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Autore: Ligeia    30/01/2005    1 recensioni
Tutto in una notte, illuminati dalla luce al neon di un bar. Due personaggi si incontrano, si scontrano e si allontanano. Storia ambientata nel periodo iniziale della 3a serie, a partire da 3x01 Annie. A fare da colonna sonora "Hotel California", degli Eagles.
Genere: Dark, Drammatico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Buffy Anne Summers
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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HOTEL CALIFORNIA

 

I heard the mission bell  - Io udii il campanello d’allarme


And I was thinking to myself - Mentre pensavo tra me e me

 
'This could be heaven or this could be Hell’ - questo può essere il paradiso o può essere l’inferno

 
Then she lit up a candle and she showed me the way - Poi lei accese la candela e mi mostrò la strada

 
There were voices down the corridor, - C’erano delle voci in fondo al corridoio


I thought I heard them say... - Credevo dicessero…

Welcome to the Hotel California
- Benvenuto all’hotel California


Such a lovely place - Un posto così amabile


Such a lovely face. - Un volto così amabile


Plenty of room at the Hotel California - Ci sono tante camere all’Hotel California


Any time of year you can find it here  - In ogni momento dell’anno puoi trovarne una



 

Un vicolo buio e deserto, poi una pesante porta in lamiera, cigolante e arrugginita, che da su una sorta di stretta anticamera mal illuminata.

Dalla stanza a fianco filtra una fitta calotta di fumo, il cui odore acre impregna i muri ingrigiti e soffoca, in un primo istante, chiunque varchi la soglia. Allora il nuovo arrivato strizza gli occhi e trattiene un attimo il respiro, se è la prima volta che entra si lascia scappare anche un tossicchiare sommesso, ma lo sperdimento lascia poco dopo spazio al primo stadio dell’annebbiamento dei sensi: lo scopo per cui chiunque è lì.

Probabilmente poi si infilerà una mano in tasca, estraendone qualche banconota sdrucita e spiegazzata da passare al buttafuori: un lasciapassare tanto rapido quanto sicuro, un segreto degli abituè diventato prassi.

A questo punto il nostro nuovo venuto si getterà con passo sicuro nella sala adiacente, dove lo stesso fumo che prima lo aveva stordito acquista le sfumature giallastre della luce al neon e la musica, un lamento contaminato dall’hard, si sostituisce al silenzio soffocante del vicolo di poco prima.

Non ci mette molto a disperdersi tra la folla di visi: sconosciuto tra gli sconosciuti, rinnegato tra i rinnegati, accolto in una quiete molto meno percepibile di quella da cui fugge: quella dell’anima.

Tutto questo appare il bar a una prima occhiata, ma non è nemmeno un pallido barlume della sua vera e profonda essenza: diversa per ciascuno e uguale per tutti, che ne impregna come una muffa le pareti e come uno stridio i rumori, che eccita, confonde e inorridisce, sino a quando non finisce per lasciare completamente indifferenti.

 

Con queste considerazioni in mente una figura minuta, che sembrerebbe non avere nulla da spartire con gli altri avventori, entra con il passo rapido e lo sguardo freddo di chi ormai varca quella soglia senza nemmeno sperare di ricevere ciò che il posto promette.

Si è chiesta spesso perché, ogni notte, sia quel locale, quello squallido e sporco bar, ad essere la meta primaria, l’appuntamento inderogabile, la droga, di un fiume di anime perse, a cavallo tra la dannazione e la vita ordinaria.

Ha visto sfilare, come in una bizzarra processione di mostri, demoni, vampiri, ma anche borghesucci di mezza età, donne bruciate dall’alcol, manager ridotti in disgrazia - Cosa ci faceva lì quell’accozzaglia informe di persone non accomunate da nulla se non dalla loro stessa assidua presenza?

Solo dopo un paio di serate là dentro la risposta le è apparsa chiara, ovvia, quasi scontata: non è il luogo, non la musica, il fumo, ciò che ci si può procurare con gli agganci giusti e nemmeno l’alcol o il sangue a buon prezzo.

No, non è qualcosa di materiale: è una sorta di strano batterio che impregna l’aria, che contagia le menti e le incatena alla sensazione di putrida sicurezza, di profonda simbiosi e di perfetta e silenziosa armonia - non con sé stessi certo- ma almeno con ciò e con chi sta attorno.

E proprio questa è la materia viva del locale, senza la quale sarebbe solo una bettola buia come tante: tutte le vite che ci gravitano attorno.

 

Alcune per bisogno, altre per passione, altre ancora solo per abitudine.

 

Tutta la carne umana, demoniaca, di questo o del mondo sotterraneo.

 

Al di là delle dicerie, dei misteri, delle idee che circolano intorno al bar, ogni cosa si riduce solo e unicamente allo strano miscuglio di vita e morte, oblio e condivisione che si sono impastati insieme scegliendo, tra tanti, proprio un locale malfamato in fondo a un vicolo.

 

Una volta capito risulta facile, quasi banale, rimetterci piede senza farsi infettare dal morbo, riflettendoci né buono nè cattivo, proprio come ogni malattia, che infetta i frequentatori: la speranza di trovare lì, finalmente, la pace.

 

Ma ritorniamo a noi, alla ragazza che è entrata svelando a sé stessa ancora una volta i profondi segreti del bar, scoperti e serbati notte dopo notte: si è diretta al bancone, una tavola di legno scuro, sempre bagnata di alcol, sangue e altre bevande gradite ai clienti.

 

Fece un cenno col capo al barista, che ricambiò con un bieco sorriso, prima di gettarsi uno straccio umido sulla spalla e di servire l’ennesimo bicchiere a un uomo ormai semiriverso sul tavolo a cui sedeva.

Senza darsi la benché minima occhiata intorno la giovane entrò in un ripostiglio buio, chiudendosi la porta alle spalle e tagliando fuori, almeno in parte, il chiasso del locale adiacente: insopportabile per i primi quindici minuti, poi anche a quello ci si sarebbe assuefatti.

 

Alzò un braccio nell’oscurità, trovando a tentoni una cordicella in plastica che, tirata, fece accendere una fioca lampadina, oscillante dal soffitto con un leggero cigolio. Nessuna finestra che desse sull’esterno, quella era l’unica illuminazione che il suo rozzo rifugio concedesse; tuttavia non ci fece caso: in fondo non aveva bisogno di luce per togliersi il cappotto e prepararsi.

 

Appese il soprabito lungo e di pelle scura ad un appendino, con un’attenzione che contrastava visibilmente con l’indifferenza ostentata verso tutto ciò che la circondava, ed estrasse da uno stretto armadio in legno un piccolo coltello a serramanico, che infilò nella tasca posteriore dei suoi jeans neri e scoloriti insieme ad un paletto. Aveva imparato a sue spese che era meglio essere sempre prudenti.

 

Aprì del tutto l’anta dell’unico pezzo di mobilio della stanza, per osservare qualche attimo il suo viso, riflesso in uno specchio per metà coperto di adesivi di ogni tipo: carnagione chiara, in netto contrasto con le labbra sottili e sottolineate da un pesante rossetto rosso scuro, matita nera sotto gli occhi, non con una riga troppo spessa però, strano accorgimento al quale nessuno avrebbe fatto caso, e capelli lisci e corvini, che le arrivavano un poco oltre le spalle, lasciati sciolti a ricaderle intorno alle guance.

Si avvicinò al vetro, strofinando un dito sul sopracciglio destro, diviso da un taglio verticale che faticava a rimarginarsi.

Alzò le spalle e richiuse senza troppa delicatezza l’anta, sistemandosi la maglietta con la scritta bianca I © L.A. che spuntava da sotto la camicia aperta.

 

Senza indugiare oltre aprì la porta, tirando contemporaneamente il filo della lampadina: la stanza fu invasa dal frastuono esterno e, quando la ragazza uscì, ripiombò nell’oscurità silenziosa.

 

-

 

Le sue orecchie furono invase da rumori di ogni tipo: un tizio seduto al bancone urlava la sua ordinazione superalcolica già del tutto ubriaco, il barista girava verso l’alto la manopola che regolava il volume dello stereo acceso, aggiustando la posizione della cassa più vicina, la porta sbatteva lasciando entrare una schiera di demoni borchiati, il cui clangore di catene metalliche risuonava seguendo l’andare barcollante e deciso dei loro passi.

 

Se in quell’istante avesse chiuso gli occhi avrebbe anche potuto immaginare di essere in un incubo da film, dove il protagonista si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Così fece ma, come ogni notte da quando era lì, riaprendoli i mostri non sparivano e lei era sempre lì, ferma, in piedi, a guardarli.

 

Fu interrotta dopo qualche attimo dalla voce del suo capo:

“ehy bellezza, non ti pago per guardare i clienti - le si avvicinò, con passo più cauto di quanto non stradisse il tono di poco prima, per cederle lo straccio che portava sulla spalla - io vado nel magazzino, stai tu al banco” pronunciò quelle parole con una sfumatura che indicava il fatto che non avrebbe ammesso nessun disturbo.

 

Fissando per qualche attimo studiato la mano che le porgeva il pezzo di stoffa, lo prese, annuendo solo con la testa e dirigendosi semplicemente vicino alla zona dove i clienti facevano le loro ordinazioni.

 

Sbuffando e scotendo le braccia in modo teatrale cosicché tutti potessero notarlo, l’uomo sparì nel retro del locale, chiudendosi velocemente la porta alle spalle.

 

-

 

La nuova figura al banco non sembrò suscitare alcun interesse né in chi entrava né in chi aveva già preso posto al tavolo: come se la conoscessero, se sapessero che la sua situazione non era diversa dalla loro, che anche lei non cercava, inconsciamente, altro che il loro stesso oblio.

 

Passò la pezza umida sul piano in legno, asciugando il liquore nel quale quasi galleggiavano due bicchieri vuoti, frutto dell’ultimo servizio del barista assente.

Li risciacquò sotto un getto di acqua corrente, facendo scorrere le dita sui fondi scheggiati prima di posarli accanto agli altri sul ripiano, senza nemmeno accorgersi del taglio superficiale che le aveva inciso l’estremità dell’indice.

 

“sangue, caldo”

 

una voce roca la indusse a voltarsi

 

Uno strano individuo dall’aria sospettosa aveva appoggiato pesantemente le braccia sul bancone, sporgendosi il più possibile verso di lei. I capelli gli ricadevano lunghi e sporchi davanti al viso, senza tuttavia nascondere ad un occhio esperto i lineamenti demoniaci.

 

“non ho tempo da perdere ragazzina, fa svelta. Ho i soldi” pronunciò queste parole quasi con disprezzo, e lei fu colpita dal suo alito pesante, di sigaretta e alcol.

Alzò lo sguardo solo un istante, per afferrare la banconota spiegazzata da due dollari e infilarla nel cassetto sotto il primo ripiano.

 

Il vampiro ora si guardava intorno, circospetto, con i pugni stretti e il respiro rauco e leggermente affannato.

 

Lei prese un boccale da birra, posizionandolo sotto una sorta di rudimentale erogatore che, aperto, vi lasciava zampillare all’interno un filo rosso, scuro e denso.

L’odore dolciastro e ferroso del sangue caldo le fece venire la nausea: girò con forza la manopola in plastica, poggiando davanti al cliente il grande bicchiere colmo. Il dito tagliato lasciò un’impronta carminia sul vetro strisciato, attirando sulla sua mano lo sguardo ipnotizzato del demone, che non si staccò nemmeno dopo che la fece scomparire sotto lo straccio.

 

Quello afferrò con desiderio smanioso e non più trattenuto il boccale, portandolo avidamente alle labbra ed emettendo, dopo lunghe sorsate, suoni gutturali: un rivolo porpora gli colò lungo il mento e ciò non fece altro che acuire il senso di repulsione di lei, che si voltò quasi di scatto non riuscendo a sopportare lo spettacolo.

Sentì il paletto pungerle l’anca ma frenò l’istinto di afferrarlo: quel vampiro stava scappando da qualcosa – o, meglio, da qualcuno – e ci avrebbe certo pensato questo qualcun altro ad eliminarlo, senza contare che, da come si ingozzava, non  aveva una vittima da tempo e, trovandosi lì, evidentemente non ne avrebbe cercata una nemmeno quella notte.

 

In ogni caso non era mai riuscita a reprimere del tutto il ribrezzo nel servire i vampiri, anche quelli che sapeva ad un passo dal diventare polvere. Il barista era stato chiaro quando la aveva assunta: non voleva problemi – di nessun genere – né lamentele da parte dei clienti.

 

Lo sentì mugolare soddisfatto e posare con troppa foga il bicchiere, sbattendolo sul piano di legno graffiato.

 

“un altro”

di nuovo la stessa voce, poi il suono di una banconota sprimacciata.

 

Questa volta non osservandolo neppure, prese il recipiente senza rispondere per riempirlo nuovamente.

 

D’un tratto una mano si chiuse sul suo braccio teso verso il rubinetto dell’erogatore, facendo sì che lei si fermasse, lanciando al barista uno sguardo di sorpresa mista a un tacito ammonimento, che lo indusse a mollare al presa per spostarla tuttavia sul pezzo di vetreria vuoto.

 

Girò la manopola e si apprestò a preparare lui stesso la nuova ordinazione, avvicinando però il capo a quello della ragazza per sussurrarle a bassa voce, in modo da non farsi sentire dal cliente

“non sputare nel piatto in cui mangi piccola, e cerca di fare conversazione per Dio, le informazioni di un fuggiasco sono attendibili e fruttano bene, te l’ho già detto” soffiò

 

In contemporanea con l’ultima parola pronunciata mosse leggermente verso di sé la chiusura e il flusso di liquido si fermò, riscotendo dal suo stato di languido torpore il vampiro, che non aveva mai distolto lo sguardo voglioso.

 

Nel poggiargli davanti il boccale quasi fumante, il barista incrociò braccia sul banco, sino ad arrivare ad un palmo dal viso del cliente che, questa volta, indugiò prima di avventarsi sul sangue.

 

“allora, nottata tranquilla…….”

 

Le voci si persero sempre più lontane nel frastuono della sala non appena lei si allontanò, tornando a dare le spalle al centro della sala e riflettendosi quasi involontariamente nel fondo specchiato del mobile a scaffali poggiato al muro: espediente accorto per non perdere mai di vista il disparato assortimento di creature sedute ai tavoli.

 

Rimase voltata, incuriosita dai visi che sembravano in apparenza così poco distanti dal suo: le era sempre piaciuto studiare gli altri senza essere notata, seguire con lo sguardo un particolare individuo, non perderlo di vista nemmeno quando si accorgeva di essere osservato.

 

Le dava uno strano senso di potere che non provava mai nella sua vita alla luce del giorno.

 

Pensandoci bene, non ricordava nemmeno di averlo cercato, almeno prima del suo arrivo a Los Angeles…

 Ma quella era un’altra realtà, dove la sua forza cessava con i primi raggi del sole per lasciare posto ad una persona che poteva ormai considerare morta.

 

Definitivamente.

 

*     *     *

 

il bar era aperto ormai da qualche ora: alle nove già una piccola ressa aveva affollato l’ingresso, adesso invece solo qualche ombra guardinga si infilava nella stretta entrata.

Non si poteva dire che il movimento l’ intorno fosse notevole, anzi, nessun passante si era nemmeno accorto della presenza di quel posto; solo chi sapeva esattamente cosa cercare ci arrivava senza esitazione.

Una figura in nero, intabarrata in un giubbotto scuro che la rendeva quasi invisibile nell’ombra, se ne stava appoggiata con una spalla al muro della casa da lato opposto della strada e non aveva perso d’occhio un attimo la porta tagliafuoco, che sembrava chiudere dietro di sé un mondo a parte.

Inspirò profondamente: le piaceva la notte, l’odore di umidità che impregnava l’aria, il silenzio rotto solo dall’ululare lontano di qualche sirena. Ma lì sembrava che un enorme voragine buia avesse inghiottito quel genere di cose, sostituendole con una desolazione che non aveva nulla di vitale, nulla di poetico o di anche lontanamente riconducibile al tipo di sensazione che l’oscurità in genere le trasmetteva.

Più si guardava intorno più se ne convinceva.

Gettò a terra la sigaretta fumata fino al filtro: era più forte di lei, non riusciva a fermarsi sino a che il calore della brace non le scaldava le dita e il profumo dolce-amaro della carta bruciata si tramutava nell’odore acre della plastica fusa.

Schiacciò il mozzicone sotto il tacco, tenendo lo sguardo puntato al vicolo: la strada che la separava da quella porta semicelata dalla notte era umida della pioggia della giornata, mentre i tombini soffiavano piccole colonne di fumo chiaro, illuminato per qualche attimo dai fari e poi disperso dallo sfrecciare di qualche rara auto, le cui ruote spruzzavano schizzi d’acqua sporca e fangosa sino al marciapiede.

Estrasse una mano dalla tasca dei jeans, infilandosi in bocca una cewin-gum: il sapore di menta forte le arrivò sino in gola eliminando, almeno in parte, il gusto di sigaretta.

Dopo aver masticato più volte dischiuse le dita, che stringevano una fotografia ormai spiegazzata e coperta degli aloni di sudore lasciati dai polpastrelli: se la portò vicino al viso, osservando  i lineamenti, appena distinguibili nella penombra, di una ragazzina bionda e sorridente, che non dimostrava più di diciassette anni.

Senza più esitare nascose l’immagine nel retro dei pantaloni sdruciti e attraversò la strada, guardandosi intorno con sospetto, anche se nemmeno una macchina aveva più percorso quella via di periferia da almeno mezzora.

Non le piaceva quel posto, lo aveva pensato appena scesa dal taxi al quale aveva indicato un indirizzo a lei sconosciuto, ma che ora aveva acquisito una forma distinta.

C’era una strana atmosfera, una sorta di cappa, che ricopriva e rendeva opaca ogni cosa: i visi dei tizi che aveva osservato varcare la soglia, per esempio.

Non ne ricordava nemmeno uno, anche se aveva tentato di imprimerseli nella memoria, pur senza un motivo preciso

A mano a mano che la porta si faceva più vicina e il risuonare dei suoi passi nel silenzio più assordante, le sue dita stringevano sempre più convulsamente la foto che teneva in tasca, quasi come fosse un portafortuna: il viso di una ragazza sconosciuta era l’unica cosa reale e ancora definita in un mondo che sembrava aver perso nitidezza.

D’un tratto l’entrata che aveva visto aprirsi più volte quella notte si trovava a un passo da lei.

Afferrò la maniglia, tirandola con decisione verso il basso.

 

*     *     *

 

servì l’ennesimo cliente di quella sera, poggiandogli davanti un bicchiere colmo di ghiaccio, che riempì con attenzione fino all’orlo senza far fuoriuscire una goccia. Anche di quel gesto misurato nessuno si sarebbe accorto; lo dimostrò la presa maldestra dell’uomo sulla trentina e vestito da motociclista, la cui mano oscillò vistosamente, versando il liquido ambrato sul bancone.

Senza guardarlo in faccia, la ragazza asciugò le gocce con una mossa nervosa che avrebbe potuto offendere l’avventore, se non fosse stato troppo distratto a tracannare l’ordinazione.

Lei diede  nuovamente le spalle alla clientela che continuava ad affollare, chiassosa, il locale, tuffando le mani in una sorta di grande lavello, pieno di bicchieri sporchi. Il contatto con l’acqua calda e squamosa a causa del detersivo la fece trasalire qualche attimo, poi iniziò a sciacquare con accuratezza il vetro. Lo faceva senza guardare: mentre lavorava con le braccia immerse nella schiuma i suoi occhi non si staccavano mai dallo specchio che le stava di fronte, dandole piena visuale su chiunque entrasse e uscisse dal locale.

Un strano demone squamato varcò la soglia, seguito da alcuni vampiri che si guardavano intorno con aria circospetta: prima ancora che potesse anche solo formulare un pensiero negativo sui nuovi venuti il barista fu loro incontro, facendo sì che l’attenzione di lei si spostasse su una coppia, che invece si apprestava ad uscire. Un ragazzo sui venticinque anni, con capelli cortissimi e una maglietta verde aderente, che aveva bevuto solo una tequila con aria nervosa, e una donna dalla carnagione insolitamente pallida: un soldato e la sua non morta della serata.

I loro sguardi tradivano sempre una nota fredda, qualsiasi fosse l’emozione del momento; una sorta di desiderio insoddisfatto e latente, seguito dalla consapevolezza che la loro stessa necessità li avrebbe di certo riportati lì la notte successiva, e quella dopo ancora.

Insoddisfazione e consapevolezza: ecco cosa accomunava ogni frequentatore, nessuno escluso.

Stava per abbassare lo sguardo, di nuovo indifferente, quando entrò una ragazza. C’era qualcosa di diverso in lei, qualcosa che non esisteva in un posto simile. La osservò guardarsi intorno e percepì il suo disagio nel notare che ogni cliente aveva puntato l’attenzione su di lei, come nei vecchi film, quando Clint Eastwood entra nel saloon. Solo che nei suoi occhi si leggeva solo circospezione e sperdimento, a guardar bene anche una punta di disprezzo per il luogo, ma nessuna traccia di alcun desiderio soddisfabile la dentro.

Tuttavia il silenzio, o meglio la musica a tutto volume senza più brusio incessante delle voci, non durò più di qualche secondo: una delle regole non scritte rispettate dai frequentatori era quella di non fare e di non farsi domande.

Lei rimase voltata, fingendo di risciacquare l’ennesimo bicchiere e stando attenta a non incrociare il riflesso dello sguardo della nuova entrata. Ma c’era qualcosa nella ragazza che le trasmetteva una sensazione famigliare: non riguardava il suo viso, bello e curato quanto a lei sconosciuto; piuttosto il suo modo di muoversi, misurato e baldanzoso al tempo stesso, e la sua espressione più curiosa che stupita nell’osservare il numero di demoni presenti nella stanza…

 

Una fitta al cuore, poi un brivido freddo

 

Un cacciatrice

 

Il nervosismo prese il sopravvento: cosa ci faceva lì una cacciatrice? Forse era solo di passaggio, ma per quale ragione entrare proprio in quel locale allora?

 

Passò immobile qualche attimo, con gli occhi puntati nello specchio. Lo sperdimento era passato, ora vedeva lucidamente cosa fare

 

nulla

 

si asciugò le mani, immerse sino a poco prima nell’acqua calda, con un straccio bianco e si avviò con passo misurato verso la zona più distante dall’ingresso, dove un demone incappucciato stava consumando la sua ordinazione.

 

Le luci in quell’angolo erano soffuse e il rumore meno forte: si cullò in quella parvenza di invisibilità, non rivolgendo più nemmeno un’occhiata alla ragazza che stava ancora all’ingresso.

 

*     *     *

una volta entrata il più era fatto.

Adesso era lì, in mezzo alla sala, muovendo gli occhi di tavolo in tavolo, senza ombra di vergogna. Era un covo di demoni come tanti altri, nulla di più, nulla di meno, anche se la clientela certo non mancava.

Strano, considerato il fatto che Los Angeles era sempre stata – da quanto sapeva – il torbido parco dei divertimenti di numerose famiglie di demoni.

 

Frugò attentamente con lo sguardo ogni figura, stupendosi in silenzio di trovare anche qualche umano a confondersi tra la piccola folla eterogenea.

 

Nemmeno una donna però, tranne qualche non morta.

 

Strinse in tasca la fotografia della ragazza bionda: la soffiata ricevuta dal consiglio si era di nuovo verificata essere una falsa pista.

 

Poi il suo sguardo si posò su qualcuno, seduto al banco

- no, forse non era stata una totale perdita di tempo –

 

*     *     *

protetta dalla penombra guardò di sottecchi la cacciatrice, che si avvicinava al vampiro servito da lei poco prima.

 

Le sfuggì un mezzo sorriso: ecco il motivo della sua fretta. Ed ecco anche svelata la causa di una visita così inaspettata come quella di una cacciatrice – di cui credeva essere cagione –

 

Un velo di indifferenza calò sui suoi occhi, che persero ogni curiosità, riprendendo la sfumatura fredda di sempre.

 

-prendi la tua preda e vattene cacciatrice – fu il suo ultimo pensiero rivolto alla giovane, poi tornò ad occuparsi dei clienti.

 

*     *     *

si sentì afferrare per un braccio da una stretta maschile, che la trascinò indietro di qualche passo sino ad un tavolo vuoto.

Un uomo sedeva davanti a lei, con un vassoio di plastica carico di bicchieri sporchi. Solo perché la sua mano aveva mollato la presa si impedì di reagire, rimanendo in silenzio ed aspettando che fosse quello a parlare

 

“non voglio risse nel mio locale cacciatrice” lo sentì bisbigliare in un sibilo “ posso fare in modo che il vampiro esca, ma lascia stare i clienti fissi e – lo osservò rivolgere un’occhiata all’angolo più buio del locale, dove un demone stava per essere servito- …” non terminò la frase, vistosamente nervoso.

 

*     *     *

aveva appena finito di versare un secondo cocktail all’avventore incappucciato vicino a lei, quando fece saettare di nuovo gli occhi attraverso la sala: cercò senza fretta tracce della presenza della cacciatrice, e notò invece il vampiro che usciva con passo incerto.

Lei doveva già essere fuori allora

 

Poteva quasi immaginare la scena: lei lo avrebbe aspettato, dietro la porta magari, con il paletto già in mano…

Poi la vide, seduta ad un tavolo isolato che confabulava con il barista, di cui colse una rapida quanto ansiosa occhiata nella sua direzione.

 

*     *     *

“non sogno qui per il vampiro – alzò gli occhi – beh…non solo per lui almeno – fissò il barista qualche attimo, come aveva visto fare negli interrogatori delle serie tv – sto cercando questa ragazza”

estratta dalla tasca stirò alla bellemeglio una fotografia, facendola scorrere sul tavolo verso di lui

“si chiama Buffy Summers”

 

l’uomo osservò per lunghi secondi senza cambiare espressione, e alla cacciatrice sembrò quasi di vedere, oltre i suoi occhi, il lavorio incessante della mente, mentre rifletteva sulla mossa migliore.

 

Capelli biondi raccolti indietro, nemmeno un filo di trucco e grandi occhi verdi, un sorriso appena accennato che le illuminava il viso: così si presentava la giovane ritratta in quella fotografia.

Nessuno avrebbe esitato a sostenere che il locale non era il posto giusto dove cercarla. A pensarci bene non sapeva neppure chi fosse: l’unica informazione che aveva ricevuto quando era partita da Boston era che il consiglio non era disposto a darla per dispersa.

 

Sbuffò: il suo aspetto era quello di una qualsiasi diciassettenne californiana senza troppi problemi seri per la testa, non certo di una mezza sbandata in grado di mettere a rischio i piani di un’organizzazione che combatteva demoni.

 

“allora?” si rivolse al barista, che si guardava intorno furtivamente senza più badare al ritratto

 

“andiamo bellezza, credi davvero che una bambolina del genere metta piede in un posto come questo? – aprì le braccia in modo plateale, indicando poi la porta, alzandosi – il tuo amico è uscito, se ti sbrighi riesci ancora a prenderlo”

prese il suo vassoio, poggiandolo sul bancone.

 

“ci sono altri bicchieri qui” gridò, per richiamare l’attenzione di qualcuno in fondo al locale.

 

*     *    *

Avvicinandosi ai boccali sporchi lasciati dal barista perché li pulisse, osservò la cacciatrice sporgersi oltre il banco, scrutare i clienti, e sorrise un poco e senza gioia nel notare l’espressione sempre più tesa del proprietario del locale.

Una tecnica un po’ banale – pensò – ma stava funzionando.

 

Il suo sguardo però tornò freddo a mano a mano che la penombra in cui si era nascosta da quando la nuova venuta era apparsa lasciava il posto alla luce giallastra e fumosa del neon: era sempre più vicina al vassoio.

Lasciando che i capelli le ricadessero ai lati del viso e abbassando la fronte allungò il braccio verso i bicchieri vuoti.

Poteva sentirla vicina, quella ragazza, percepiva il suo sguardo su di lei, che la vedeva senza riconoscerla. Non intendeva assolutamente incontrare i suoi occhi: ancora un attimo e poi sarebbe tornata a darle le spalle.

 

“ehy, hai una birra?” la cacciatrice si rivolse a lei, con il gomito appoggiato al bancone, fissando con curiosità mista a circospezione i clienti del locale e seguendo i movimenti del barista, che si era appena avvicinato ad uno dei vampiri seduti al tavolo e parlava con lui fittamente.

 

“certo” rispose in tono neutro. Fermatasi con il braccio a mezzaria lo ritrasse, voltandosi per prendere un bicchiere pulito.

 

Aprì un piccolo frigorifero posizionato sotto il piano di legno per estrarne una Beck’s gelata, che stappò con l’apribottiglie arrugginito preso da un cassetto aperto. Versò il contenuto della bottiglia nel boccale e poi lo poggiò vicino al braccio di lei, accorgendosi solo allora di essere fissata.

 

Non disse nulla, nemmeno il costo dell’ordinazione, ma ricambiò semplicemente lo sguardo, con l’indifferente freddezza che riservava a chiunque si trovasse là.

 

*     *     *

studiò ancora un attimo il viso inespressivo della ragazza che la aveva appena servita, pallido e di una serietà affilata che la induceva ad abbassare lo sguardo.

Solo gli occhi verdissimi lasciavano trasparire un spiraglio di emozione, che balenava solo per essere subito inghiottita da un gelido e collaudato distacco.

 

Estrasse di nuovo dalla tasca la fotografia sgualcita, facendola scorrere vicino alla birra, girata in modo che la ragazza davanti a lei la vedesse dal verso giusto.

 

“hai per caso mai visto…?”

 

…due occhi verdi…

 

solo quando la osservò posare lo sguardo sull’immagine la riconobbe.

 

E, nello stesso istante, si rese conto che lei lo aveva capito.

 

*     *     *

 

il freddo che la aveva investita percependo la presenza della cacciatrice la colpì di nuovo, facendola rabbrividire.

 

Quella foto…quando le diede un’occhiata sentì una nota stonata nella voce della sua interlocutrice.

 

La aveva riconosciuta.

 

*     *     *

 

le due si squadrarono, una davanti all’altra, senza parlare.

Una silenziosa lotta di sguardi per fissare le regole del gioco: la prima a rompere il contatto visivo sarebbe diventata la preda, destinata a soccombere al suo carnefice.

Non c’era espressione sui loro visi, ieraticamente immobili.

Le labbra della ragazza dietro il bancone si inarcarono verso l’alto mentre i suoi occhi diventarono, se possibile, ancora più gelidi.

Il sorriso si allargò, sino a diventare una controllata risata di scherno.

 

La cacciatrice continuava a fissarla, ma il suo viso perse la ferma sicurezza ostentata prima: quella davanti a lei, quella che le rideva in faccia, con i capelli neri e il trucco pesante, non era la stessa ragazzina della fotografia. I suoi occhi, anche i suoi occhi erano diversi, così come i lineamenti affilati e algidi.

 

La risata cessò, ma la bocca rimase inarcata in una smorfia cinicamente divertita.

Allungò la mano e prese la fotografia con due dita, portandosela di fianco al viso e inarcando leggermente un sopracciglio

“centro”

con un movimento dell’indice e del medio che stringevano il pezzo di carta, lo gettò lontano da sé con un gesto quasi teatrale, senza nemmeno guardare dove cadesse.

 

Gli occhi dell’altra invece ne seguirono la parabola fino alla sua conclusione, sotto l’erogatore di sangue.

“Buffy Summers – fu il suo unico commento, prima di osservarla senza vergogna da capo a piedi – io sono Faith”

 

Un’ombra di sorriso tornò a solcare il viso della presunta ragazza delle ordinazioni

“la nuova prescelta immagino, sei venuta per qualche consiglio o solo per una birra?”

Faith al fissò e Buffy potè leggere lo sperdimento nei suoi occhi.

Il suo sorriso si allargò.

Poggiò le mani sul bancone e si avvicinò al suo viso

“mi credevi una liceale scappata di casa?” le sussurrò lentamente all’orecchio

 

Faith indietreggiò di qualche passo, passando gli occhi da un lato all’altro della sala, sentendosi improvvisamente osservata.

 

Il contatto visivo era rotto e i ruoli assegnati: la cacciatrice sarebbe diventata la preda di chi era andata a catturare.

 

Il viso di Buffy tornò a contrarsi in una smorfia di rabbia misurata, sfiorandosi una guancia per tirare indietro una ciocca scura che le era ricaduta davanti agli occhi.

“insieme alla foto non ti hanno allegato un trafiletto con scritto ‘attenzione cacciatrice’?”

la guardò dall’alto in basso, soffermandosi con insano piacere sul volto disorientato

 

Faith scosse la testa. La sua voce suonava secca ed afona, forte di una nota decisa ma allo stesso tempo incredula:

“ce n’è solo una, una…”

 

fu interrotta da un risolino rabbioso

“…una per generazione? No bellezza, una per sostituire quella morta”

 

con la birra non ancora toccata davanti, Faith la guardava senza replicare. Dalla sua espressione traspariva una tiepida sorpresa, superata però da una più presente incomprensione di quanto le veniva detto.

 

Buffy la fissò, decidendosi,questa volta, a parlare senza la nota aggressiva con cui le si era rivolta fino ad allora.

“ma la tua domanda adesso è: perché allora ce ne sono due, vive?” le sorrise, quasi con simpatia, per poi darle le spalle ed iniziare ad asciugare un bicchiere.

Dopo qualche secondo si voltò di nuovo e il suo viso aveva riassunto la maschera di scherno che era stata smessa poco prima.

“tornatene al tuo inferno cacciatrice – scandì con insofferenza, lasciando intendere che non aveva intenzione di protrarre ulteriormente la conversazione – lascia perdere questa storia e tutto sarà di nuovo come prima di venire qui: combatterai, ucciderai, vincerai. E prima o poi verrai eliminata, come tutte, puoi solo sperare che succeda il più tardi possibile” pronunciò queste parole con chirurgico distacco.

 

“Il consiglio ti rivuole indietro” fu l’unica cosa che riuscì a replicare, sussurrandola con voce roca, tanto candidamente da sembrare ingenua.

 

Per un attimo gli occhi di Buffy brillarono di rabbia. Le si seccò la gola: il consiglio, il consiglio voleva riportarla a Sunnydale.

Non rispose, ma si limitò a fissare Faith con uno sguardo che lei non riuscì a decifrare: era cosa? Un avvertimento, una supplica…? Quegli occhi verdi, così diversi da quelle della diciassettenne della fotografia, sembravano rivolgerle ora una richiesta d’aiuto, ora una muta minaccia.

 

Così Faith si comportò nell’unico modi che ritenne possibile: prese il bicchiere di burra ancora posato sul banco e si diresse alla stesso tavolo dove poco prima era stata seduta con il barista. Tutto senza una parola, ma solo percependo la presenza quasi tangibile di quegli stessi occhi che, poteva immaginarlo, rimasero puntati su di lei sino a quando non  si sedette.

I loro sguardi rimasero uniti da un filo teso e invisibile ancora qualche secondo, poi, d’un tratto, quella che era stata Buffy Summers si allontanò con ostentata indifferenza, raggiungendo il suo capo dalla parte opposta del locale.

 

*     *     *

La luce era fioca, tuttavia Faith aveva la sensazione di distinguere ogni più piccola imperfezione del legno che formava, con le altre, un fitto intrico di simboli a cui dava un senso. Una fenditura orizzontale si incontrava con tanti strisci verticali: appena sopra si distingueva perfettamente un a casina. Una casina e il suo steccato.

Scosse la testa, incrociando le braccia sulle crepe del legno e bevendo un altro sorso di birra.

 

*     *     *

Per l’ennesima volta, impercettibilmente, Faith spostò gli occhi deal punto indefinito del muro al suo orologio da polso.

Chiuse gli occhi, poggiando la testa indietro, sul pannello in legno a cui dava le spalle, subito dietro la sedia, che formava, con uno parallelo, la stretta anticamera  al bar vero e proprio.

Il bicchiere era vuoto ormai davanti a lei, solo mezzo dito di schiuma bianca sul fondo.

Strizzò gli occhi, rompendo l’immobilità che si era imposta per strofinarli con le dita: le lacrimavano.

Si guardò intorno: uno dopo l’altro aveva visto  sfilare verso l’uscita quasi tutti i clienti e seguito con lo sguardo chi le avevano ordinato a trovare, mentre puliva i tavoli rimasti vuoti con una pezza umida e rimetteva a posto le sedie: tutto senza dire una parola, senza rivolgerle nemmeno un’occhiata che indicasse quantomeno il fatto che avesse notato che lei si trovava ancora lì.

Ad essere sinceri, nemmeno sapeva dire con certezza perché era rimasta. In fondo cosa le importava di quella ragazza? Credeva davvero alle sue parole? Eppure stava seduta in uno squallido bar di periferia e domandarsi se denunciarla senza nemmeno prendersi la briga di portarla lei stessa al Consiglio oppure comunicare che quella del bar era solo l’ennesima soffiata sbagliata e che lì non c’era nessuna diciassettenne dai capelli biondi.

C’era qualcosa in quella Buffy Summers, qualcosa di inquietante ma che allo stesso tempo non le permetteva di andarsene. Non prima almeno di aver risposto alle domande che prima le aveva sbattuto in faccia. Prima le era bastato sapere solo che lei era un prescelta e che, quindi, il suo destino era quello di combattere. Sempre e comunque. Certo, si era chiesta chi ci fosse stata prima di lei, ma poi l’istinto aveva preso il sopravvento: e questo le richiedeva solo di essere pronta ad usare il suo potere.

Adesso però c’era un altro interrogativo irrisolto, in fin dei conti l’unica cosa che la incuriosiva di ciò che le stava attorno: chi era stata Buffy Summers.

Come era finita una presunta cacciatrice a fare da cameriera in un bar per demoni? Cosa la aveva trascinata così in basso e perché voleva rimanerci?

Se c’era una cosa che aveva imparato da quando era stata attivata, era che una volta diventata cacciatrice, esserlo diventa parte del tuo essere, ti scorre come sangue nelle vene, influenza il tuo modo di pensare e di agire, diventa il tuo demone personale, non dissimile da quello che invade il corpo di ogni nuovo vampiro. Era stato il suo compito di cacciatrice a ridurla in quello stato, ad aprire sotto di lei il gorgo che la aveva annegata tra i suoi flutti?

 

Guardò di nuovo, furtivamente, in direzione di Buffy: letale, gelida e sconfitta.

 

Lei era stata mandata a cercare una ragazza, una diciassettenne scomparsa da una città satellite di Los Angeles, ma quella che aveva trovato era una donna. Una donna che sembrava aver già visto troppe cosa, vissuto sufficienti esperienze, una il cui viso trasudava stanchezza, stanchezza per tutto ciò che le stava attorno, forse anche della vita stessa.

C’era davvero dolore dietro quella freddezza? Non era mai stata brava nel giudicare le persone, né a comprendere il loro modo di agire, ma una cosa le era subito saltata agli occhi, colta epidermicamente ad un primo sguardo: in Buffy c’era qualcosa, qualcosa di più grande di lei, qualcosa di disprezzato ma inscindibile dal suo essere, una parte di lei che stava alla base della sua anima, percotendola senza pietà.

E Faith riusciva a sentire di cosa si trattasse.

Ci si riduceva in quello stato ad essere cacciatrici? Rimaneva davvero solo l’ombra di chi si era state, prima?

 

Aprì gli occhi, che aveva socchiuso per la stanchezza e per il bruciore causato da l fumo, e vide qualcuno, seduto davanti a lei con una sigaretta appena accesa tra le dita.

 

Il suo viso era in ombra, lasciandone però intravedere i lineamenti, solo le sue mani risultavano perfettamente visibili, perché poggiate sul tavolo con un’educazione di altri tempi, che stonava decisamente in un locale di quel tipo: non toccava nemmeno il piano,ma solo gli avambracci si puntavano sul bordo.

Le dita erano arrossate, le unghie smaltate di nero corte ma curate, i palmi e il dorso escoriati e purpurei. Tuttavia stringeva con forza la sigaretta tra l’indice e il medio, tirando boccate brevi e misurate e lasciando cadere la cenere per terra.

 

I suoi occhi erano fissi su di lei, come se indecisi sul da farsi, ma curiosi, probabilmente di scoprire perché Faith fosse ancora lì.

Rimase immobile e silenziosa per qualche attimo, fumando senza fretta: il suo respiro regolare, tranquillo, nell’espressione nulla che ricordasse né la rabbia né lo sperdimento che aveva provato nell’apprendere che il consiglio la stava cercando.

Finì la sigaretta senza dire un parola, fino al filtro –notò Faith- esattamente come faceva anche lei.

 

“perché sei ancora qui?” la sua voce atona non tradiva nulla, nemmeno più l’indifferenza di prima

 

“hai finito il turno?” Faith rispose con un’altra domanda, indicando con lo sguardo il barista, ancora intento a riporre i bicchieri sugli scaffali. Il bar semivuoto, le sedie già capovolte sui tavoli e solo qualche cliente ancora seduto al bancone.

 

“sì – si bloccò un attimo, riprendendo a poi a parlare con voce fiaccamente meccanica, con lo stesso tono con il quale chiedeva ai clienti l’ordinazione – rispondi alla mi a domanda”

solo gli occhi lasciavano trasparire la stanchezza, che sembrava aver lentamente preso possesso del suo corpo: non più rigido sulla sedia, ma adagiato ad aderire allo schienale.

Faith prese il suo bicchiere vuoto e se lo rigirò tra le mani: percepiva che era distrutta, che voleva tornarsene a casa o dovunque vivesse, ma sapeva che non lo avrebbe confessato.

E lei non glielo avrebbe permesso allora.

“voglio saperne di più e tu sembri informata” la fissò con malcelato interesse

 

Buffy vide il scintillio nei suoi occhi mentre le formulava quella domanda. Quasi sbuffò: quella ragazza, la nuova Cacciatrice, aveva qualcosa che lei, nemmeno agli inizi, aveva.il desiderio, la brama di possedere a pieno il potere insito nel compito di prescelta. Lo percepiva.                                                                                                                              

Lo aveva mai provato lei?

Fece una smorfia: “chiedi al consiglio, è per loro che lavori”

Vide Faith rabbuiarsi, frenando il suo slancio e la sua appena riacquistata spavalderia, la stessa che aveva ostentato entrando nel locale.

 

“mi hanno detto di riportarti indietro” fu tutto ciò che le rispose, con un’innocenza che mal nascondeva un’insita minaccia

“ a Sunnydale?” pronunciò la domanda tranquillamente, ma non riuscì a controllare una sfumatura tanto angosciata quanto malinconica nella voce                

 

la cacciatrice alzò le spalle, sprofondando ulteriormente sotto il tavolo

“non lo so – tamburellò due dita sul tavolo, guardandosi intorno – io dovevo solo ritrovarti” accennò ad un mezzo sorriso, carico di una sorta di canzonatorio disinteresse

 

Buffy si irrigidì guardandola, una fitta la colpì nel sentire la risposta. Ma durò un attimo, poi anche lei alzò le spalle, sorridendo con rabbia amara

“già. Non è tuo compito no?”

si sistemò una ciocca scura dietro l’orecchio, sul quale contava una lunga fila di orecchini, e ripresea fissare chissà cosa oltre le spalle di Faith.

Faith abbassò gli occhi, tornando a studiare le venature del tavolo.

 

Buffy si ritrovò a pensare che, se quella ragazza avesse prestato un minimo di attenzione, avrebbe percepito la sua vulnerabilità: sentiva di nuovo l’angoscia correrle lungo la spina dorsale, come un brivido ininterrotto. Avrebbe dovuto andarsene da Los Angeles, anche quella notte stessa, non appena si fosse liberata di lei. scappare di nuovo…ma dove andare? La risposta che subito le si affacciò alla mente un tempo la avrebbe sconvolta, ora sembrava tanto semplice quanto comoda: ovunque, tanto cosa cambiava?

Ripensò alla fotografia ancora a terra vicino all’erogatore: come era arrivata a ridursi in quello stato? A dover fuggire, a vivere come un’ombra? Dove era finita la ragazzina bionda che era stata…probabilmente sepolta sotto le macerie di un potere che la aveva sgretolata dall’interno, sino a non lasciare in lei altro che polvere, cenere e polvere. Certo, quella era solo una delle infinite risposte possibili. Gliene sarebbero venute in mente altre, altrettanto veritiere, nell’arco di quella notte. come ogni notte.

Prese impercettibilmente fiato, cercando di riprendere il controllo. Non era il caso di dare alla sua interlocutrice un altro punto di vantaggio a cui aggrapparsi.

Faith ruppe il silenzio raddrizzandosi sulla sedia e sporgendosi in avanti, verso le mani di Buffy, ancora posate sul tavolo. La sua voce era ridotta ad un sussurro, dopo un leggero sospiro prima di iniziare a parlare.

“senti…Buffy – pronunciò il suo nome con tono incerto, come se si fosse improvvisamente accorta di essersi concessa troppa familiarità rivolgendosi a lei in quel modo – io…- si guardò intorno quasi con imbarazzo – ehy, mi ci hanno mandato loro qui a cercarti, posso anche tornare indietro e dire che non ho trovato nessuno – riportò gli occhi sulla sua interlocutrice- per loro sarà solo un altro buco nell’acqua dopo settimane di ricerche”

 

per un attimo le sembrò quasi che Buffy stesse per scoppiare a ridere ma, dopo qualche secondo, vide la sua espressione tramutarsi solo in un sorriso tanto indifferente quanto divertito:

“e perchè dovresti farlo Faith?” si stupì lei stessa dell’inusitata famigliarità con cui si rivolgevano una all’altra.

Cos’era quella, una proposta d’aiuto? L’esasperazione causata dalla conversazione cresceva in lei, chiudendole la gola e irrigidendole le membra. Voleva solo essere lasciata sola, come avrebbe sempre dovuto essere stata.

 

Faith si prese un attimo per rispondere, lanciandole poi uno sguardo intenso, teso a sottolineare che intendeva davvero ciò che stava per dire: “perché non sono la portavoce di nessuno, tantomeno del consiglio”

 

Buffy rise di nuovo, amaramente però:

“ogni cacciatrice lo è, da secoli”

 

“anche tu allora” Faith alzò gli occhi con un mezzo sorriso

 

“lo sono stata, in passato” la sua risposta suonò dura quanto secca, da non ammettere repliche “e poi adesso ci se tu no? Dentro il nuovo e fuori il vecchio. Fatti onore” c’era scherno nella sua voce, diretto e plateale.

 

Faith la fissava con i gomiti sul tavolo: di fronte a lei stava un’altra cacciatrice. Un’altra che aveva assistito impotente allo scriversi del proprio destino ad opera di uno sconosciuto venuto da chissà dove, che le aveva messo in mano un paletto.

Poche persone in vita sua la avevano realmente colpita, indotta a provare la stessa fragilità che riusciva sempre a nascondere, e Buffy Summers ne era stata capace. Si ritrasse, scostando lo sguardo e strofinandosi il cinturino di cuoio che portava al polso.

 

Tra le due cadde un silenzio pesante quasi quanto la cappa di fumo che infestava la sala senza accennare a diradarsi, rotto poi dal rumore dell’acciaio sfregato di un accendino: Buffy tirò una boccata della sigaretta appena accesa, poggiando una mano su un pacchetto un po’ sgualcito di Lucky Strike. Non aveva smesso di osservare Faith.

Quando lei si decise a ricambiare lo sguardo, constatò che né nel viso affilato, incorniciato dai capelli corvini, né in quei modi così calcolati era rimasta traccia della diciassettenne della fotografia.

 

“sto provando a mettermi nei tuoi panni Faith – la sua voce suonava di nuovo priva di inflessione – e mi sembra proprio che tu sia finita in un bel casino”

 

“la mia missione era trovarti, per cui dovrei essere a buon punto invece” Faith alzò la testa con un mezzo sorriso che sottolineava il tono canzonatorio

 

“e tu pensi davvero di poterti solo – aprì leggermente le braccia, facendo cadere sul tavolo un po’ di cenere – alzare e andartene?” inarcò il sopracciglio dicendolo: non si aspettava una risposta.

 

Faith smise di guardarla, quasi avesse perso interesse in chi le stava davanti, e trovasse improvvisamente più attraenti le mosse dei pochi clienti rimasti

 

“pittoresco vero?- Buffy alzò le spalle con sufficienza svogliata – l’ho pensato anch’io la prima volta che sono entrata”

 

“cosa fai in un posto del genere” la domanda suonava più come un’affermazione. Lo sguardo di Faith vagava freddo per il locale, senza soffermarsi più di qualche istante su ciò che vedeva: dal barista di mezza età, con i capelli ormai grigi e tinti di nero, che indossava una sporca canottiera bianca sopra il grembiule, ai vampiri che sedevano al banco, stravolti dall’alcool, per concludere con i mobili da pochi soldi, ancora umidi della veloce passata ricevuta con la pezza bagnata e inconsuetamente ordinati rispetto a quando era entrata.

Lo squallore del vicolo era permeata in quel posto e infettava chiunque entrasse, come una muffa che si fa poi fatica a scrostare. E, in mezzo a questo, immersa fino al collo nella putrida solitudine che tutti lì cercavano di colmare, stava lei.

Se, con quell’affermazione, credeva di veder accendere qualcosa in Buffy le sue aspettative furono disattese. Lei si limitò a puntarle addosso uno sguardo freddo, incorniciato dall’impassibile ieraticità del viso.


”da quanto sei cacciatrice?” sussurrò l’ultima parola con una sorta di ormai distaccato disprezzo

 

“quattro mesi mi sembra” la domanda le suonò stranamente inconsueta

 

Buffy chiuse gli occhi: dalla morte di Kendra quindi. Uno dei pesi che si sarebbe portata sulle spalle in eterno.

“Non puoi capire quindi”

 

Faith si irrigidì: cosa non poteva capire? Il fatto di doversi sacrificare, di rischiare la vita ogni notte, di non essere più accettata e capita dagli amici? non che ne avesse mai avuti molti, comunque.

“cosa non posso capire Buffy? che la vita non è rosa come ti raccontano? Che è in palio ogni notte?”

 

la sua rabbia non fece altro che accendere quella di Buffy

“la morte –sussurrò – non puoi capire la morte. Lascia che ti racconti una storia Faith: io sono diventata cacciatrice due anni fa, ho combattuto contro demoni, vampiri e ogni sorta di mostro si trovasse a passare sulla bocca dell’inferno. Tutte le notti, senza mai poter dire basta. Posso immaginare come la pensi riguardo tutta la storia dell’essere prescelte, del poter dire di stare dalla parte giusta della barricata o roba del genere. Anch’io ero di questo parere sai? Voglio dire, suona così giusto mentre lo racconta il tuo osservatore no? Una per generazione, ed ero io – fissò Faith quasi con curiosità – scommetto che la cosa ti affascina ancora. Ti senti superiore vero? Credi di poter salvare il mondo e questo ti piace, ti fa sentire potente. –sorrise amaramente – non siamo in un film, il bene non vince sempre, a pensarci bene non è nemmeno questa la questione…” fu interrotta bruscamente


”…è una questione di potere infatti. E tu ce l’hai come ce l’ho io”

 

Buffy fece una smorfia

“perché sei diventata cacciatrice, te lo sei chiesto?”

 

Faith la fissò, in fondo le importava davvero? Alzò le spalle

“forse hanno deciso di attivarne un’altra per…”

 

“Il maestro di Sunnydale mi ha quasi ucciso un anno fa – spense la sigaretta sul tavolo, lasciando lì il mozzicone – il mio cuore si è fermato per alcune decine di secondi. Annegamento – sorrise freddamente, quasi volesse sfidarla ad ascoltare ancora – una profezia me lo aveva preannunciato sai? Ma anch’io avevo il potere ed era necessario che qualcuno fermasse l’ascensione. Avevo sedici anni. Sai cosa vuol dire decidere di mettere fine alla propria vita a sedici anni? – allontanò lo sguardo – un mese dopo è arrivata Kendra. Attivata dopo la mia presunta morte”

 

Faith corrugò la fronte

 

“anche lei aveva il potere, anche lei era stata scelta. Anche lei è morta, circa quattro mesi fa” pronunciò le ultime parole più lentamente, guardando Faith negli occhi “siamo carne da macello, tutto qui. Uccidiamo o veniamo uccise. Soffriamo o facciamo soffrire e poi ce ne andiamo e subito ne arriva un’altra. Il mondo non ne ha mai saputo niente. Dimmi Faith. È potere questo?”

 

Faith la fissò, non era in grado di articolare una parola. In fondo aveva sempre saputo quello che Buffy le aveva appena sbattuto in faccia. Carne da macello, era così che lei si sentiva?

Osservò la sua mano stretta a pugno sul tavolo: sentiva in lei il potere. Il potere di superare ogni notte, il potere di sopravvivere. Le sue unghie si conficcarono nella carne: cos’era stata prima di diventare cacciatrice?

 

Buffy fissò la sua interlocutrice: Faith aveva mai riflettuto seriamente sulla morte? Si era già trovata a farci in conti? Probabilmente non ancora. E probabilmente non aveva nemmeno cominciato a soffrire lei stessa a causa di quel morbo subdolo e letale che prima o poi le  avrebbe fatto da compagno: la solitudine.

 

Faith non sapeva cosa aggiungere, cosa dire o rispondere. Aveva mai visto una persona morire? Una vittima uccisa prima di essere riuscita a fermare il demone? In un attimo passò al vaglio ogni notte degli ultimi quattro mesi: no.

Non conosceva il tipo di morte di cui parlava Buffy, quello che sembrava aver portato il gelo sul suo viso.

Immaginò il volto del suo osservatore, ripensò ai suoi consigli: nemmeno in quelle parole aveva mai letto nulla di comparabile. Tutto ciò che le aveva insegnato era che esisteva il male e che lei, Faith, era nata per combatterlo. Tutto il suo mondo si basava sul semplice fatto che si trovava in una posizione privilegiata rispetto agli altri perché, nonostante fosse sempre la sua la vita in gioco, erano loro quelli che avevano bisogno del suo aiuto.

E nessuno ne aveva mai avuto bisogno, prima di diventare cacciatrice.

…gli altri: chiunque fossero questi “altri”. Potevano essere chiunque e non sarebbero mai stati nulla di più: solo atri, senza visi ne nomi, senza storie, ma solo vita pulsante che andava salvata in quanto tale.

 

Dalla parte opposta del tavolo, Buffy guardò la ragazza che le stava seduta di fronte: così giovane, come lei del resto. Già, solo due ragazze. Con una storia così diversa però. Le bastava cogliere il suo sguardo per capire che non era in grado di rispondere…probabilmente perché, anche se ciò che le aveva appena raccontato metteva in crisi quel postulato al quale era attaccata, tuttavia lei ci credeva ancora. Credeva ancora di avere il potere. Di essere invincibile, di essere immortale.

Sorrise amaramente, increspando appena le labbra. Si sentiva stanca, stanca fisicamente. Perché si era convinta a parlarle, perché le aveva raccontato di Kendra? A cosa era servito rivangare ricordi ormai sepolti sotto la cenere del suo animo corrotto? Corrotto dal mondo, dalla realtà che si era trovata ad affrontare e che non le aveva lasciato nulla.

Solo il vuoto. Il vuoto nel quale non aveva potuto fare altro che buttarsi.

Perché nessun potere combatte la solitudine.

Faith: nemmeno la solitudine la aveva toccata? Nemmeno lo strazio di camminare nel buio due passi avanti agli altri la aveva piegata?

Era bella. Era forte. Ancora illuminata dalla luce fatua della sfida. Una sfida che lei aveva perso quando era stata costretta ad uccidere l’unica persona che fosse riuscita a riempire il suo vuoto, o che almeno ne aveva fatto parte.

Lei, Buffy, aveva perso la sua sfida contro il mondo. In maniera inevitabile e definitiva. Era caduta e non sarebbe riuscita a rialzarsi.

 

“cosa hai voluto dirmi raccontandomi di quella cacciatrice?” Faith alzò lo sguardo verso di lei

 

“che non sei immortale Faith, che sei prigioniera e che lo sarai per sempre” pronunciò quelle poche parole velocemente, con un filo di voce nervosa.

Basta, basta. Pregava che tutto finisse, presto. Che quella ragazza si alzasse e uscisse dalla porta. Non le importava di dover cambiare di nuovo città, di dover ricominciare da capo. Bastava che se ne andasse.

Buffy si toccò la fronte con una mano, trovando momentaneo sollievo nel suo palmo freddo sulla pelle bollente.

 

“e questo basta per scappare? Per rintanarsi in un buco e rinunciare a tutto? Per smettere di combattere? Avrai una famiglia, qualcuno che tenga a te…” Faith continuava a parlare, come un fiume in piena che abbatte gli argini e travolge ogni cosa. Quasi non vide Buffy strofinarsi la fronte, quasi non si accorse che si era alzata.

Si bloccò. lei le dava le spalle.

 

Buffy si girò lentamente, respirava quasi con affanno, i capelli le ricadevano scomposti intorno al viso.

Sorrise con rabbia che presto le deformò i lineamenti in una sorta di smorfia.

“questo non basta? – la sua voce si alzò, come un vago stridio – non ti basta la morte, non ti basta la solitudine? Ma non capisci…nemmeno la solitudine capisci? – aprì le braccia, coma ad indicare ciò che la circondava, poi le lasciò cadere con sconforto. L’angoscia cresceva in lei senza che potesse fare nulla per arginarla – io ho messo in pericolo la mia famiglia! Mia madre…mia madre mi ha cacciato e sai perché? perché nessuno capisce! Nessuno capisce cosa sono, in che mondo sono stata costretta a vivere, cosa sono stata costretta a fare perché era la cosa giusta. Io…cosa credi che siamo Faith, cosa credi che siamo? Ma guardati! Siamo ragazze ma allo stesso tempo non possiamo esserlo! Non possiamo esserlo perché da qualche parte c’è sempre un pericolo, qualcosa da combattere, qualcuno da uccidere e non possiamo farci niente… - il suo tono di voce tornò basso, fino quasi a raggiungere l’intensità di un sussurro. Distolse lo sguardo, puntandolo verso l’alto. La luce del neon si infranse nei suoi occhi lucidi – io ci ho provato, ho fatto la cosa giusta. Sempre. – la guardò con rabbia – io sono morta maledizione! Sono morta per salvare la mia città, sono morta per salvare il mondo e sai una cosa? Poi ho solo dovuto prendere atto che lo dovrò fare ancora e ancora, senza mai dire basta. Non si vince il male…si rigenera sempre – sorrise- proprio come le cacciatrici. Puoi sopportare la solitudine? Poi sopportare gli sguardi dei tuoi amici e quelli di tua madre che ti guardano senza capire? –la sua voce era tornata dura – io non ce la faccio”

 

“perché qui allora? Loro ti capiscono?” Faith indicò i pochi clienti ancora nel bar

 

ora il suo tono era scosso da un leggero tremito. Imitò un sorriso

“Guardali. Sono tutti spenti, tutti vuoti. Tutti soli. Vengono qui a cercare qualcosa e tornano ogni notte, non possono semplicemente farne a meno e si illudono di riuscire a trovarla qui – alzò le spalle – non ci sono solo demoni sai? Donne, soldati, borghesi. Si nascondono dai loro incubi personali, scappano da quello che sta fuori. – respirò profondamente, la sua voce atona sembrava riprendere a poco a poco la calma ostentata con cui le si era rivolta sin dal primo istante – e io non sono migliore di loro. Vogliamo tutti la stessa cosa in fondo”

 

“e sarebbe?”

 

Buffy tornò a sedersi. Abbandonandosi mollemente sulla sedia

“la pace” sussurrò

 

Faith alzò le spalle

“Non credo tu l’abbia trovata. – la fissò, un barlume di sfida non del tutto sopito negli occhi – l’unico modo è la morte, no?” lo disse con un tono amaramente canzonatorio, cogliendo il paradosso della sua affermazione

 

Buffy rise con lei, chiudendo gli occhi

“credi che non ci abbia pensato? Ma vorrebbe dire un’altra cacciatrice attivata. – alzò le palpebre, che sentiva ormai pesanti come macigni – e poi c’è un altro fatto. Io non voglio morire Faith. Non voglio morire”

era vero. Nonostante tutto. Una forza inspiegabile, impietosa, insopprimibile la legava a quella vita, a quel potere che tanto avrebbe voluto uccidere, estirpare. Ma, a rifletterci, chi sarebbe stata poi senza? Cosa sarebbe stata? Aveva paura…paura. Ma questo no, questo non glielo avrebbe mai detto. Aveva già aperto uno spiraglio dal suo vaso di Pandora, non intendeva scoperchiarlo completamente. Poteva parlare di morte, poteva parlare di solitudine, ma non di paura.

Anche se la sentiva come un grido anche nella ragazza che le stava di fronte.


 

And she said, - e lei disse

 'we are all just prisoners here, of our own device' - 'Noi siamo tutti prigionieri del nostro nuovo congegno'
And in the master's chambers, -
e nella camera del padrone
They gathered for the feast
- si sono raccolti per il banchetto
They stab it with their steely knives, -
lo trafiggono con i loro coltelli in acciaio
But they just can't kill the beast -
ma non possono uccidere la bestia

 

Faith si alzò in piedi a sua volta, facendo il giro del tavolo sino a trovarsi a pochi passi da lei. La sua ombra oscurò il viso dell’altra cacciatrice, impedendole di vederne i lineamenti.

 

“ e allora cosa fai ancora qui? Hai intenzione di passare così quanto tempo? Un mese, un anno…quanto Buffy?”

 

Il respiro di Buffy era tornato normale. Gli occhi non avevano più quel riflesso luccicante che precedeva le lacrime, ma erano tornati freddi e vacui. Senza più traccia dell’angoscia che la aveva assalita prima.

 

Si alzò in piedi anche lei, come se fosse la prima volta che lo faceva, sino a trovarsi di fronte a Faith.

 

“è ora che tu te ne vada Faith. Hai sentito abbastanza per questa notte” il gelido candore con cui pronunciò quelle parole non aveva nulla del tremolio amaro che la aveva quasi portata alle lacrime.

 

Faith la fissò. Un brivido freddo le percorse la schiena nel sentire quelle parole, ma fu solo un attimo: poi la sensazione si tramutò in piacere.

Sorrise quasi.

Decisamente le piaceva di più quando indossava la sua maschera fredda, piuttosto che quello sguardo angosciato. Era più facile confrontarsi con lei così, ora. Bastava guardarla per capire con chi si aveva a che fare: con una cacciatrice, con una strana razza di demone che, per quanto lo disprezzasse, possedeva il potere e poteva, anzi amava, usarlo.

Non era una degli “altri” di quelle figure indistinte che avevano bisogno di essere salvate. Si sorprese a pensare che, in fin dei conti, anche Buffy avrebbe voluto esserlo: potersi fermare e aspettare. Aspettare che fosse qualcun altro, per una volta, ad aiutarla.

Non era quello che desideravano tutti?

Ma lei, loro, non potevano farlo. Ed entrambe portavano una maschera. Per quanto tempo, per quante battaglie, questo solo il caso poteva dirlo, ma non era una novità che tutti, loro in special modo, dovessero indossarne una.

No, non era una novità, solo un altro dei difetti insiti nella natura umana.

Ed ecco che la farsa che stavano recitando era ripresa da dove la avevano interrotta.

Ognuna al suo ruolo, che vengano abbassate le luci.

Guardò ancora un attimo Buffy, senza parlare. Sapeva che era il momento della sua battuta. Che, in un modo o nell’altro, la serata era finita. Che non ci sarebbe stata un’altra tregua.

Ancora un attimo…solo un attimo ancora, per imprimerla nella memoria per come era, al di là di ciò che sarebbe successo l’istante successivo.

L’istante successivo: era adesso quello presente.

Il momento di far continuare lo show.

 

Abbassò il mento, guardando la cacciatrice che le stava di fronte con un misto di curiosità e ironia. Curiosità di scoprire come si sarebbe comportata, ironia per nascondere tutto il resto.

“sarà B…posso chiamarti B vero? Però credo che tu dovrai venire con me” le sorrise, con un’espressione falsamente accattivante. Era più facile di quanto avesse creduto, dopotutto ci era abituata.

 

Buffy rimase a guardarla, indecisa sul da farsi. Il loro gioco era ripreso, alla fine. Bene. Dopotutto era stata lei la prima a riprendere il suo ruolo no?

Voleva che tutto finisse, che Faith se ne andasse, e quello era il sistema più rapido.

Era inutile parlare ai sordi e indicare ai ciechi.

“e dove vorresti portarmi? – le si avvicinò: occhi negli occhi – dal Consiglio?”

 

Faith alzò le spalle

“da loro, o da chiunque voglia una cacciatrice”

 

Buffy rise, con la stessa nota fredda della prima volta che si erano parlate, con la stessa durezza, con lo stesso scherno

“prima non sembravi intenzionata…sai, credevo cercassi una sorta di cameratismo tra cacciatrici, o qualcosa del genere”

 

Faith rimase colpita un attimo. Una scossa fredda. Poi più nulla.

“e tu credi davvero che mi importi di te?” la guardò candidamente, con lo stesso sguardo che si rivolge ad una bambina che ha appena detto una stupidaggine.

 

“No, probabilmente non ti interessa sapere che loro mi costringeranno a tornare a Sunnydale, che tornerò ad uccidere, che tornerò a combattere. Ma ti sei chiesta cosa potrebbero farsene di due cacciatrici? Ne è sempre bastata una in passato.”

 

Faith non rispose, continuando a sorriderle. Quasi un’esortazione a continuare.

 

E Buffy lo fece.

“e se dovessimo combattere, io e te? Chi vincerebbe? E sarebbe giusto farlo?” la fissò, in cerca di una risposta.

 

“Vuoi che io ritorni ad essere una cacciatrice? – il suo tono era duro. Una sfida lanciata a viso aperto – bene…”

 

dal retro dei pantaloni estrasse unpaletto. Lo stesso che aveva nascosto lì prima di iniziare il suo turno. Lo stesso con in quale si era difesa, mentre tornava a casa, qualche sera prima. Lo stesso con il quale aveva salvato una vita, la notte scorsa.

Ironico, se ci si rifletteva. Quello era l’unico ricordo dal quale non era riuscita a separarsi.

 

In un attimo era al bancone.

 

Un vampiro vi era accasciato sopra, con accanto un bicchiere di vodka.

 

Lo prese per i capelli, alzandolo di peso.

 

Due occhi gialli si animarono, le fenditure nere fecero ma mala pena in tempo a mettere a fuoco un viso pallido.

 

Una nuvola di polvere si depositò sul pavimento.

 

Buffy chiuse gli occhi. Era tutto finito: lo aveva fatto.

Un’altra volta. L’ennesima volta.

 

Rimise a posto il paletto, ignorando la fitta al cuore provata nell’istante stesso in cui un pulviscolo simile alla cenere si era posato sulla sua mano che stringeva l’arma.

 

Tornò verso Faith. I suoi occhi, animati da una sorta di insopprimibile gioia, ancora più verdi. Le guance leggermente rosate, le labbra increspate da un sorriso. Una strana sensazione alla bocca dello stomaco: come una muta esultanza dei sensi che la fitta di prima non calmava.

“…non sono mai stata altro. Ci ho provato ma non sono mai stata altro”

 

“non siamo così diverse allora” Lo sguardo dell’altra cacciatrice non riusciva a staccarsi da lei. Dalla mano che, solo un secondo prima, impugnava un paletto; da quegli occhi, che tradivano ogni sforzo di soppressione di un potere tramandato da secoli.

 

Il sorriso di Buffy si spense, a pochi passi da lei. l’ultima sillaba di quella frase non ancora pronunciata.

Un lampo freddo.

 

Poi Faith accasciata a terra: il labbro inferiore tagliato e un rivolo di sangue dello stesso colore del suo rossetto che le scendeva sul mento.

 

Buffy si avvicinò ancora di qualche passo, fino ad accostarsi alla ragazza, ancora stesa a terra. Una mano dalla pelle rossastra e screpolata stretta a pugno.

“sì che lo siamo Faith. L’unica cosa che abbiamo in comune è che combattiamo per il motivo sbagliato”

 

Faith si raddrizzò, passandosi una mano sul viso per pulire il sangue

“e quale sarebbe?”

 

“io lo faccio per necessità. Tu per piacere. – respirò a fondo- O meglio, lo fai ancora per piacere”

 

Buffy le voltò le spalle, ascoltando il fruscio dei suoi abiti mentre Faith si rialzava

“ma l’importante è farlo B. E io lo faccio, tu no” la sua voce era grave, abbassata da un tono che non aveva mai usato

 

“fino a quando non finirai prigioniera di un posto come questo” si voltò, con una pericolosa amarezza negli occhi “vattene Faith…è meglio che scappi prima che prenda anche te. – le sorrise -  Manderanno qualcun altro, non preoccuparti. Al consiglio non mancano gli uomini”

 

Faith si mosse. Verso la porta.

Inspiegabilmente.

Inspiegabilmente intimorita. Improvvisamente spaventata. Profondamente cosciente.

“ti ucciderà questo posto, lo sai vero?”

 

Buffy non rispose, la guardò e basta, mentre si avvicinava alla porta.

 

Faith era a pochi passi, ora.

Si fermò: c’era una cosa che voleva sapere, ancora.

“e se dovessimo combattere, io e te?”

 

“non succederà” Buffy la fissò e Faith si trovò a chiedersi dove trovasse tutta quella sicurezza

 

“come fai a dirlo?”

 

“perché sarebbe sbagliato” le voltò la schiena, dirigendosi verso il bancone

 

Faith la fissò ancora un attimo, prima di afferrare la maniglia e abbassarla con forza.

Si raddrizzò, chiudendosi la giacca.

 

“Arrivederci B” abbozzò un sorriso privo di gioia.

Si sarebbero riviste e avrebbero combattuto. Lo sapevano entrambe. Perché, nonostante tutto, per quanto cercassero di evitarlo, era sempre una questione di potere.

Anche quando era sbagliato.

Si chiuse la porta alle spalle. Un soffio di aria gelida le sferzò il viso, nemmeno uno spiraglio di luce ad illuminare l’oscurità.

Staccò la mano dalla porta. Dal coperchio di quella tomba.

 

Last thing I remember, I was - L'ultima cosa che ricordo è che stavo
Running for the door -
correndo verso la porta
I had to find the passage back -
cercai il passaggio che mi riportasse indietro

to the place I was before - nel posto in cui ero prima

Si strinse di più nel cappotto, infilando le mani in tasca, e inspirò la brezza fredda dell’alba che si faceva sempre più vicina. Era uscita, era fuori. Fuori da quella cappa di fumo, fuori da quella stanza trasudante angoscia.

Libera.

Buffy invece era rimasta dentro. Buffy non era uscita.

Si guardò intorno: nessuno. Solo gelo e buio. E lei, che camminava avanti.

Il freddo si impossessò di lei, come una selva di aghi che si conficcano nella carne.

 

Si voltò un attimo verso la porta da cui era appena uscita: forse era quello ciò che intendeva lei, quando parlava di solitudine.

 

*     *     *

 

Buffy staccò gli occhi dalla porta, che si era appena chiusa alle spalle di Faith.

La polvere del vampiro era ancora a terra, sullo sgabello.

L’angoscia crebbe in lei, libera finalmente di esplodere. Il potere, la voglia di uccidere, di combattere ciò che le avevano insegnato essere male: covavano in lei, sempre.

E crescevano. Crescevano esattamente come la solitudine.

Anche Faith lo aveva capito, alla fine.

 

Guardò di nuovo la porta: là fuori, lì dentro. C’era davvero così tanta differenza in fondo?

 

 

Welcome to the Hotel California - Benvenuto all'Hotel California
Such a lovely place  -
un posto così amabile
Such a lovely face. - un volto così amabile

You can check out any time you like, - tu puoi lasciare l'albergo quando vuoi,
But you can never leave! – ma non potrai mai abbandonarci



 

 



 

 

 

 

 

 

  
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