elfo: era incredibilmente pallido, e al tatto la sua pelle cominciava a scottare, stava cominciando ad avere la febbre.
Valutò se togliergli anche i pantaloni, come la veste macchiati di sangue, ma l’imbarazzo gli impedì di frlo perciò si limitò ad afferrare le lenzuola piegate ai piedi del letto e a coprirlo.
Andò nella stanza da bagno, collegata a quella, e recuperò una brocca d’argento, riempiendola con acqua calda, e un pezzo di stoffa pulito.
Poi si sedette accanto a Thranduil e, dopo aver bagnato la stoffa, prese a pulirgli i capelli dal sangue rappreso che li incrostava, cercando di ignorare le ciocche bianche che li ornavano come nastri di neve su un campo di grano dorato.
Fece del suo meglio per ignorare anche il suo respiro, sempre più flebile e sofferto, ma allo stesso tempo lo ascoltava, per essere certo che il soffio della vita non si spegnesse, in lui.
Una ferita spirituale poteva essere anche più dolorosa di una ferita fisica, per un elfo; specialmente per un elfo come Thranduil.
Poteva solo immaginare il dolore che attanagliava ogni centimetro del suo corpo, mentre la vita lo abbandonava lentamente, ma inesorabilmente, come bruciata dal fuoco.
E all'’improvviso, Thorin si pentì delle parole che, tempo prima, gli aveva rivolto in un impeto di rabbia.
 
[flashback]
“Io non mi fiderei che Thranduil, il grande re, onori la sua parola. Dovesse la Fine dei Giorni incombere su di noi. Tu sei privo di ogni onore. Ho visto come tratti i tuoi amici. Siamo venuti da te, una volta, affamati, senza dimora, a cercare il tuo aiuto. Ma tu ci hai voltato le spalle. Tu ti sei allontanato dalla sofferenza del mio popolo e dall’inferno che ci ha distrutti. Imrid amrad ursul!”
 
“Tu non parlarmi del fuoco del drago! Conosco la sua rabbia e la sua rovina. Io ho affrontato i grandi Serpenti del Nord!”
 
[fine flashback]
 
Era stata la prima volta che Thranduil gli aveva mostrato l’orribile ferita che sfigurava il suo volto, ma allora Thorin non vi aveva dato peso.
Non aveva compreso che quella non era una ferita normale, rimasta sulla sua pelle perché incapace di guarire; era uno screzio maledetto, frutto della progenie oscura dei draghi che abitavano la Terra di Mezzo prima della dipartita di Smaug.
Sfiorandogli la fronte, sentendo il calore che la sua pelle cominciava ad emanare mentre pian piano bruciava per la febbre, Thorin si pentì amaramente di avergli augurato una morte tra le fiamme.
Era vero che li aveva abbandonati, ma lo aveva fatto per timore di mandare il suo popolo alla morte, e il nano lo stava capendo solo ora che colui al quale avrebbe dovuto chiedere perdono stava morendo.
Thorin mise nella brocca la pezza che aveva usato per ripulirgli i capelli e lo osservò in silenzio, dolorosamente consapevole della propria incapacità nell’offrirgli un aiuto concreto.
Credeva che Thranduil fosse un elfo altezzoso senza paura né pietà, ma mai come in quel momento si sentì in colpa per aver formulato tali pensieri.
Thranduil aveva paura, invece, aveva paura, era terrorizzato dalla morte che lo stava afferrando, dilaniando con i suoi artigli malefici, e non aveva dato segno di volerlo nascondere.
Non più.
D’un tratto Thorin capì che, nel palazzo, il grande re degli elfi era scosso da tremiti non causati dal dolore o dalla disperazione o dal pianto.
Thranduil era scosso da tremiti di paura.
Tremava perché sapeva cosa lo stava attendendo e non poteva impedirlo.
Gli strinse la mano inerte, e fece per alzarsi, ma la voce flebile di Thranduil gli giunse alle orecchie prima che potesse fare solo una mossa.
 
“Thorin…? Perdonami…”, riuscì a dire, cercando di ignorare il dolore che lo attraversava in ogni centimetro del corpo.
Poi perse di nuovo i sensi, cadendo ancora nell’oblio.
 
Il nano annuì, anche se l’elfo non poteva vederlo, e si alzò, chiudendosi la porta alle spalle nel lasciare la stanza.
Tornò a visitarlo ogni ora, e più il tempo passava più la febbre continuava a bruciarlo.
Non dormì nemmeno quella notte, continuando a fare la spola tra le proprie stanze e quelle in cui aveva sistemato Thranduil.
Balin lo trovò di primo mattino, di nuovo seduto accanto al suo letto, impegnato a bagnare la fronte di Thranduil con delle pezzuole umide, in un vano tentativo di abbassare la sua temperatura corporea per farlo soffrire meno.
 
“Thorin, sai che tutto questo è inutile, vero? Morirà comunque, qualunque cosa tu faccia”, disse, chiudendosi la porta alle spalle per non permettere ad eventuali disturbatori di dare seccature.
 
Strizzò la pezzuola per liberarla dall’acqua gelida in eccesso, e la rimise sulla fronte bollente di Thranduil.
Sospirò: “Lo so benissimo Balin, non occorre ricordarmelo. Spero solo di alleviargli la sofferenza, in qualche modo”, rispose, senza distogliere lo sguardo dal volto pallido dell’elfo.
 
“Perché lo fai? So che lo hai già detto a tutti noi, ma perché?”.
 
“Forse perché non auguro a nessuno una sofferenza tale, nemmeno al mio più acerrimo nemico”, replicò.
La giornata passò in quel modo, e così anche le giornate seguenti, senza cambiamenti.
I nani di Erebor erano sempre più scalpitanti a causa del a presenza di un elfo tra le mura della fortezza, ma nessuno osava contestare la decisione del Re sotto la Montagna.
Alla fine, dopo due settimane, Thranduil aprì gli occhi.
“Thranduil!”.
Il principe nano si precipitò al suo fianco, stringendogli la mano, ma osservandolo sapeva benissimo cosa sarebbe accaduto: il volto dell’elfo era scavato, il suo corpo debilitato, tanto che non aveva nemmeno più la forza di stringere le sottili dita attorno a quelle piene di calli dell’altro.
Respirava sempre più a fatica, e i suoi occhi erano diventati bianchi, contornati solo da un finissimo filo di color ghiaccio.
 
“Thorin Scudodiquercia… io… io…”.
Tossì, senza fiato, e sentì di avere le labbra imperlate di goccioline di sangue, ma continuò: “Grazie… per tutto. Per avermi portato via da quello scenario di morte, per avermi aiutato come nessun altro nano avrebbe fatto”.
Tossì ancora, e abbandonò la testa sul cuscino, incapace di sollevarla: “Credo che tu sia stato il miglior… nemico di sempre. Ti chiedo solo un ultimo… un ultimo favore”.
Chiuse gli occhi, mentre la vista gli si annebbiava, e sorrise, l’ultimo sorriso che mai avrebbe rivolto a qualcuno, sentendo però le lacrime scendergli lungo le guance: “Resta con me… non lasciarmi morire da solo. Ho paura… di restare solo”, disse, con la voce ridotta ad un ben misero sussurro.
 
“Non andrò via… non avere paura”, rispose Thorin, mettendogli un braccio dietro la schiena per poterlo abbracciare: “Non avere paura”, ripeté.
 
“Non… non ho paura”, ripeté anche Thranduil, e furono le sue ultime parole.
 
Sentendo l’elfo abbandonarsi tra le proprie braccia, ormai senza vita, non riuscì a fermare le lacrime, che piovvero dagli occhi come gocce di pioggia, che scivolarono fin nella barba scura.
“Addio, Thranduil, grande re degli Elfi”, disse, adagiandolo di nuovo sul materasso.
Gli chiuse gli occhi, divenuti quelli senza vita di un morto, e chinò la testa.
 
“Infine, è morto”.
 
La voce di Dîs arrivò attutita alle orecchie di Thorin, che stringeva convulsamente il tessuto del lenzuolo tra le mani, ma lo riscosse: “Dobbiamo organizzargli un funerale. Un funerale degno di un elfo”, disse, alzandosi per guardare la sorella negli occhi.
“Riunisci tutti coloro che vorranno essere presenti. Che vorranno essere presenti per onorarlo. Il funerale si svolgerà all'’aperto, in uno spiazzo erboso”.
Dîs annuì e scomparve oltre la soglia in un frusciare di vesti.
Thorin recuperò la veste di Thranduil, lavata e ricucita talmente bene da sembrare appena tessuta, e la mise indosso al re, sistemandola al meglio, e la chiuse sulla gola con la sua spilla.
Poi gli sistemò i capelli, intrecciandoli come aveva imparato a fare anni e anni prima, e gli cinse la fronte con un fine diadema forgiato apposta da Thorin stesso.
 
 
Il funerale si svolse alla presenza di pochi individui; tutti i nani della compagnia di Thorin e Dîs, più pochi altri che avevano imparato a non odiare gli elfi e il loro operato.
Alla fine, Thranduil venne seppellito dallo stesso Re sotto la Montagna, e sopra la sua tomba furono adagiati degli enormi mazzi di fiori bianchi e dorati, e la sua lapide fu scritta con le tengwar, e così recitava l’incisione:
“Colui ch’è stato un grande re
Ch’è stato un padre
Ch’è stato un amico
Qui riposa e per sempre riposerà
Avvolto nell’eterno sogno
Thranduil Oropherion, re di Bosco Atro”.
 
E accanto al re, era stato seppellito anche il figlio, Legolas, portato a Erebor da Fili e Kili:
“Un principe
Un guerriero
Un elfo valoroso.
Legolas Verdefoglia, figlio di Thranduil
Qui dorme il suo eterno sonno di pace”.
 
Così, trapassava Thranduil, distrutto dal dolore e dalla perdita, e così Thorin lo ricorda in quel momento e in tutti gli anni a venire.
Il giorno seguente, Thorin si svegliò nel proprio letto, urlando e coperto di sudore, certo di aver fatto un orribile incubo.
Ma, quando si affacciò alle balconate di Erebor, non ebbe più alcun dubbio.
La morte, infine, era giunta.

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