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Autore: pickingupwords    25/11/2014    1 recensioni
"Quel che abbiamo letto di più bello lo dobbiamo quasi sempre ad una persona cara. Ed è a una persona cara che subito ne parleremo. Forse perché proprio la peculiarità del sentimento, come del desiderio di leggere, è fatto di preferire. Amare vuol dire, in ultima analisi, far dono delle nostre preferenze a coloro che preferiamo. E queste preferenze condivise popolano l'invisibile cittadella della nostra libertà. Noi siamo abitati da libri e da amici". Daniel Pennac, Come un romanzo.
Questa storia partecipa al contest "Il giorno che ha cambiato la mia vita" indetto da Fabi_Fabi sul forum di efp
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Piccola parentesi prima di cominciare: ho letto questo libro per la seconda -o terza?- volta da qui a poco e me ne sono innamorata ancora. Non c'è un motivo preciso per il quale io abbia collegato questa mia storia originale al romanzo di Pennac, è semplicemente successo.Vorrei sottolineare che non ho alcuna intenzione di plagiare il titolo del noto romanzo -messo, appunto, oltretutto, tra virgolette-, ma è un titolo che ha un motivo molto preciso di essere tale. 
Ora, possiamo iniziare.




 
"Come un romanzo".





Cammino lentamente tra gli scaffali della libreria, gli occhi che guizzano ovunque contornati da un paio di occhiali a lenti spesse che fanno sembrare il mio viso più tondo del normale, viso sul quale ricadono ciuffi di capelli che sono costretta a continuare a spostare per poter leggere i titoli e gli autori. Mi guardi, sento che mi stai osservando e non so se far finta di niente o se voltarmi e sorriderti.
Faccio finta di niente.
Sistemo gli occhiali sul naso e riprendo la ricerca.
Perché mi stai fissando? Dannazione, non ti conosco nemmeno: non guardarmi.
O ti conosco e magari non mi ricordo di te? Forse stai aspettando che ti saluti io? Che mi venga in mente chi tu sia? Ti guardo attraverso gli spazi vuoti lasciati dai libri: no, non ti conosco. Sono sicura di non averti mai visto. Mi osservi anche tu e io mi ritiro subito. Smettila.
Sei appoggiato al muro e invece che leggere il volume che hai in mano guardi me. Vorrei venire da te e intimarti di piantarla, ma non lo faccio.
Alle elementari mi dicevano sempre che ero troppo timida e che se non mi fossi data una mossa non avrei mai trovato un migliore amico, o una migliore amica. Bugie: una vita sociale sono riuscita a costruirla, con fatica –chi dice di no?-, ma ce l’ho fatta. Ho, più o meno, superato la mia timidezza, ma questo non significa che io possa fare passi da gigante verso di te e dire: “Ehi, scusa, puoi tornare al tuo stupido volume e non fissarmi più?”.
Continuo a fingere di ignorarti mentre ti lancio occhiate curiose: hai gli occhi scuri come la pece e i capelli dello stesso colore, la pelle chiara, troppo chiara e un accenno di barba. Sei alto, lo sei tanto, forse troppo e sei magro allo stesso modo. Mi chiedo se tu sia malato. Mi lanci un sorriso senza scoprire i denti, per poco non inciampo in un mobile, mi ricompongo e riprendo a muovermi normalmente.
Tiri fuori dalla borsa di cuoio che hai a tracolla degli occhiali tondi, come quelli di Harry Potter, solo che la montatura sulle lenti non l’hanno: hanno solo quelle stanghette che tengono un vetro unito all’altro. Ti metti a leggere e ora sono io che guardo te. Inclino appena la testa, ti osservo fra i libri, cambiando posizione, postazione, angolazione. Mi muovo con calma e cerco di non dare nell’occhio. So che sei consapevole che ti stia guardando. Faccio finta di niente anche su questo. Sei bello. E’ vero, lo sei. Con il colore dei tuoi occhi che potrebbe mischiarsi a quello dell’inchiostro delle pagine che stai leggendo.
Classici.
Eccomi arrivata.
I Miserabili.
Sorrido, ti guardo un’ultima volta e mi allontano.
Cinque passi e qualcuno mi prende la mano, mi volto. Mi guardi, hai gli occhiali ancora indosso e un sorriso si fa spazio sul tuo viso. Hai le lentiggini.
“Disturbo?” mi chiedi.
Non so cosa dire per qualche attimo. “No” rispondo poi, sentendo nel petto una sensazione assolutamente nuova per me: so di doverti ascoltare, sento che sarà la decisione giusta.
“Ti ho preso questo libro, l’ho pagato poco fa” me lo porgi. Come un romanzo, Daniel Pennac.
“Perché?” non lo prendo, abbasso lo sguardo su di esso: la copertina è un disegno a sfondo blu.
“Perché no?” ribatti ed io incrocio i tuoi occhi.
“Non sai nemmeno chi sono” fai spallucce, ti osservo titubante. “Perché mi fissavi?”
“Potrei farti la stessa domanda” ora sorridi scoprendo i denti e io divento rossa in volto, stringo le labbra inclinandole verso l’alto, prendo il libro, faccio per portarlo verso di me, ma tu lo trattieni. “Prometti che lo leggerai”
Ti guardo. “Anche se lo facessi non potrai mai sapere se l’abbia sfogliato o meno: non ci conosciamo” osservo prontamente.
“Lo saprò, puoi star sicura che lo saprò” sussurri appena, sempre con le labbra volte all’insù, mi superi e io ti guardo andar via.
 
 
 
***
 
 
 
Sono passate tre settimane. Ho letto I Miserabili, lo appoggio sul comodino e un libro con la copertina blu fa capolino davanti a me. Sorrido e ti penso. Lo apro. E’ corto. Anche i capitoli lo sono. Lo giro: i diritti del lettore. Li leggo e rido fra me e me.
Decido di iniziarlo, così, tanto per: non ho nessun libro particolare a cui dedicarmi al momento; passano dieci minuti –o forse è un’ora? Ho perso la cognizione del tempo-, ne passano altri dieci –o forse è una mezz’ora?- e lo finisco. Arrivo all’ultima pagina. C’è il tuo numero di telefono accompagnato da una scritta:
Per la ragazza con gli occhiali: chiamami quando l’hai finito, ci conto. A presto, il ragazzo con gli occhiali”;
che dedica idiota. Eppure ti chiamo. Compongo il numero, non so perché, non so per quale ragione, ma la stessa sensazione che avevo provato alla libreria mi avvolge ancora.
Rispondi sei squilli dopo. “Pronto?” hai il tono leggermente rauco.
“Ragazzo con gli occhiali?” chiedo, per sicurezza.
Ti schiarisci la voce. “Hai letto il libro?” mi domandi: sai già chi sono.
“Sì” rispondo con un sorriso. “E’ molto bello”
Ridi. “Sapevo che ti sarebbe piaciuto”
Silenzio.
Ascoltiamo uno il respiro dell’altra per qualche minuto. “Come ti chiami?” chiedo io finalmente.
“Che ne dici se facciamo una cosa?” ignori la mia domanda e mi fai un po’ innervosire.
“Che cosa?” storto appena il naso e mi sistemo gli occhiali.
“Te lo dico di persona, come mi chiamo” rispondi.
Mh?” faccio, chiedendoti di andare avanti. “Mi stai invitando ad un appuntamento, ragazzo sconosciuto?” ridacchio e tu fai lo stesso.
“Non proprio: diciamo che io domani, dalle due alle tre sono al bar in centro, se vuoi passare mi trovi lì, se no ci incontreremo in un’altra vita” posso vederti fare spallucce.
“E’ un comportamento un po’ strano, non ti pare?”
Ridi, di nuovo. “E’ un comportamento da romanzo romantico” ribatti e io sorrido.
Non dico più una parola, allora parli tu. “Se mi vuoi incontrare, mi trovi lì” ancora qualche secondo di silenzio e poi riattacchi, mentre io resto in linea, nel frattempo fisso il vuoto, senza saper bene come comportarmi.
Ci vengo o non ci vengo domani, al bar?
 
 
 
***
 
 
 
E alla fine ci vengo.
Ho il libro sottobraccio, una sciarpa pesante nera e un cappotto rosso, come quello di Amélie, cammino a passi svelti. Arrivo e ti intravedo dal vetro, mi nascondo dietro un piccolo albero e ti osservo per un po’. Leggi un libro mentre sorseggi qualcosa, scommetto che è caffè, guardi l’ora, la guardo anch’io: sono le due e cinquantacinque. Sbuffi. Eppure vederti lì mi fa sentire così fiduciosa, così felice: pensavo che non saresti venuto. Inizio a camminare in tondo, senza saper bene come comportarmi. Pensavo che percorrere la strada sarebbe stato il passo più difficile e, invece, mi sbagliavo: come faccio a fare quelle ultime falcate che mi conducono a te? Sono le tre e ti alzi dal tavolo, mentre io continuo a muovermi, indecisa sul da farsi. Vai a pagare ed esci. Il cuore inizia a battermi più forte e la parte razionale di me si chiede perché: perché diamine dovrebbe interessarmi di te, che nemmeno ti conosco? Perché dovrebbe importarmi dei tuoi sentimenti? Di poterti ferire? Di poterti far soffrire? E soprattutto: perché tu dovresti soffrire? Perché io potrei ferirti? Non ci conosciamo.
Non ci conosciamo, ma vedendoti camminare lontano da me tremo appena –e non per il freddo-, mi si ferma per un momento il respiro e senza pensarci inizio a correre. Ma che sto facendo? Ma che ne so, è importante saperlo?
Ti prendo la mano e ti faccio voltare, tu mi guardi e sgrani quegli occhi color pece: non indossi gli occhiali. Ti porgo il libro, mentre tieni la presa salda su di me, passa qualche secondo e sorridi. “Pensavo non saresti venuta”
“Lo pensavo anch’io” e non so se sto parlando di me o di te.
I nostri respiri creano delle nuvolette di vapore nell’aria. “Quindi ti è piaciuto?” noto che hai un orecchino all’orecchio destro. Annuisco. “Era questo che volevo fare” mi dici.
“Questo?” domando senza aver capito.
“Rendere la nostra storia un po’ come un romanzo”
“Ma il libro non parla d’amore”
Fai spallucce. “Come un romanzo in senso letterale e poi parla d’amore per la lettura: non è forse questo per il quale ci siamo conosciuti?”
Scuoto la testa. “Veramente non ci conosciamo: non so nemmeno il tuo nome”
E tu me lo dici, come ti chiami, con voce bassa, come se fosse un segreto.
E io sorrido.
  
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