Guillaume de Ponthieau
Comprensioni
L’aria, solo qualche istante prima vibrante di
suoni, sembrò
farsi muta. La calma era quasi irreale. Si respirava l’eccitazione
degli uomini
con un brivido di paura che nemmeno i veterani dell’esercito riuscivano
sempre
a sopire.
L’alba era vicina. Il cielo si faceva sempre più
chiaro e le
nubi si dissipavano. Ma anche se così non fosse stato, avrebbero
combattuto
ugualmente. I francesi lo sapevano fin troppo bene: gli inglesi erano
troppo
abituati ai loro temporali e al loro fango per farsi frenare da qualche
goccia
di pioggia e da un po’ di terra instabile.
Guillaume respirò a fondo, senza fretta.
Aspettava, come
tutti. Ma con più lucidità.
Aveva tenuto conto di tutto. Le forze
dell’avversario, il
campo di battaglia, la strategia che avrebbe adottato era di certo la
migliore
che potesse scegliere. Tra gli inglesi questa volta c’era stata una
fuga di
notizie. I feudatari d’oltremanica impegnati in quella battaglia in
campo
aperto sarebbero stati solo due, gli unici che non erano impegnati su
altri
fronti, non molto esperti e ancora abbastanza giovani. Re Giovanni
contava di
nuovo sulla superiorità numerica degli eserciti. Ma non sempre era un
vantaggio, Guillaume lo sapeva e biasimava quel re indegno che non
sapeva
nemmeno imparare dai propri errori. Un esercito di mercenari troppo
grande era
difficile da controllare, domare, dirigere....soprattutto per dei
ragazzini
senza esperienza. Un sorriso scaltro gli attraversò il volto. Il nemico
non
andava mai sottovalutato, ma Guillaume doveva ammettere che quella
volta la
fortuna era a loro favore.
Anche se…
Guardò astioso alla sua sinistra, fino ad
individuare
Dammartin, che lo avrebbe accompagnato in quella battaglia. Non
riusciva a fare
a meno di provare un certo disprezzo per lui… era pieno di sé e con
scarsi
precetti morali. Avrebbe di certo preferito avere qualcun altro al suo
fianco,
ma non avrebbe potuto cambiare la volontà del re.
Col petto fremente ma l’espressione ferma e
sicura,
oltrepassò i suoi uomini e si pose davanti a tutti loro, presto imitato
da
Dammartin.
« Nervoso, Ponthieau?»
gli chiese Dammartin, con un sorriso irritante.
Guillaume decise di passare sopra al modo in cui
Dammartin
osava rivolgersi a lui, almeno per il momento.
« Sarei uno stolto se non lo fossi, anche se è una
battaglia
che abbiamo buone probabilità di vincere. Niente deve andare storto. »
Dammartin scosse le spalle con noncuranza. « non
c’è nulla
di cui preoccuparsi. Re Giovanni pensa di poterci sopraffare
numericamente, ma
siamo più di quanti immagina, quasi quanto la parte di esercito che ha
messo su
in tutta fretta per non farci avanzare. Un esercito guidato da due
ragazzini,
da immolare nell’attesa che i grandi siano liberi di venire fin qui.
Oggi ci
prenderemo questa vittoria e questa fetta di terra fiamminga a cui
tanto tiene.
»
Guillaume riteneva che Dammartin fosse fin troppo
tranquillo, ma dovette ammettere che le cose che aveva detto erano
vere.
Re Giovanni sembrava davvero aver fatto male i
suoi conti.
Il conte fece girare il destriero e le parole che
rivolse al
suo esercito furono accolte con grida e clangore di spade contro scudi.
Erano
parole incoraggianti, ma che richiamavano l’attenzione sulla disciplina
e sulla
prudenza. Non potevano comunque permettersi di sottovalutare il nemico,
e
Guillaume sperò che questo concetto fosse ben chiaro a tutti, anche se
il discorso
di Dammartin era stato più canzonatorio e spensierato.
Guillaume serrò la mascella dal fastidio e ritornò
tra le
sue fila.
Tra i francesi tornò presto il silenzio, e
cominciò a
sentirsi il rumore sordo della marcia degli inglesi ancora invisibili
ai loro
occhi. Il conte sentì il consueto nodo alla gola e il suo sguardo si
fece più
deciso e scuro. Strinse le redini. I minuti che lo separavano
dall’impatto col
nemico erano pochi, sempre meno. E si sentiva pronto e lucido,
nonostante i
denti continuassero a mordere le labbra.
Gli inglesi apparvero in direzione dell’alba cupa
e dalla
luce opaca. Erano sagome nere sull’orizzonte, avanzavano senza
esitazioni,
marciando compatti, le lance verso l’alto. Un esercito di figure ancora
indefinibili, con l’elegante fascino di tutte le cose inquietanti.
Guillaume assottigliò lo sguardo con impazienza,
fino a che le
figure non furono abbastanza vicine da poterle vedere più nitidamente.
Un
cavaliere avanzava in testa, la lancia puntata verso l’alto e l’elmo
già calato
sul viso.
Il conte sgranò gli occhi per un istante e senza
volerlo
trattenne il respiro.
« Dammartine! » chiamò, senza però tradire un’
ombra di
paura, mentre una sensazione spiacevole gli strisciava sotto pelle.
L’altro feudatario ghignò da lontano nella sua
direzione. «
Cosa c’è ancora, Ponthieau?»
Anche gli uomini del conte Guillaume si stavano
accorgendo
di qualcosa e cominciarono a bisbigliare tra loro, confusi e nervosi.
« Silenzio! » li riprese Guillaume, furente. Poi
si rivolse
di nuovo a Dammartine e gli indicò il nemico col mento. Il feudatario
assottigliò lo sguardo e un lampo di comprensione e timore passò nei
suoi
occhi. Non osò più guardare in faccia Guillaume. Le spie che avevano
scoperto i
piani degli inglesi non erano di Ponthieau, erano le sue.
Il cavaliere che capeggiava l’esercito nemico
sembrava
studiarli da sotto l’elmo, e forse aveva intuito la sorpresa dei
francesi.
Dietro di lui, gli stendardi erano neri con un leone d’oro sormontato
dal
fregio rosso dei cadetti e non avevano niente a che vedere con quelli
di cui le
spie francesi avevano ricevuto notizia.
Fece loro un segno di saluto con la lancia, quasi sarcastico
quanto
agghiacciante. I suoi sembrarono prenderlo come un segnale e suonò una
tromba,
gli arcieri tirarono in alto gli archi.
La Fiandra avrebbe dovuto attendere nuovamente
l’arrivo dei
francesi. Guillaume ricordava quella sconfitta, era una ferita che
ancora
bruciava nel suo orgoglio.
L’esercito francese si era battuto bene, ma era
stato
respinto senza remore, solo per fortuna la ritirata era riuscita e non
c’erano
stati prigionieri importanti. Ma re Filippo non era rimasto
soddisfatto,
soprattutto perché… le notizie che erano arrivate dalle spie, il
presunto
errore degli inglesi… era stato tutto falso.
Almeno Guillaume aveva potuto giustificarsi da
questo punto
di vista, mentre Dammartine probabilmente aveva architettato proprio
allora il
suo voltafaccia, il tradimento verso la corona.
La seconda volta che Guillaume vide quel blasone,
fu il
giorno del torneo di Bearne. Aveva potuto rivedere il blasone che aveva
reso
vana la sua strategia.
Francois de Bearne lo aveva guardato di sottecchi.
« Lo conosci?» gli aveva chiesto, incrociando le
braccia al
petto e guardando da lontano il barone che, in sella, si preparava ad
affrontare la sfida.
« Non bene quanto vorrei. L’ho incontrato una sola
volta sul
campo di battaglia. »
Francois annuì tetro,
ricordando, forse, quell’avvenimento di due anni prima.
« Non preoccuparti. Non sempre chi è temibile in
guerra lo è
anche in torneo. »
« Lui sì. » lo smentì Guillaume, sicuro. Guardò
negli occhi
l’amico e poi accennò con un gesto secco della mano ad un’altra figura
bionda e
vestita di rosso che stava raggiungendo il barone.
« Altrimenti lui non lo avrebbe scelto. »
Poi lo aveva visto gareggiare nella giostra. E
ancora non
sapeva che faccia avesse, ma poco gli importava. Era molto più
concentrato su
Derangale in quel momento.
Uno dei motivi per
cui Guillaume de Ponthieu, in seguito, non riuscì subito a non provare
diffidenza
per Geoffrey Martewall, fu che nell’occasione del torneo non aveva
potuto fare
a meno di pensare che lui e Derangale fossero una coppia temibile e… e
unita.
E come poteva biasimare la rabbia di Etienne de
Sancerre?
Jean era quasi morto per colpa di Derangale ed era poi stato fatto
prigioniero
da Martewall.
L’inglese non meritava alcun tipo di perdono.
Guillaume incrociò le dita davanti alla bocca,
grato
del fatto che presto Martewall se ne
sarebbe tornato in Inghilterra e con un po’ di fortuna non lo avrebbe
più
rivisto. Gli inglesi avevano interferito anche troppo nella vita della
sua
famiglia.
Era stato strano vederlo così.
Era strano vedere il barone di Dunchester che
aveva
gareggiato al torneo intimorendo così tanto i cavalieri francesi stare
al suo
cospetto a dargli spiegazioni. E aveva qualcosa di piacevole, anche.
Eppure Geoffrey Martewall non era sembrava
cambiato dal
giorno del torneo. Non aveva mai portato l’elmo per nascondere il suo
viso,
perché la fierezza dei suoi occhi era la stessa della sua postura in
sella, di
ciò che traspariva dalla sua abilità, dalla sicurezza del suo passo,
dall’orgoglio inflessibile in ogni gesto.
Guillaume si era reso conto che vederlo in faccia
non lo
aiutava a carpire i suoi pensieri.
Ma di una cosa era certo: Geoffrey Martewall aveva
coraggio.
Si era comportato da bandito, ricercando la
vendetta e forse
non era diverso da Jerome Derangale. Che elementi aveva Guillaume per
pensare
il contrario, d’altronde? Ma Martewall aveva coraggio.
E lo sapeva usare in tutti i modi possibili.
Sapeva cosa voleva dire schierarsi in prima linea
in guerra,
mettere tutto in gioco e rischiare la vita senza esitazioni. Aveva
saputo
affrontare il fato che gli spettava, la sua posizione d’ostaggio, aveva
tenuto
faticosamente la testa alta in quel gioco di intrighi.
E Guillaume sospettava che avesse anche avuto il
coraggio di
sbagliare volontariamente, per combattere ancora una volta contro il
destino. Aveva avuto il coraggio di fare
un salto nel vuoto e abbandonare la sua casa nelle mani del nemico.
Doveva essere stata dura. Ma Guillaume queste
considerazioni
le fece solo in seguito. In quel preciso istante si sarebbe limitato a
studiarlo con attenzione, certo che nemmeno con tutta la razionalità di
cui
disponeva sarebbe riuscito a giustificarlo.
Difficilmente chi era dal principio suo nemico non
restava
tale.
Probabilmente Geoffrey Martewall non avrebbe mai
avuto una
consapevolezza chiara di quanto, effettivamente, fosse riuscito a
stupire il
conte di Ponthieau.
Lo scudiero tentò persino di darsi un contegno
mentre lo
salutava con la testa ciondolante dalla stanchezza.
Guillaume inarcò un sopracciglio nel guardarlo. I
capelli
rossi di Beau Foxworth sembravano persino più scompigliati del solito,
le
guance erano color porpora e il dorso della mano correva spesso a
sfregare gli
occhi stanchi. Guillaume lasciò che il
ragazzino lo oltrepassasse, tentando di tenere le spalle ritte e di non
strusciare i piedi a terra, e non poté fare a meno di notare quanto il
ragazzino, nonostante la stanchezza, fosse raggiante. Poi,
seguì il percorso da cui lo aveva visto
arrivare.
Trovò esattamente ciò che si era aspettato.
La figura di Martewall gli dava le spalle,
indossava braghe
in pelle nera, cinturone e camicia larga con le maniche arrotolate.
Aveva
ancora la spada da allenamento in mano, ma presto la posò sul tavolino
della
sala d’arme per allacciarsi la sua in cintura. Non mostrava alcun segno
di
affaticamento.
« Il ragazzo migliora? » chiese Guillaume
all’improvviso.
L’altro però non sembrò sorpreso, probabilmente lo aveva sentito
arrivare e
aspettava solo che il conte si mostrasse, o, se non ne avesse avuto
voglia, se
ne andasse.
Si voltò, poggiando una mano sul legno del
tavolino.
« Sì. Il suo esercizio costante sta dando i suoi
frutti. »
Guillaume annuì, lo sguardo attento. Non sapeva
esattamente
perché si trovasse lì, e questo lo irritava. Forse voleva semplicemente
conoscere più a fondo quell’uomo che rimaneva per molti aspetti
imperscrutabile
perfino ai suoi occhi. Come se dietro quegli occhi chiarissimi vi
fossero
abissi a cui la sua ferrea logica non poteva arrivare. Non ci furono
saluti,
tra loro. Sicuramente Martewall si chiedeva il motivo di quella visita,
forse
non era del tutto certo che Guillaume si fidasse completamente di lui,
o che la
sua compagnia potesse risultargli anche solo poco piacevole.
Guillaume provava un profondo senso di rispetto
per Geoffrey
Martewall, e, ora che aveva salvato la vita a colui che oramai
considerava
veramente suo fratello, anche gratitudine. Quella punta di sottile
perplessità
da parte sua che, lo sapeva, Martewall sentiva sulla pelle anche se
oramai tra
loro non vi era più alcuna traccia di rancore, era dovuta solo alla
profonda
contraddizione che l’inglese rappresentava per Guillaume.
Prima aveva aiutato l’amico di sempre, Derangale,
a coronare
i suoi sogni di gloria, aveva preso prigioniero Jean per vendicare la
sua
morte. Poi si era rivelato essere una persona completamente diversa da
come ci
si sarebbe aspettati, diventando amico di colui che era stato l’origine
della
sua bruciante rabbia vendicativa.
Guillaume non pretendeva di violare la sua
interiorità senza
ritegno, razionalmente, ma era deciso ad avere una risposta, una
curiosità soddisfatta
che, come ogni curiosità, avrebbe potuto avere una valenza politica.
Martewall lo osservò ancora per qualche istante,
poi afferrò
il mantello e la casacca nera. Guillaume lo stava ancora studiando
quando Beau
entrò di nuovo, di corsa, nella sala,
inchinandosi e salutando rispettosamente al cospetto dei due feudatari.
Guillaume però sospettava che se fosse stato solo con Martewall non
sarebbe
stato così formale.
« Sir Martewall, Sir Jean ha detto che posso avere
la
giornata libera. Potremmo continuare? » chiese, gli occhi pieni di
aspettative.
« Credevo fossi stanco. » lo provocò Martewall, il
tono
incolore. Guillaume però non si stupì di notare ancora una volta
l’ombra di un
affetto nascosto molto bene dall’inglese verso il ragazzino. Era un
dettaglio
che aveva notato più volte, come una certa affinità tra loro, una sorta
di
comprensione che passava anche attraverso la severità del barone.
« No!» si affrettò ad esclamare il ragazzino. « Ho
ripreso
fiato in questo tempo, signore!»
« Troppo tempo. » affermò il cavaliere, asciutto.
« Ti sei
battuto con un solo uomo ed eri sfinito, i tuoi tempi di ripresa sono
troppo
lenti. Se ci fossero stati più nemici, cosa avresti fatto? Un cavaliere
non
riprende fiato, lo conserva. » e gli lanciò una spada che, anche se a
stento
perché troppo sorpreso, il ragazzino prese al volo. Dopo lo
sbalordimento e il
dispiacere misto alla soggezione che la freddezza di Martewall
incuteva, il suo
volto venne atteggiato a un’espressione determinata e orgogliosa.
Guillaume assisteva alla scena con un certo
divertimento.
Martewall sembrava soddisfatto del suo allievo in erba solo quando
questo non
era presente. Per il resto pareva molto critico e incontentabile.
« Signore, ho interrotto la vostra conversazione?
Se è così,
vi prego di scusarmi… » mormorò poi Beau, rivolto al conte. Guillaume
lo
tranquillizzò con un gesto della mano.
« No, non preoccuparti. Ero solo venuto a salutare
sir
Martewall e a ringraziarlo di nuovo per ciò che ha fatto. » mentì,
perché
sebbene si sentisse davvero grato nei suoi confronti, le sue gambe lo
avevano
portato lì senza uno scopo preciso. Ponthieau non era un uomo che agiva
senza
un motivo, per cui aveva subito iniziato a studiare di nuovo l’inglese
dall’anima tanto insondabile.
Martewall chinò appena il capo senza troppa
attenzione,
signorilmente.
« Come sta? » chiese, dopo un attimo di silenzio,
riferendosi chiaramente al Falco.
« L’avete curato bene. Si sta riprendendo. La
Provvidenza
non finisce mai di stupirmi. »
« Sir Martewall ha combattuto come un vero Leone!
Non
pensavo che si potesse fare! » esclamò Beau, ammirato, mentre lo
sguardo di
Martewall si incupiva.
Guillaume fece un segno d’assenso. Lo aveva già
visto agire
in guerra, quindi sapeva di cos’era capace.
« Se volete, mio fratello ora è sveglio, nelle sue
stanze,
salite le scale… »
Martewall però scosse lievemente la testa.
Guillaume
immaginava che ritenesse di aver già avuto anche troppi ringraziamenti,
o forse
aveva solo bisogno di solitudine, quel bisogno che ogni tanto si faceva
strada
nelle sue iridi.
« L’ho visto anche troppo in questi giorni. Le
scale me le
risparmio. »
Guillaume raddrizzò la schiena, pronto a lasciare
la stanza.
Prima però, osservò ancora il barone inglese, la sua espressione fredda
e
indecifrabile, la mano poggiata alla spada con noncuranza, come se
oramai questa
fosse parte del suo corpo, gli occhi profondi che celavano una tempesta
di
pensieri ed emozioni mai esternati.
Ricordò il suo dolore, la sua fiera, e ancora più
straziante
proprio per questo, sofferenza. Il vuoto dei suoi occhi quando aveva
scoperto
la morte del padre. Ricordò lo sguardo indomato ma pronto ad accettare
anche il
fato più meschino, quando aveva parlato con lui la prima volta.
Ricordava il
modo in cui aveva sorretto Jerome Derangale, l’amico ad un passo dalla
morte.
« Ammetto di non avervi mai capito del tutto, sir
Martewall.
Ma ora so cosa siete disposto a fare per un amico. Avrete sempre il mio
rispetto. » affermò il conte, col solito sguardo neutro e il tono
incolore.
Martewall non distolse mai lo sguardo dal suo, ma
evidentemente non era d’accordo. E Guillaume sapeva che aveva compreso
il senso
più profondo delle sue parole, a differenza di Beau che aveva
un’espressione
perplessa.
Anche il Leone lui pensava a quello che aveva
fatto per
Derangale.
Il conte raggiunse l’uscita a grandi passi,
pensando se
avesse dovuto mettere in chiaro che non provava più alcun tipo di
rancore nei
suoi confronti. Poi ricordò il suo odio, la sua furia distruttrice, la
sua
rabbia devastante.
Si fermò di colpo in mezzo al corridoio,
stringendo appena i
pugni, divorato dall’indecisione che pensava di aver superato, oramai.
Aveva già detto a Martewall tutto ciò che
realmente pensava.
Non c’era nulla da chiarire.
L’arrivo dell’inglese era stato annunciato ormai
da diversi
minuti. Guillaume non si era ancora mosso dalle sue stanze, e non aveva
alcuna
intenzione di farlo. Il tempo trascorreva senza che lui se ne rendesse
conto.
Forse nemmeno gli importava di ciò che accadeva intorno a lui.
Il mondo era solo rabbia, adesso. E solo dolore.
Era straziante, più di quanto avesse mai potuto
immaginare o
ammettere con se stesso. Era straziante ma non era sconosciuto. Lui
aveva già
provato il dolore causato dal tradimento di un fratello. Quante volte
ancora il
fato lo avrebbe costretto a provare queste emozioni?
Mai più, giurò a
se stesso con tutta l’anima.
Mai più.
Essere solo lo addolorava, così come la profonda
sensazione
che ogni cosa fosse vuota e senza senso, ma con tutto se stesso
Guillaume
cercava di sommergere tutto ciò che lo soffocava ogni secondo con la
rabbia,
nella convinzione di essere nel giusto.
Era il solo modo che aveva per combattere contro
la sua
anima ferita, dilaniata, forse insanabile.
Versò altro vino nel bicchiere e sentì appena i
passi che
salivano le scale per fermarsi davanti alla sua porta, che dopo pochi
istanti
si aprì improvvisamente.
« Monsieur! » esclamò il servo, e Guillaume, anche
senza il
bisogno di girarsi, capì che non si stava rivolgendo a lui, ma all’uomo
che
aveva accompagnato fino a lì e che aveva aperto senza bussare.
Non aveva alcuna voglia di parlare, né di pensare.
Ma niente
era cambiato per il mondo esterno, e lui restava sempre il conte
Guillaume de
Ponthieau. Aveva degli obblighi, dei doveri, e aveva ancora il suo
onore e il
suo orgoglio. Non lo avrebbe rinnegato in quel modo. Non avrebbe ceduto
a
questa debolezza.
« Puoi andare, Pierre. » disse, senza voltarsi,
congedando
il servo con un gesto della mano. Mentre Pierre si inchinava, salutava
e se ne
andava, Geoffrey Martewall fece un passo avanti.
« Cosa volete? » chiese Ponthieau, lanciando a
Martewall
un’occhiata bruciante. Un sorriso amaro e terribile gli attraversò il
viso. « Vi
manda lui? È arrivato a questi punti?
»
Martewall non mutò la sua espressione fredda, ma
Guillaume
aveva l’impressione che i suoi occhi potessero arrivare a scoprire i
luoghi più
oscuri e nascosti della sua anima.
« Io ho una guerra da combattere, sir. E non
voglio
immischiarvi nei vostri affari. » affermò, la voce incolore ma forse
più cupa,
come le ombre delle sue iridi. Guillaume si chiese cosa avesse visto in
lui che
lo aveva tanto turbato. Ma in fondo… non gli importava neanche questo.
« Allora togliete il disturbo. » ordinò, furente
ma sempre
controllato.
« Tra poco. » annuì
Martewall, avvicinandosi di un altro passo. Guillaume riportò gli occhi
sulla
finestra.
« Prima voglio parlarvi di Beau Foxworth. »
Il viso del conte si trasformò in una maschera
rigida e
sprezzante, folle di rabbia. « meriterebbe di morire sul patibolo. »
rispose
tra i denti.
Lo sguardo di Martewall lampeggiò per un istante,
come il
riflesso del sole su una spada.
« Lo porterò con me in Inghilterra. E con lui sua
madre. »
Guillaume strinse le dita intorno al bracciolo
della sedia
fino a farsi male. Il suo petto fremeva di collera repressa, tanto che
non
riconobbe più se stesso quando dalla sua gola proruppe una breve risata
amara,
fredda, terribile.
« è così che chiedete il mio permesso, inglese? »
« Non ho mai detto di voler chiedere il vostro
permesso. »
Guillaume si voltò completamente a sfidarlo con lo
sguardo.
Nella mente germogliavano cattiverie nate dal dolore e dall’ira verso
tutto ciò
che lo circondava, dal bisogno di trovare qualcuno con cui prendersela,
su cui
far valere il proprio potere. Germogliavano come piante infestanti,
impossibili
da estirpare.
« Voi inglesi siete tutti uguali. Giovanni Senza
Terra, I
baroni, William Lungaspada, anche Gant, sebbene lo sia solo per metà….
Beau
Foxworth, Jerome Derangale… voi,
Geoffrey Martewall… » il suo sorriso si allargò, agghiacciante quanto
sarcastico e meschino.« avete tutti un’inclinazione naturale al
tradimento.»
Geoffrey non fece un gesto, nulla cambiò sul suo
volto.
Guillaume rimase per un secondo interdetto. Non si era aspettato quella
reazione, non si era aspettato di poter offendere l’onore di Martewall
rimanendo impunito. E allora… perché lo aveva fatto?
Ora che la reazione che si aspettava, da cui a sua
volta
sarebbe stato offeso, non era avvenuta, provava vergogna per ciò che
aveva
detto.
Martewall continuava a soppesare la sua figura.
Guillaume
sapeva che non stava provando rabbia. Vi era nei suoi occhi una strana
comprensione, una consapevolezza inquieta, una solitudine audace ed
elegante.
« Il ragazzo è stato, invece, molto fedele al suo
padrone.
Per questo adesso devo portarlo in Inghilterra. »
« Se questa è la vostra idea di fedeltà, potete
anche
ritornare in Inghilterra e non fare più ritorno. Qui non siete i
benvenuti. »
sbottò Ponthieau, alzando il mento con orgoglio.
« E per questo porto anche sua madre. Credo che
oramai sia
chiaro che ho il vostro permesso, non è vero? » rispose Martewall,
tagliente ma
calmo e pacato come la fredda nebbia delle foreste inglesi.
« Non fingiate che vi importi. »
« Non lo farei mai. »
si limitò a rispondere il barone, con un gesto vago. Ma prima ancora
che
potesse finire la frase, Guillaume lo interruppe, indolente:
« Ditemi una cosa, Leone di Dunchester. Chi
pensate che
possa essere Jean Marc de Ponthieau? Cosa volevate che diventasse per
voi? Ha
mai tradito qualche vostra aspettativa? È riuscito ad essere un amico
migliore
di colui che ha ucciso, alla fine? Si è fatto perdonare per questa sua
colpa? »
Ad ogni domanda il suo cuore pulsava più forte
nelle
orecchie, la sua voce diveniva più arcigna.
Martewall per un attimo sembrò preso in
contropiede. Perché
il nome di Jerome Derangale un segno dentro di lui lo lasciava ancora.
Poi il
suo sguardo per un momento si abbassò e tornò a guardare dritto in
faccia
Guillaume dopo un altro istante, più forte di prima.
« Anche io ho perso un amico. Anche io mi sento tradito da lui. » ammise, stringendo i
pugni. Guillaume parve risvegliarsi da un incubo, capì quanto ingiusto
fosse
stato, non si riconosceva e si sentiva terribilmente infantile.
« Mi dispiace. » si scusò, seppellendo l’orgoglio
in un
angolo del suo cuore dove non lo avrebbe fatto sentire un idiota. « ho
riaperto
per rabbia vecchie ferite. »
Geoffrey non gli aveva lanciato sguardi accusatori
o irati
per tutto quel tempo, neanche quando Guillaume lo aveva offeso. Solo
ora,
inaspettatamente, i suoi occhi erano duri e severi come mai li aveva
visti
prima.
« Non c’è nulla di “vecchio” nelle mie ferite. »
sibilò, la
voce profonda vibrante di rabbia. « Sapete cosa rimpiango di più di
Jerome,
Ponthieau? »
Guillaume scosse la testa lentamente, gli occhi
appena
dilatati sotto la maschera di falsa impassibilità.
« Rimpiango il non poter sentire come si sarebbe
giustificato. Rimpiango la sua occasione perduta di spiegarmi tutto, il
perdono
che non gli avrei dato, ma che avrei sempre potuto pensare di dargli. E
non era
mio fratello… »
Guillaume era paralizzato dalla sorpresa. E fu
come se dita
gelide gli stessero stringendo lo stomaco.
Geoffrey si girò e si allontanò da lui, mise una
mano sul
pomello della porta.
« Cercate solo… » disse,
senza più voltarsi « Di non fare per orgoglio o paura la mia
stessa
fine. »
Taratatàààà….
Ci
ho messo anche poco, no? Per essere Guillaume de
Ponthieau…
Sono
stata affetta da un’improvvisa ispirazione ed è
uscito questo, e presto dovrò riscattarmi con il conte perché forse il
capitolo
non gli rende giustizia. Ho fatto del mio meglio e ho deciso che prima
o poi
tornerò a sperimentare su di lui, dato che più tento di descriverlo più
lo
capisco.
Se
qualcosa non vi piace ditelo tranquillamente! Soprattutto
nella parte finale che è stato un po’ un azzardo da parte mia…
*Ma
non è mia la colpa! È tua, Jerome! Trovi sempre il
modo di intrometterti! Ti ho detto che non scriverò di te e Geoff
insieme per
un po’, ok?!*
Non
è d’accordo…
: \
Ringrazio moltissimo
anche solo chi legge… poi Beau Foxworth per la sua partecipazione e la
carissima Wrong_And_Right
che:
1 ha suggerito
Guillaume de Ponthieu tramando alle
mie spalle.
2 recensisce ogni
singolo capitolo (e le sarò
eternamente grata ; )
3 trama anche alle
spalle di
Brianna…