HOTEL
CALIFORNIA
I heard the mission
bell - Io udii il campanello d’allarme
And I was thinking to myself - Mentre pensavo tra me e me
'This could be heaven or this could be Hell’ - questo può essere il
paradiso o può essere l’inferno
Then she lit up a candle and she showed me the way - Poi lei accese la
candela e mi mostrò la strada
There
were voices down the corridor, - C’erano delle voci in fondo al corridoio
I thought I heard them say... - Credevo dicessero…
Welcome to the Hotel California - Benvenuto all’hotel California
Such a
lovely place - Un posto così amabile
Such a lovely face. - Un volto così amabile
Plenty of room at the Hotel California - Ci sono tante camere all’Hotel California
Any time of year you can find it here - In ogni momento dell’anno puoi trovarne una
Un vicolo buio e deserto, poi una pesante porta in lamiera, cigolante e arrugginita, che da su una sorta di stretta anticamera mal illuminata.
Dalla stanza a fianco filtra una fitta
calotta di fumo, il cui odore acre impregna i muri ingrigiti e soffoca, in un
primo istante, chiunque varchi la soglia. Allora il nuovo arrivato strizza gli
occhi e trattiene un attimo il respiro, se è la prima volta che entra si lascia
scappare anche un tossicchiare sommesso, ma lo sperdimento lascia poco dopo
spazio al primo stadio dell’annebbiamento dei sensi: lo scopo per cui chiunque
è lì.
Probabilmente poi si infilerà una mano
in tasca, estraendone qualche banconota sdrucita e spiegazzata da passare al
buttafuori: un lasciapassare tanto rapido quanto sicuro, un segreto degli
abituè diventato prassi.
A questo punto il nostro nuovo venuto si
getterà con passo sicuro nella sala adiacente, dove lo stesso fumo che prima lo
aveva stordito acquista le sfumature giallastre della luce al neon e la musica,
un lamento contaminato dall’hard, si sostituisce al silenzio soffocante del
vicolo di poco prima.
Non ci mette molto a disperdersi tra la
folla di visi: sconosciuto tra gli sconosciuti, rinnegato tra i rinnegati,
accolto in una quiete molto meno percepibile di quella da cui fugge: quella
dell’anima.
Tutto questo appare il bar a una prima
occhiata, ma non è nemmeno un pallido barlume della sua vera e profonda
essenza: diversa per ciascuno e uguale per tutti, che ne impregna come una
muffa le pareti e come uno stridio i rumori, che eccita, confonde e
inorridisce, sino a quando non finisce per lasciare completamente indifferenti.
Con queste considerazioni in mente una
figura minuta, che sembrerebbe non avere nulla da spartire con gli altri
avventori, entra con il passo rapido e lo sguardo freddo di chi ormai varca
quella soglia senza nemmeno sperare di ricevere ciò che il posto promette.
Si è chiesta spesso perché, ogni notte,
sia quel locale, quello squallido e sporco bar, ad essere la meta primaria,
l’appuntamento inderogabile, la droga, di un fiume di anime perse, a cavallo
tra la dannazione e la vita ordinaria.
Ha visto sfilare, come in una bizzarra
processione di mostri, demoni, vampiri, ma anche borghesucci di mezza età,
donne bruciate dall’alcol, manager ridotti in disgrazia - Cosa ci faceva lì
quell’accozzaglia informe di persone non accomunate da nulla se non dalla loro
stessa assidua presenza?
Solo dopo un paio di serate là dentro la
risposta le è apparsa chiara, ovvia, quasi scontata: non è il luogo, non la
musica, il fumo, ciò che ci si può procurare con gli agganci giusti e nemmeno
l’alcol o il sangue a buon prezzo.
No, non è qualcosa di materiale: è una
sorta di strano batterio che impregna l’aria, che contagia le menti e le
incatena alla sensazione di putrida sicurezza, di profonda simbiosi e di
perfetta e silenziosa armonia - non con sé stessi certo- ma almeno con ciò e
con chi sta attorno.
E proprio questa è la materia viva del
locale, senza la quale sarebbe solo una bettola buia come tante: tutte le vite
che ci gravitano attorno.
Alcune per bisogno, altre per passione,
altre ancora solo per abitudine.
Tutta la carne umana, demoniaca, di
questo o del mondo sotterraneo.
Al di là delle dicerie, dei misteri,
delle idee che circolano intorno al bar, ogni cosa si riduce solo e unicamente
allo strano miscuglio di vita e morte, oblio e condivisione che si sono
impastati insieme scegliendo, tra tanti, proprio un locale malfamato in fondo a
un vicolo.
Una volta capito risulta facile, quasi banale,
rimetterci piede senza farsi infettare dal morbo, riflettendoci né buono nè
cattivo, proprio come ogni malattia, che infetta i frequentatori: la speranza
di trovare lì, finalmente, la pace.
Ma ritorniamo a noi, alla ragazza che è entrata svelando
a sé stessa ancora una volta i profondi segreti del bar, scoperti e serbati
notte dopo notte: si è diretta al bancone, una tavola di legno scuro, sempre
bagnata di alcol, sangue e altre bevande gradite ai clienti.
Fece
un cenno col capo al barista, che ricambiò con un bieco sorriso, prima di
gettarsi uno straccio umido sulla spalla e di servire l’ennesimo bicchiere a un
uomo ormai semiriverso sul tavolo a cui sedeva.
Senza
darsi la benché minima occhiata intorno la giovane entrò in un ripostiglio
buio, chiudendosi la porta alle spalle e tagliando fuori, almeno in parte, il
chiasso del locale adiacente: insopportabile per i primi quindici minuti, poi
anche a quello ci si sarebbe assuefatti.
Alzò
un braccio nell’oscurità, trovando a tentoni una cordicella in plastica che,
tirata, fece accendere una fioca lampadina, oscillante dal soffitto con un
leggero cigolio. Nessuna finestra che desse sull’esterno, quella era l’unica
illuminazione che il suo rozzo rifugio concedesse; tuttavia non ci fece caso:
in fondo non aveva bisogno di luce per togliersi il cappotto e prepararsi.
Appese
il soprabito lungo e di pelle scura ad un appendino, con un’attenzione che
contrastava visibilmente con l’indifferenza ostentata verso tutto ciò che la
circondava, ed estrasse da uno stretto armadio in legno un piccolo coltello a
serramanico, che infilò nella tasca posteriore dei suoi jeans neri e scoloriti
insieme ad un paletto. Aveva imparato a sue spese che era meglio essere sempre
prudenti.
Aprì
del tutto l’anta dell’unico pezzo di mobilio della stanza, per osservare
qualche attimo il suo viso, riflesso in uno specchio per metà coperto di
adesivi di ogni tipo: carnagione chiara, in netto contrasto con le labbra
sottili e sottolineate da un pesante rossetto rosso scuro, matita nera sotto
gli occhi, non con una riga troppo spessa però, strano accorgimento al quale
nessuno avrebbe fatto caso, e capelli lisci e corvini, che le arrivavano un
poco oltre le spalle, lasciati sciolti a ricaderle intorno alle guance.
Si
avvicinò al vetro, strofinando un dito sul sopracciglio destro, diviso da un
taglio verticale che faticava a rimarginarsi.
Alzò
le spalle e richiuse senza troppa delicatezza l’anta, sistemandosi la maglietta
con la scritta bianca I © L.A. che spuntava da sotto la camicia aperta.
Senza
indugiare oltre aprì la porta, tirando contemporaneamente il filo della
lampadina: la stanza fu invasa dal frastuono esterno e, quando la ragazza uscì,
ripiombò nell’oscurità silenziosa.
-
Le sue
orecchie furono invase da rumori di ogni tipo: un tizio seduto al bancone
urlava la sua ordinazione superalcolica già del tutto ubriaco, il barista
girava verso l’alto la manopola che regolava il volume dello stereo acceso,
aggiustando la posizione della cassa più vicina, la porta sbatteva lasciando
entrare una schiera di demoni borchiati, il cui clangore di catene metalliche
risuonava seguendo l’andare barcollante e deciso dei loro passi.
Se in
quell’istante avesse chiuso gli occhi avrebbe anche potuto immaginare di essere
in un incubo da film, dove il protagonista si trova nel posto sbagliato al
momento sbagliato.
Così
fece ma, come ogni notte da quando era lì, riaprendoli i mostri non sparivano e
lei era sempre lì, ferma, in piedi, a guardarli.
Fu
interrotta dopo qualche attimo dalla voce del suo capo:
“ehy
bellezza, non ti pago per guardare i clienti - le si avvicinò, con passo più
cauto di quanto non stradisse il tono di poco prima, per cederle lo straccio
che portava sulla spalla - io vado nel magazzino, stai tu al banco” pronunciò
quelle parole con una sfumatura che indicava il fatto che non avrebbe ammesso
nessun disturbo.
Fissando
per qualche attimo studiato la mano che le porgeva il pezzo di stoffa, lo
prese, annuendo solo con la testa e dirigendosi semplicemente vicino alla zona
dove i clienti facevano le loro ordinazioni.
Sbuffando
e scotendo le braccia in modo teatrale cosicché tutti potessero notarlo, l’uomo
sparì nel retro del locale, chiudendosi velocemente la porta alle spalle.
-
La
nuova figura al banco non sembrò suscitare alcun interesse né in chi entrava né
in chi aveva già preso posto al tavolo: come se la conoscessero, se sapessero
che la sua situazione non era diversa dalla loro, che anche lei non cercava,
inconsciamente, altro che il loro stesso oblio.
Passò
la pezza umida sul piano in legno, asciugando il liquore nel quale quasi
galleggiavano due bicchieri vuoti, frutto dell’ultimo servizio del barista
assente.
Li
risciacquò sotto un getto di acqua corrente, facendo scorrere le dita sui fondi
scheggiati prima di posarli accanto agli altri sul ripiano, senza nemmeno
accorgersi del taglio superficiale che le aveva inciso l’estremità dell’indice.
“sangue,
caldo”
una
voce roca la indusse a voltarsi
Uno
strano individuo dall’aria sospettosa aveva appoggiato pesantemente le braccia
sul bancone, sporgendosi il più possibile verso di lei. I capelli gli
ricadevano lunghi e sporchi davanti al viso, senza tuttavia nascondere ad un
occhio esperto i lineamenti demoniaci.
“non
ho tempo da perdere ragazzina, fa svelta. Ho i soldi” pronunciò queste parole
quasi con disprezzo, e lei fu colpita dal suo alito pesante, di sigaretta e
alcol.
Alzò
lo sguardo solo un istante, per afferrare la banconota spiegazzata da due
dollari e infilarla nel cassetto sotto il primo ripiano.
Il
vampiro ora si guardava intorno, circospetto, con i pugni stretti e il respiro
rauco e leggermente affannato.
Lei
prese un boccale da birra, posizionandolo sotto una sorta di rudimentale
erogatore che, aperto, vi lasciava zampillare all’interno un filo rosso, scuro
e denso.
L’odore
dolciastro e ferroso del sangue caldo le fece venire la nausea: girò con forza
la manopola in plastica, poggiando davanti al cliente il grande bicchiere
colmo. Il dito tagliato lasciò un’impronta carminia sul vetro strisciato,
attirando sulla sua mano lo sguardo ipnotizzato del demone, che non si staccò
nemmeno dopo che la fece scomparire sotto lo straccio.
Quello
afferrò con desiderio smanioso e non più trattenuto il boccale, portandolo
avidamente alle labbra ed emettendo, dopo lunghe sorsate, suoni gutturali: un
rivolo porpora gli colò lungo il mento e ciò non fece altro che acuire il senso
di repulsione di lei, che si voltò quasi di scatto non riuscendo a sopportare
lo spettacolo.
Sentì
il paletto pungerle l’anca ma frenò l’istinto di afferrarlo: quel vampiro stava
scappando da qualcosa – o, meglio, da qualcuno – e ci avrebbe certo pensato
questo qualcun altro ad eliminarlo, senza contare che, da come si ingozzava,
non aveva una vittima da tempo e,
trovandosi lì, evidentemente non ne avrebbe cercata una nemmeno quella notte.
In
ogni caso non era mai riuscita a reprimere del tutto il ribrezzo nel servire i
vampiri, anche quelli che sapeva ad un passo dal diventare polvere. Il barista
era stato chiaro quando la aveva assunta: non voleva problemi – di nessun
genere – né lamentele da parte dei clienti.
Lo
sentì mugolare soddisfatto e posare con troppa foga il bicchiere, sbattendolo
sul piano di legno graffiato.
“un
altro”
di
nuovo la stessa voce, poi il suono di una banconota sprimacciata.
Questa
volta non osservandolo neppure, prese il recipiente senza rispondere per
riempirlo nuovamente.
D’un
tratto una mano si chiuse sul suo braccio teso verso il rubinetto
dell’erogatore, facendo sì che lei si fermasse, lanciando al barista uno
sguardo di sorpresa mista a un tacito ammonimento, che lo indusse a mollare al
presa per spostarla tuttavia sul pezzo di vetreria vuoto.
Girò
la manopola e si apprestò a preparare lui stesso la nuova ordinazione,
avvicinando però il capo a quello della ragazza per sussurrarle a bassa voce,
in modo da non farsi sentire dal cliente
“non
sputare nel piatto in cui mangi piccola, e cerca di fare conversazione per Dio,
le informazioni di un fuggiasco sono attendibili e fruttano bene, te l’ho già
detto” soffiò
In
contemporanea con l’ultima parola pronunciata mosse leggermente verso di sé la
chiusura e il flusso di liquido si fermò, riscotendo dal suo stato di languido
torpore il vampiro, che non aveva mai distolto lo sguardo voglioso.
Nel
poggiargli davanti il boccale quasi fumante, il barista incrociò braccia sul
banco, sino ad arrivare ad un palmo dal viso del cliente che, questa volta,
indugiò prima di avventarsi sul sangue.
“allora,
nottata tranquilla…….”
Le
voci si persero sempre più lontane nel frastuono della sala non appena lei si
allontanò, tornando a dare le spalle al centro della sala e riflettendosi quasi
involontariamente nel fondo specchiato del mobile a scaffali poggiato al muro:
espediente accorto per non perdere mai di vista il disparato assortimento di
creature sedute ai tavoli.
Rimase
voltata, incuriosita dai visi che sembravano in apparenza così poco distanti
dal suo: le era sempre piaciuto studiare gli altri senza essere notata, seguire
con lo sguardo un particolare individuo, non perderlo di vista nemmeno quando
si accorgeva di essere osservato.
Le
dava uno strano senso di potere che non provava mai nella sua vita alla luce
del giorno.
Pensandoci
bene, non ricordava nemmeno di averlo cercato, almeno prima del suo arrivo a
Los Angeles…
Ma quella era un’altra realtà, dove la sua
forza cessava con i primi raggi del sole per lasciare posto ad una persona che
poteva ormai considerare morta.
Definitivamente.
* *
*
il bar
era aperto ormai da qualche ora: alle nove già una piccola ressa aveva
affollato l’ingresso, adesso invece solo qualche ombra guardinga si infilava
nella stretta entrata.
Non si
poteva dire che il movimento l’ intorno fosse notevole, anzi, nessun passante
si era nemmeno accorto della presenza di quel posto; solo chi sapeva
esattamente cosa cercare ci arrivava senza esitazione.
Una
figura in nero, intabarrata in un giubbotto scuro che la rendeva quasi
invisibile nell’ombra, se ne stava appoggiata con una spalla al muro della casa
da lato opposto della strada e non aveva perso d’occhio un attimo la porta
tagliafuoco, che sembrava chiudere dietro di sé un mondo a parte.
Inspirò
profondamente: le piaceva la notte, l’odore di umidità che impregnava l’aria,
il silenzio rotto solo dall’ululare lontano di qualche sirena. Ma lì sembrava
che un enorme voragine buia avesse inghiottito quel genere di cose,
sostituendole con una desolazione che non aveva nulla di vitale, nulla di
poetico o di anche lontanamente riconducibile al tipo di sensazione che
l’oscurità in genere le trasmetteva.
Più si
guardava intorno più se ne convinceva.
Gettò
a terra la sigaretta fumata fino al filtro: era più forte di lei, non riusciva
a fermarsi sino a che il calore della brace non le scaldava le dita e il
profumo dolce-amaro della carta bruciata si tramutava nell’odore acre della
plastica fusa.
Schiacciò
il mozzicone sotto il tacco, tenendo lo sguardo puntato al vicolo: la strada
che la separava da quella porta semicelata dalla notte era umida della pioggia
della giornata, mentre i tombini soffiavano piccole colonne di fumo chiaro,
illuminato per qualche attimo dai fari e poi disperso dallo sfrecciare di
qualche rara auto, le cui ruote spruzzavano schizzi d’acqua sporca e fangosa
sino al marciapiede.
Estrasse
una mano dalla tasca dei jeans, infilandosi in bocca una cewin-gum: il sapore
di menta forte le arrivò sino in gola eliminando, almeno in parte, il gusto di
sigaretta.
Dopo
aver masticato più volte dischiuse le dita, che stringevano una fotografia
ormai spiegazzata e coperta degli aloni di sudore lasciati dai polpastrelli: se
la portò vicino al viso, osservando i
lineamenti, appena distinguibili nella penombra, di una ragazzina bionda e
sorridente, che non dimostrava più di diciassette anni.
Senza
più esitare nascose l’immagine nel retro dei pantaloni sdruciti e attraversò la
strada, guardandosi intorno con sospetto, anche se nemmeno una macchina aveva
più percorso quella via di periferia da almeno mezzora.
Non le
piaceva quel posto, lo aveva pensato appena scesa dal taxi al quale aveva
indicato un indirizzo a lei sconosciuto, ma che ora aveva acquisito una forma
distinta.
C’era
una strana atmosfera, una sorta di cappa, che ricopriva e rendeva opaca ogni
cosa: i visi dei tizi che aveva osservato varcare la soglia, per esempio.
Non ne
ricordava nemmeno uno, anche se aveva tentato di imprimerseli nella memoria,
pur senza un motivo preciso
A mano
a mano che la porta si faceva più vicina e il risuonare dei suoi passi nel
silenzio più assordante, le sue dita stringevano sempre più convulsamente la
foto che teneva in tasca, quasi come fosse un portafortuna: il viso di una
ragazza sconosciuta era l’unica cosa reale e ancora definita in un mondo che
sembrava aver perso nitidezza.
D’un
tratto l’entrata che aveva visto aprirsi più volte quella notte si trovava a un
passo da lei.
Afferrò
la maniglia, tirandola con decisione verso il basso.
* *
*
servì
l’ennesimo cliente di quella sera, poggiandogli davanti un bicchiere colmo di
ghiaccio, che riempì con attenzione fino all’orlo senza far fuoriuscire una
goccia. Anche di quel gesto misurato nessuno si sarebbe accorto; lo dimostrò la
presa maldestra dell’uomo sulla trentina e vestito da motociclista, la cui mano
oscillò vistosamente, versando il liquido ambrato sul bancone.
Senza
guardarlo in faccia, la ragazza asciugò le gocce con una mossa nervosa che
avrebbe potuto offendere l’avventore, se non fosse stato troppo distratto a
tracannare l’ordinazione.
Lei
diede nuovamente le spalle alla
clientela che continuava ad affollare, chiassosa, il locale, tuffando le mani in
una sorta di grande lavello, pieno di bicchieri sporchi. Il contatto con
l’acqua calda e squamosa a causa del detersivo la fece trasalire qualche
attimo, poi iniziò a sciacquare con accuratezza il vetro. Lo faceva senza
guardare: mentre lavorava con le braccia immerse nella schiuma i suoi occhi non
si staccavano mai dallo specchio che le stava di fronte, dandole piena visuale
su chiunque entrasse e uscisse dal locale.
Un
strano demone squamato varcò la soglia, seguito da alcuni vampiri che si
guardavano intorno con aria circospetta: prima ancora che potesse anche solo
formulare un pensiero negativo sui nuovi venuti il barista fu loro incontro,
facendo sì che l’attenzione di lei si spostasse su una coppia, che invece si
apprestava ad uscire. Un ragazzo sui venticinque anni, con capelli cortissimi e
una maglietta verde aderente, che aveva bevuto solo una tequila con aria
nervosa, e una donna dalla carnagione insolitamente pallida: un soldato e la
sua non morta della serata.
I loro
sguardi tradivano sempre una nota fredda, qualsiasi fosse l’emozione del
momento; una sorta di desiderio insoddisfatto e latente, seguito dalla
consapevolezza che la loro stessa necessità li avrebbe di certo riportati lì la
notte successiva, e quella dopo ancora.
Insoddisfazione
e consapevolezza: ecco cosa accomunava ogni frequentatore, nessuno escluso.
Stava
per abbassare lo sguardo, di nuovo indifferente, quando entrò una ragazza.
C’era qualcosa di diverso in lei, qualcosa che non esisteva in un posto simile.
La osservò guardarsi intorno e percepì il suo disagio nel notare che ogni
cliente aveva puntato l’attenzione su di lei, come nei vecchi film, quando
Clint Eastwood entra nel saloon. Solo che nei suoi occhi si leggeva solo
circospezione e sperdimento, a guardar bene anche una punta di disprezzo per il
luogo, ma nessuna traccia di alcun desiderio soddisfabile la dentro.
Tuttavia
il silenzio, o meglio la musica a tutto volume senza più brusio incessante
delle voci, non durò più di qualche secondo: una delle regole non scritte rispettate
dai frequentatori era quella di non fare e di non farsi domande.
Lei
rimase voltata, fingendo di risciacquare l’ennesimo bicchiere e stando attenta
a non incrociare il riflesso dello sguardo della nuova entrata. Ma c’era
qualcosa nella ragazza che le trasmetteva una sensazione famigliare: non
riguardava il suo viso, bello e curato quanto a lei sconosciuto; piuttosto il
suo modo di muoversi, misurato e baldanzoso al tempo stesso, e la sua
espressione più curiosa che stupita nell’osservare il numero di demoni presenti
nella stanza…
Una
fitta al cuore, poi un brivido freddo
Un
cacciatrice
Il
nervosismo prese il sopravvento: cosa ci faceva lì una cacciatrice? Forse era
solo di passaggio, ma per quale ragione entrare proprio in quel locale allora?
Passò
immobile qualche attimo, con gli occhi puntati nello specchio. Lo sperdimento
era passato, ora vedeva lucidamente cosa fare
nulla
si
asciugò le mani, immerse sino a poco prima nell’acqua calda, con un straccio
bianco e si avviò con passo misurato verso la zona più distante dall’ingresso,
dove un demone incappucciato stava consumando la sua ordinazione.
Le
luci in quell’angolo erano soffuse e il rumore meno forte: si cullò in quella
parvenza di invisibilità, non rivolgendo più nemmeno un’occhiata alla ragazza
che stava ancora all’ingresso.
* *
*
una volta
entrata il più era fatto.
Adesso era
lì, in mezzo alla sala, muovendo gli occhi di tavolo in tavolo, senza ombra di
vergogna. Era un covo di demoni come tanti altri, nulla di più, nulla di meno,
anche se la clientela certo non mancava.
Strano,
considerato il fatto che Los Angeles era sempre stata – da quanto sapeva – il
torbido parco dei divertimenti di numerose famiglie di demoni.
Frugò
attentamente con lo sguardo ogni figura, stupendosi in silenzio di trovare
anche qualche umano a confondersi tra la piccola folla eterogenea.
Nemmeno una
donna però, tranne qualche non morta.
Strinse in
tasca la fotografia della ragazza bionda: la soffiata ricevuta dal consiglio si
era di nuovo verificata essere una falsa pista.
Poi il suo
sguardo si posò su qualcuno, seduto al banco
- no, forse
non era stata una totale perdita di tempo –
* *
*
protetta
dalla penombra guardò di sottecchi la cacciatrice, che si avvicinava al vampiro
servito da lei poco prima.
Le sfuggì
un mezzo sorriso: ecco il motivo della sua fretta. Ed ecco anche svelata la
causa di una visita così inaspettata come quella di una cacciatrice – di cui
credeva essere cagione –
Un velo di
indifferenza calò sui suoi occhi, che persero ogni curiosità, riprendendo la
sfumatura fredda di sempre.
-prendi la
tua preda e vattene cacciatrice – fu il suo ultimo pensiero rivolto alla
giovane, poi tornò ad occuparsi dei clienti.
* *
*
si sentì
afferrare per un braccio da una stretta maschile, che la trascinò indietro di
qualche passo sino ad un tavolo vuoto.
Un uomo
sedeva davanti a lei, con un vassoio di plastica carico di bicchieri sporchi.
Solo perché la sua mano aveva mollato la presa si impedì di reagire, rimanendo
in silenzio ed aspettando che fosse quello a parlare
“non voglio
risse nel mio locale cacciatrice” lo sentì bisbigliare in un sibilo “ posso
fare in modo che il vampiro esca, ma lascia stare i clienti fissi e – lo
osservò rivolgere un’occhiata all’angolo più buio del locale, dove un demone
stava per essere servito- …” non terminò la frase, vistosamente nervoso.
* *
*
aveva
appena finito di versare un secondo cocktail all’avventore incappucciato vicino
a lei, quando fece saettare di nuovo gli occhi attraverso la sala: cercò senza
fretta tracce della presenza della cacciatrice, e notò invece il vampiro che
usciva con passo incerto.
Lei doveva
già essere fuori allora
Poteva
quasi immaginare la scena: lei lo avrebbe aspettato, dietro la porta magari,
con il paletto già in mano…
Poi la
vide, seduta ad un tavolo isolato che confabulava con il barista, di cui colse
una rapida quanto ansiosa occhiata nella sua direzione.
* *
*
“non sogno
qui per il vampiro – alzò gli occhi – beh…non solo per lui almeno – fissò il
barista qualche attimo, come aveva visto fare negli interrogatori delle serie
tv – sto cercando questa ragazza”
estratta
dalla tasca stirò alla bellemeglio una fotografia, facendola scorrere sul
tavolo verso di lui
“si chiama
Buffy Summers”
l’uomo osservò
per lunghi secondi senza cambiare espressione, e alla cacciatrice sembrò quasi
di vedere, oltre i suoi occhi, il lavorio incessante della mente, mentre
rifletteva sulla mossa migliore.
Capelli
biondi raccolti indietro, nemmeno un filo di trucco e grandi occhi verdi, un
sorriso appena accennato che le illuminava il viso: così si presentava la
giovane ritratta in quella fotografia.
Nessuno
avrebbe esitato a sostenere che il locale non era il posto giusto dove
cercarla. A pensarci bene non sapeva neppure chi fosse: l’unica informazione
che aveva ricevuto quando era partita da Boston era che il consiglio non era
disposto a darla per dispersa.
Sbuffò: il
suo aspetto era quello di una qualsiasi diciassettenne californiana senza
troppi problemi seri per la testa, non certo di una mezza sbandata in grado di
mettere a rischio i piani di un’organizzazione che combatteva demoni.
“allora?”
si rivolse al barista, che si guardava intorno furtivamente senza più badare al
ritratto
“andiamo
bellezza, credi davvero che una bambolina del genere metta piede in un posto
come questo? – aprì le braccia in modo plateale, indicando poi la porta,
alzandosi – il tuo amico è uscito, se ti sbrighi riesci ancora a prenderlo”
prese il
suo vassoio, poggiandolo sul bancone.
“ci sono altri
bicchieri qui” gridò, per richiamare l’attenzione di qualcuno in fondo al
locale.
* *
*
Avvicinandosi
ai boccali sporchi lasciati dal barista perché li pulisse, osservò la
cacciatrice sporgersi oltre il banco, scrutare i clienti, e sorrise un poco e
senza gioia nel notare l’espressione sempre più tesa del proprietario del
locale.
Una tecnica
un po’ banale – pensò – ma stava funzionando.
Il suo
sguardo però tornò freddo a mano a mano che la penombra in cui si era nascosta
da quando la nuova venuta era apparsa lasciava il posto alla luce giallastra e
fumosa del neon: era sempre più vicina al vassoio.
Lasciando
che i capelli le ricadessero ai lati del viso e abbassando la fronte allungò il
braccio verso i bicchieri vuoti.
Poteva
sentirla vicina, quella ragazza, percepiva il suo sguardo su di lei, che la
vedeva senza riconoscerla. Non intendeva assolutamente incontrare i suoi occhi:
ancora un attimo e poi sarebbe tornata a darle le spalle.
“ehy, hai
una birra?” la cacciatrice si rivolse a lei, con il gomito appoggiato al
bancone, fissando con curiosità mista a circospezione i clienti del locale e
seguendo i movimenti del barista, che si era appena avvicinato ad uno dei
vampiri seduti al tavolo e parlava con lui fittamente.
“certo”
rispose in tono neutro. Fermatasi con il braccio a mezzaria lo ritrasse,
voltandosi per prendere un bicchiere pulito.
Aprì un
piccolo frigorifero posizionato sotto il piano di legno per estrarne una Beck’s
gelata, che stappò con l’apribottiglie arrugginito preso da un cassetto aperto.
Versò il contenuto della bottiglia nel boccale e poi lo poggiò vicino al
braccio di lei, accorgendosi solo allora di essere fissata.
Non disse
nulla, nemmeno il costo dell’ordinazione, ma ricambiò semplicemente lo sguardo,
con l’indifferente freddezza che riservava a chiunque si trovasse là.
* *
*
studiò
ancora un attimo il viso inespressivo della ragazza che la aveva appena
servita, pallido e di una serietà affilata che la induceva ad abbassare lo
sguardo.
Solo gli
occhi verdissimi lasciavano trasparire un spiraglio di emozione, che balenava
solo per essere subito inghiottita da un gelido e collaudato distacco.
Estrasse di
nuovo dalla tasca la fotografia sgualcita, facendola scorrere vicino alla
birra, girata in modo che la ragazza davanti a lei la vedesse dal verso giusto.
“hai per
caso mai visto…?”
…due occhi
verdi…
solo quando
la osservò posare lo sguardo sull’immagine la riconobbe.
E, nello
stesso istante, si rese conto che lei lo aveva capito.
* *
*
il freddo
che la aveva investita percependo la presenza della cacciatrice la colpì di
nuovo, facendola rabbrividire.
Quella
foto…quando le diede un’occhiata sentì una nota stonata nella voce della sua
interlocutrice.
La aveva
riconosciuta.
* *
*
le due si
squadrarono, una davanti all’altra, senza parlare.
Una
silenziosa lotta di sguardi per fissare le regole del gioco: la prima a rompere
il contatto visivo sarebbe diventata la preda, destinata a soccombere al suo
carnefice.
Non c’era
espressione sui loro visi, ieraticamente immobili.
Le labbra
della ragazza dietro il bancone si inarcarono verso l’alto mentre i suoi occhi
diventarono, se possibile, ancora più gelidi.
Il sorriso
si allargò, sino a diventare una controllata risata di scherno.
La
cacciatrice continuava a fissarla, ma il suo viso perse la ferma sicurezza
ostentata prima: quella davanti a lei, quella che le rideva in faccia, con i
capelli neri e il trucco pesante, non era la stessa ragazzina della fotografia.
I suoi occhi, anche i suoi occhi erano diversi, così come i lineamenti affilati
e algidi.
La risata
cessò, ma la bocca rimase inarcata in una smorfia cinicamente divertita.
Allungò la
mano e prese la fotografia con due dita, portandosela di fianco al viso e
inarcando leggermente un sopracciglio
“centro”
con un
movimento dell’indice e del medio che stringevano il pezzo di carta, lo gettò
lontano da sé con un gesto quasi teatrale, senza nemmeno guardare dove cadesse.
Gli occhi
dell’altra invece ne seguirono la parabola fino alla sua conclusione, sotto
l’erogatore di sangue.
“Buffy
Summers – fu il suo unico commento, prima di osservarla senza vergogna da capo
a piedi – io sono Faith”
Un’ombra di
sorriso tornò a solcare il viso della presunta ragazza delle ordinazioni
“la nuova
prescelta immagino, sei venuta per qualche consiglio o solo per una birra?”
Faith al
fissò e Buffy potè leggere lo sperdimento nei suoi occhi.
Il suo
sorriso si allargò.
Poggiò le
mani sul bancone e si avvicinò al suo viso
“mi credevi
una liceale scappata di casa?” le sussurrò lentamente all’orecchio
Faith
indietreggiò di qualche passo, passando gli occhi da un lato all’altro della
sala, sentendosi improvvisamente osservata.
Il contatto
visivo era rotto e i ruoli assegnati: la cacciatrice sarebbe diventata la preda
di chi era andata a catturare.
Il viso di
Buffy tornò a contrarsi in una smorfia di rabbia misurata, sfiorandosi una
guancia per tirare indietro una ciocca scura che le era ricaduta davanti agli
occhi.
“insieme
alla foto non ti hanno allegato un trafiletto con scritto ‘attenzione
cacciatrice’?”
la guardò
dall’alto in basso, soffermandosi con insano piacere sul volto disorientato
Faith
scosse la testa. La sua voce suonava secca ed afona, forte di una nota decisa
ma allo stesso tempo incredula:
“ce n’è
solo una, una…”
fu
interrotta da un risolino rabbioso
“…una per
generazione? No bellezza, una per sostituire quella morta”
con la
birra non ancora toccata davanti, Faith la guardava senza replicare. Dalla sua
espressione traspariva una tiepida sorpresa, superata però da una più presente
incomprensione di quanto le veniva detto.
Buffy la
fissò, decidendosi,questa volta, a parlare senza la nota aggressiva con cui le
si era rivolta fino ad allora.
“ma la tua
domanda adesso è: perché allora ce ne sono due, vive?” le sorrise, quasi con
simpatia, per poi darle le spalle ed iniziare ad asciugare un bicchiere.
Dopo
qualche secondo si voltò di nuovo e il suo viso aveva riassunto la maschera di
scherno che era stata smessa poco prima.
“tornatene
al tuo inferno cacciatrice – scandì con insofferenza, lasciando intendere che
non aveva intenzione di protrarre ulteriormente la conversazione – lascia
perdere questa storia e tutto sarà di nuovo come prima di venire qui:
combatterai, ucciderai, vincerai. E prima o poi verrai eliminata, come tutte,
puoi solo sperare che succeda il più tardi possibile” pronunciò queste parole
con chirurgico distacco.
“Il
consiglio ti rivuole indietro” fu l’unica cosa che riuscì a replicare,
sussurrandola con voce roca, tanto candidamente da sembrare ingenua.
Per un
attimo gli occhi di Buffy brillarono di rabbia. Le si seccò la gola: il
consiglio, il consiglio voleva riportarla a Sunnydale.
Non
rispose, ma si limitò a fissare Faith con uno sguardo che lei non riuscì a
decifrare: era cosa? Un avvertimento, una supplica…? Quegli occhi verdi, così
diversi da quelle della diciassettenne della fotografia, sembravano rivolgerle
ora una richiesta d’aiuto, ora una muta minaccia.
Così Faith
si comportò nell’unico modi che ritenne possibile: prese il bicchiere di burra
ancora posato sul banco e si diresse alla stesso tavolo dove poco prima era
stata seduta con il barista. Tutto senza una parola, ma solo percependo la
presenza quasi tangibile di quegli stessi occhi che, poteva immaginarlo,
rimasero puntati su di lei sino a quando non
si sedette.
I loro
sguardi rimasero uniti da un filo teso e invisibile ancora qualche secondo,
poi, d’un tratto, quella che era stata Buffy Summers si allontanò con ostentata
indifferenza, raggiungendo il suo capo dalla parte opposta del locale.
* *
*
La luce era
fioca, tuttavia Faith aveva la sensazione di distinguere ogni più piccola
imperfezione del legno che formava, con le altre, un fitto intrico di simboli a
cui dava un senso. Una fenditura orizzontale si incontrava con tanti strisci
verticali: appena sopra si distingueva perfettamente un a casina. Una casina e
il suo steccato.
Scosse la
testa, incrociando le braccia sulle crepe del legno e bevendo un altro sorso di
birra.
* *
*
Per
l’ennesima volta, impercettibilmente, Faith spostò gli occhi deal punto
indefinito del muro al suo orologio da polso.
Chiuse gli
occhi, poggiando la testa indietro, sul pannello in legno a cui dava le spalle,
subito dietro la sedia, che formava, con uno parallelo, la stretta anticamera al bar vero e proprio.
Il
bicchiere era vuoto ormai davanti a lei, solo mezzo dito di schiuma bianca sul
fondo.
Strizzò gli
occhi, rompendo l’immobilità che si era imposta per strofinarli con le dita: le
lacrimavano.
Si guardò
intorno: uno dopo l’altro aveva visto
sfilare verso l’uscita quasi tutti i clienti e seguito con lo sguardo
chi le avevano ordinato a trovare, mentre puliva i tavoli rimasti vuoti con una
pezza umida e rimetteva a posto le sedie: tutto senza dire una parola, senza
rivolgerle nemmeno un’occhiata che indicasse quantomeno il fatto che avesse
notato che lei si trovava ancora lì.
Ad essere
sinceri, nemmeno sapeva dire con certezza perché era rimasta. In fondo cosa le
importava di quella ragazza? Credeva davvero alle sue parole? Eppure stava
seduta in uno squallido bar di periferia e domandarsi se denunciarla senza
nemmeno prendersi la briga di portarla lei stessa al Consiglio oppure
comunicare che quella del bar era solo l’ennesima soffiata sbagliata e che lì
non c’era nessuna diciassettenne dai capelli biondi.
C’era
qualcosa in quella Buffy Summers, qualcosa di inquietante ma che allo stesso
tempo non le permetteva di andarsene. Non prima almeno di aver risposto alle
domande che prima le aveva sbattuto in faccia. Prima le era bastato sapere solo
che lei era un prescelta e che, quindi, il suo destino era quello di
combattere. Sempre e comunque. Certo, si era chiesta chi ci fosse stata prima
di lei, ma poi l’istinto aveva preso il sopravvento: e questo le richiedeva
solo di essere pronta ad usare il suo potere.
Adesso però
c’era un altro interrogativo irrisolto, in fin dei conti l’unica cosa che la
incuriosiva di ciò che le stava attorno: chi era stata Buffy Summers.
Come era
finita una presunta cacciatrice a fare da cameriera in un bar per demoni? Cosa
la aveva trascinata così in basso e perché voleva rimanerci?
Se c’era
una cosa che aveva imparato da quando era stata attivata, era che una volta
diventata cacciatrice, esserlo diventa parte del tuo essere, ti scorre come
sangue nelle vene, influenza il tuo modo di pensare e di agire, diventa il tuo
demone personale, non dissimile da quello che invade il corpo di ogni nuovo
vampiro. Era stato il suo compito di cacciatrice a ridurla in quello stato, ad
aprire sotto di lei il gorgo che la aveva annegata tra i suoi flutti?
Guardò di
nuovo, furtivamente, in direzione di Buffy: letale, gelida e sconfitta.
Lei era
stata mandata a cercare una ragazza, una diciassettenne scomparsa da una città
satellite di Los Angeles, ma quella che aveva trovato era una donna. Una donna
che sembrava aver già visto troppe cosa, vissuto sufficienti esperienze, una il
cui viso trasudava stanchezza, stanchezza per tutto ciò che le stava attorno,
forse anche della vita stessa.
C’era
davvero dolore dietro quella freddezza? Non era mai stata brava nel giudicare
le persone, né a comprendere il loro modo di agire, ma una cosa le era subito
saltata agli occhi, colta epidermicamente ad un primo sguardo: in Buffy c’era
qualcosa, qualcosa di più grande di lei, qualcosa di disprezzato ma
inscindibile dal suo essere, una parte di lei che stava alla base della sua
anima, percotendola senza pietà.
E Faith
riusciva a sentire di cosa si trattasse.
Ci si
riduceva in quello stato ad essere cacciatrici? Rimaneva davvero solo l’ombra
di chi si era state, prima?
Aprì gli
occhi, che aveva socchiuso per la stanchezza e per il bruciore causato da l
fumo, e vide qualcuno, seduto davanti a lei con una sigaretta appena accesa tra
le dita.
Il suo viso
era in ombra, lasciandone però intravedere i lineamenti, solo le sue mani
risultavano perfettamente visibili, perché poggiate sul tavolo con
un’educazione di altri tempi, che stonava decisamente in un locale di quel
tipo: non toccava nemmeno il piano,ma solo gli avambracci si puntavano sul
bordo.
Le dita
erano arrossate, le unghie smaltate di nero corte ma curate, i palmi e il dorso
escoriati e purpurei. Tuttavia stringeva con forza la sigaretta tra l’indice e
il medio, tirando boccate brevi e misurate e lasciando cadere la cenere per
terra.
I suoi
occhi erano fissi su di lei, come se indecisi sul da farsi, ma curiosi,
probabilmente di scoprire perché Faith fosse ancora lì.
Rimase
immobile e silenziosa per qualche attimo, fumando senza fretta: il suo respiro
regolare, tranquillo, nell’espressione nulla che ricordasse né la rabbia né lo
sperdimento che aveva provato nell’apprendere che il consiglio la stava
cercando.
Finì la
sigaretta senza dire un parola, fino al filtro –notò Faith- esattamente come
faceva anche lei.
“perché sei
ancora qui?” la sua voce atona non tradiva nulla, nemmeno più l’indifferenza di
prima
“hai finito
il turno?” Faith rispose con un’altra domanda, indicando con lo sguardo il
barista, ancora intento a riporre i bicchieri sugli scaffali. Il bar semivuoto,
le sedie già capovolte sui tavoli e solo qualche cliente ancora seduto al
bancone.
“sì – si
bloccò un attimo, riprendendo a poi a parlare con voce fiaccamente meccanica,
con lo stesso tono con il quale chiedeva ai clienti l’ordinazione – rispondi
alla mi a domanda”
solo gli occhi
lasciavano trasparire la stanchezza, che sembrava aver lentamente preso
possesso del suo corpo: non più rigido sulla sedia, ma adagiato ad aderire allo
schienale.
Faith prese
il suo bicchiere vuoto e se lo rigirò tra le mani: percepiva che era distrutta,
che voleva tornarsene a casa o dovunque vivesse, ma sapeva che non lo avrebbe
confessato.
E lei non
glielo avrebbe permesso allora.
“voglio
saperne di più e tu sembri informata” la fissò con malcelato interesse
Buffy vide
il scintillio nei suoi occhi mentre le formulava quella domanda. Quasi sbuffò:
quella ragazza, la nuova Cacciatrice, aveva qualcosa che lei, nemmeno agli
inizi, aveva.il desiderio, la brama di possedere a pieno il potere insito nel
compito di prescelta. Lo percepiva.
Lo aveva
mai provato lei?
Fece una
smorfia: “chiedi al consiglio, è per loro che lavori”
Vide Faith
rabbuiarsi, frenando il suo slancio e la sua appena riacquistata spavalderia,
la stessa che aveva ostentato entrando nel locale.
“mi hanno
detto di riportarti indietro” fu tutto ciò che le rispose, con un’innocenza che
mal nascondeva un’insita minaccia
“ a
Sunnydale?” pronunciò la domanda tranquillamente, ma non riuscì a controllare
una sfumatura tanto angosciata quanto malinconica nella voce
la
cacciatrice alzò le spalle, sprofondando ulteriormente sotto il tavolo
“non lo so
– tamburellò due dita sul tavolo, guardandosi intorno – io dovevo solo
ritrovarti” accennò ad un mezzo sorriso, carico di una sorta di canzonatorio
disinteresse
Buffy si
irrigidì guardandola, una fitta la colpì nel sentire la risposta. Ma durò un
attimo, poi anche lei alzò le spalle, sorridendo con rabbia amara
“già. Non è
tuo compito no?”
si sistemò
una ciocca scura dietro l’orecchio, sul quale contava una lunga fila di
orecchini, e ripresea fissare chissà cosa oltre le spalle di Faith.
Faith
abbassò gli occhi, tornando a studiare le venature del tavolo.
Buffy si
ritrovò a pensare che, se quella ragazza avesse prestato un minimo di
attenzione, avrebbe percepito la sua vulnerabilità: sentiva di nuovo l’angoscia
correrle lungo la spina dorsale, come un brivido ininterrotto. Avrebbe dovuto
andarsene da Los Angeles, anche quella notte stessa, non appena si fosse
liberata di lei. scappare di nuovo…ma dove andare? La risposta che subito le si
affacciò alla mente un tempo la avrebbe sconvolta, ora sembrava tanto semplice
quanto comoda: ovunque, tanto cosa cambiava?
Ripensò
alla fotografia ancora a terra vicino all’erogatore: come era arrivata a
ridursi in quello stato? A dover fuggire, a vivere come un’ombra? Dove era
finita la ragazzina bionda che era stata…probabilmente sepolta sotto le macerie
di un potere che la aveva sgretolata dall’interno, sino a non lasciare in lei
altro che polvere, cenere e polvere. Certo, quella era solo una delle infinite
risposte possibili. Gliene sarebbero venute in mente altre, altrettanto
veritiere, nell’arco di quella notte. come ogni notte.
Prese
impercettibilmente fiato, cercando di riprendere il controllo. Non era il caso
di dare alla sua interlocutrice un altro punto di vantaggio a cui aggrapparsi.
Faith ruppe
il silenzio raddrizzandosi sulla sedia e sporgendosi in avanti, verso le mani
di Buffy, ancora posate sul tavolo. La sua voce era ridotta ad un sussurro,
dopo un leggero sospiro prima di iniziare a parlare.
“senti…Buffy
– pronunciò il suo nome con tono incerto, come se si fosse improvvisamente
accorta di essersi concessa troppa familiarità rivolgendosi a lei in quel modo
– io…- si guardò intorno quasi con imbarazzo – ehy, mi ci hanno mandato loro
qui a cercarti, posso anche tornare indietro e dire che non ho trovato nessuno
– riportò gli occhi sulla sua interlocutrice- per loro sarà solo un altro buco
nell’acqua dopo settimane di ricerche”
per un
attimo le sembrò quasi che Buffy stesse per scoppiare a ridere ma, dopo qualche
secondo, vide la sua espressione tramutarsi solo in un sorriso tanto
indifferente quanto divertito:
“e perchè
dovresti farlo Faith?” si stupì lei stessa dell’inusitata famigliarità con cui
si rivolgevano una all’altra.
Cos’era
quella, una proposta d’aiuto? L’esasperazione causata dalla conversazione
cresceva in lei, chiudendole la gola e irrigidendole le membra. Voleva solo
essere lasciata sola, come avrebbe sempre dovuto essere stata.
Faith si
prese un attimo per rispondere, lanciandole poi uno sguardo intenso, teso a
sottolineare che intendeva davvero ciò che stava per dire: “perché non sono la
portavoce di nessuno, tantomeno del consiglio”
Buffy rise
di nuovo, amaramente però:
“ogni
cacciatrice lo è, da secoli”
“anche tu
allora” Faith alzò gli occhi con un mezzo sorriso
“lo sono
stata, in passato” la sua risposta suonò dura quanto secca, da non ammettere repliche
“e poi adesso ci se tu no? Dentro il nuovo e fuori il vecchio. Fatti onore”
c’era scherno nella sua voce, diretto e plateale.
Faith la
fissava con i gomiti sul tavolo: di fronte a lei stava un’altra cacciatrice.
Un’altra che aveva assistito impotente allo scriversi del proprio destino ad
opera di uno sconosciuto venuto da chissà dove, che le aveva messo in mano un
paletto.
Poche
persone in vita sua la avevano realmente colpita, indotta a provare la stessa
fragilità che riusciva sempre a nascondere, e Buffy Summers ne era stata
capace. Si ritrasse, scostando lo sguardo e strofinandosi il cinturino di cuoio
che portava al polso.
Tra le due
cadde un silenzio pesante quasi quanto la cappa di fumo che infestava la sala
senza accennare a diradarsi, rotto poi dal rumore dell’acciaio sfregato di un
accendino: Buffy tirò una boccata della sigaretta appena accesa, poggiando una
mano su un pacchetto un po’ sgualcito di Lucky Strike. Non aveva smesso di
osservare Faith.
Quando lei
si decise a ricambiare lo sguardo, constatò che né nel viso affilato,
incorniciato dai capelli corvini, né in quei modi così calcolati era rimasta
traccia della diciassettenne della fotografia.
“sto
provando a mettermi nei tuoi panni Faith – la sua voce suonava di nuovo priva
di inflessione – e mi sembra proprio che tu sia finita in un bel casino”
“la mia
missione era trovarti, per cui dovrei essere a buon punto invece” Faith alzò la
testa con un mezzo sorriso che sottolineava il tono canzonatorio
“e tu pensi
davvero di poterti solo – aprì leggermente le braccia, facendo cadere sul
tavolo un po’ di cenere – alzare e andartene?” inarcò il sopracciglio
dicendolo: non si aspettava una risposta.
Faith smise
di guardarla, quasi avesse perso interesse in chi le stava davanti, e trovasse
improvvisamente più attraenti le mosse dei pochi clienti rimasti
“pittoresco
vero?- Buffy alzò le spalle con sufficienza svogliata – l’ho pensato anch’io la
prima volta che sono entrata”
“cosa fai
in un posto del genere” la domanda suonava più come un’affermazione. Lo sguardo
di Faith vagava freddo per il locale, senza soffermarsi più di qualche istante
su ciò che vedeva: dal barista di mezza età, con i capelli ormai grigi e tinti
di nero, che indossava una sporca canottiera bianca sopra il grembiule, ai
vampiri che sedevano al banco, stravolti dall’alcool, per concludere con i
mobili da pochi soldi, ancora umidi della veloce passata ricevuta con la pezza
bagnata e inconsuetamente ordinati rispetto a quando era entrata.
Lo
squallore del vicolo era permeata in quel posto e infettava chiunque entrasse,
come una muffa che si fa poi fatica a scrostare. E, in mezzo a questo, immersa
fino al collo nella putrida solitudine che tutti lì cercavano di colmare, stava
lei.
Se, con
quell’affermazione, credeva di veder accendere qualcosa in Buffy le sue
aspettative furono disattese. Lei si limitò a puntarle addosso uno sguardo
freddo, incorniciato dall’impassibile ieraticità del viso.
”da quanto sei cacciatrice?” sussurrò l’ultima parola con una sorta di ormai
distaccato disprezzo
“quattro
mesi mi sembra” la domanda le suonò stranamente inconsueta
Buffy
chiuse gli occhi: dalla morte di Kendra quindi. Uno dei pesi che si sarebbe
portata sulle spalle in eterno.
“Non puoi
capire quindi”
Faith si
irrigidì: cosa non poteva capire? Il fatto di doversi sacrificare, di rischiare
la vita ogni notte, di non essere più accettata e capita dagli amici? non che
ne avesse mai avuti molti, comunque.
“cosa non
posso capire Buffy? che la vita non è rosa come ti raccontano? Che è in palio
ogni notte?”
la sua
rabbia non fece altro che accendere quella di Buffy
“la morte
–sussurrò – non puoi capire la morte. Lascia che ti racconti una storia Faith:
io sono diventata cacciatrice due anni fa, ho combattuto contro demoni, vampiri
e ogni sorta di mostro si trovasse a passare sulla bocca dell’inferno. Tutte le
notti, senza mai poter dire basta. Posso immaginare come la pensi riguardo
tutta la storia dell’essere prescelte, del poter dire di stare dalla parte
giusta della barricata o roba del genere. Anch’io ero di questo parere sai?
Voglio dire, suona così giusto mentre lo racconta il tuo osservatore no? Una
per generazione, ed ero io – fissò Faith quasi con curiosità – scommetto che la
cosa ti affascina ancora. Ti senti superiore vero? Credi di poter salvare il
mondo e questo ti piace, ti fa sentire potente. –sorrise amaramente – non siamo
in un film, il bene non vince sempre, a pensarci bene non è nemmeno questa la
questione…” fu interrotta bruscamente
”…è una questione di potere infatti. E tu ce l’hai come ce l’ho io”
Buffy fece
una smorfia
“perché sei
diventata cacciatrice, te lo sei chiesto?”
Faith la
fissò, in fondo le importava davvero? Alzò le spalle
“forse
hanno deciso di attivarne un’altra per…”
“Il maestro
di Sunnydale mi ha quasi ucciso un anno fa – spense la sigaretta sul tavolo,
lasciando lì il mozzicone – il mio cuore si è fermato per alcune decine di
secondi. Annegamento – sorrise freddamente, quasi volesse sfidarla ad ascoltare
ancora – una profezia me lo aveva preannunciato sai? Ma anch’io avevo il potere
ed era necessario che qualcuno fermasse l’ascensione. Avevo sedici anni. Sai
cosa vuol dire decidere di mettere fine alla propria vita a sedici anni? –
allontanò lo sguardo – un mese dopo è arrivata Kendra. Attivata dopo la mia
presunta morte”
Faith
corrugò la fronte
“anche lei
aveva il potere, anche lei era stata scelta. Anche lei è morta, circa quattro
mesi fa” pronunciò le ultime parole più lentamente, guardando Faith negli occhi
“siamo carne da macello, tutto qui. Uccidiamo o veniamo uccise. Soffriamo o
facciamo soffrire e poi ce ne andiamo e subito ne arriva un’altra. Il mondo non
ne ha mai saputo niente. Dimmi Faith. È potere questo?”
Faith la
fissò, non era in grado di articolare una parola. In fondo aveva sempre saputo
quello che Buffy le aveva appena sbattuto in faccia. Carne da macello, era così
che lei si sentiva?
Osservò la
sua mano stretta a pugno sul tavolo: sentiva in lei il potere. Il potere di
superare ogni notte, il potere di sopravvivere. Le sue unghie si conficcarono
nella carne: cos’era stata prima di diventare cacciatrice?
Buffy fissò
la sua interlocutrice: Faith aveva mai riflettuto seriamente sulla morte? Si
era già trovata a farci in conti? Probabilmente non ancora. E probabilmente non
aveva nemmeno cominciato a soffrire lei stessa a causa di quel morbo subdolo e
letale che prima o poi le avrebbe fatto
da compagno: la solitudine.
Faith non
sapeva cosa aggiungere, cosa dire o rispondere. Aveva mai visto una persona
morire? Una vittima uccisa prima di essere riuscita a fermare il demone? In un
attimo passò al vaglio ogni notte degli ultimi quattro mesi: no.
Non
conosceva il tipo di morte di cui parlava Buffy, quello che sembrava aver
portato il gelo sul suo viso.
Immaginò il
volto del suo osservatore, ripensò ai suoi consigli: nemmeno in quelle parole
aveva mai letto nulla di comparabile. Tutto ciò che le aveva insegnato era che
esisteva il male e che lei, Faith, era nata per combatterlo. Tutto il suo mondo
si basava sul semplice fatto che si trovava in una posizione privilegiata
rispetto agli altri perché, nonostante fosse sempre la sua la vita in gioco,
erano loro quelli che avevano bisogno del suo aiuto.
E nessuno
ne aveva mai avuto bisogno, prima di diventare cacciatrice.
…gli altri:
chiunque fossero questi “altri”. Potevano essere chiunque e non sarebbero mai
stati nulla di più: solo atri, senza visi ne nomi, senza storie, ma solo vita
pulsante che andava salvata in quanto tale.
Dalla parte
opposta del tavolo, Buffy guardò la ragazza che le stava seduta di fronte: così
giovane, come lei del resto. Già, solo due ragazze. Con una storia così diversa
però. Le bastava cogliere il suo sguardo per capire che non era in grado di
rispondere…probabilmente perché, anche se ciò che le aveva appena raccontato metteva
in crisi quel postulato al quale era attaccata, tuttavia lei ci credeva ancora.
Credeva ancora di avere il potere. Di essere invincibile, di essere immortale.
Sorrise
amaramente, increspando appena le labbra. Si sentiva stanca, stanca
fisicamente. Perché si era convinta a parlarle, perché le aveva raccontato di
Kendra? A cosa era servito rivangare ricordi ormai sepolti sotto la cenere del
suo animo corrotto? Corrotto dal mondo, dalla realtà che si era trovata ad
affrontare e che non le aveva lasciato nulla.
Solo il
vuoto. Il vuoto nel quale non aveva potuto fare altro che buttarsi.
Perché
nessun potere combatte la solitudine.
Faith:
nemmeno la solitudine la aveva toccata? Nemmeno lo strazio di camminare nel
buio due passi avanti agli altri la aveva piegata?
Era bella.
Era forte. Ancora illuminata dalla luce fatua della sfida. Una sfida che lei
aveva perso quando era stata costretta ad uccidere l’unica persona che fosse
riuscita a riempire il suo vuoto, o che almeno ne aveva fatto parte.
Lei, Buffy,
aveva perso la sua sfida contro il mondo. In maniera inevitabile e definitiva.
Era caduta e non sarebbe riuscita a rialzarsi.
“cosa hai
voluto dirmi raccontandomi di quella cacciatrice?” Faith alzò lo sguardo verso
di lei
“che non
sei immortale Faith, che sei prigioniera e che lo sarai per sempre” pronunciò
quelle poche parole velocemente, con un filo di voce nervosa.
Basta,
basta. Pregava che tutto finisse, presto. Che quella ragazza si alzasse e
uscisse dalla porta. Non le importava di dover cambiare di nuovo città, di
dover ricominciare da capo. Bastava che se ne andasse.
Buffy si
toccò la fronte con una mano, trovando momentaneo sollievo nel suo palmo freddo
sulla pelle bollente.
“e questo
basta per scappare? Per rintanarsi in un buco e rinunciare a tutto? Per
smettere di combattere? Avrai una famiglia, qualcuno che tenga a te…” Faith
continuava a parlare, come un fiume in piena che abbatte gli argini e travolge
ogni cosa. Quasi non vide Buffy strofinarsi la fronte, quasi non si accorse che
si era alzata.
Si bloccò.
lei le dava le spalle.
Buffy si
girò lentamente, respirava quasi con affanno, i capelli le ricadevano scomposti
intorno al viso.
Sorrise con
rabbia che presto le deformò i lineamenti in una sorta di smorfia.
“questo non
basta? – la sua voce si alzò, come un vago stridio – non ti basta la morte, non
ti basta la solitudine? Ma non capisci…nemmeno la solitudine capisci? – aprì le
braccia, coma ad indicare ciò che la circondava, poi le lasciò cadere con
sconforto. L’angoscia cresceva in lei senza che potesse fare nulla per
arginarla – io ho messo in pericolo la mia famiglia! Mia madre…mia madre mi ha
cacciato e sai perché? perché nessuno capisce! Nessuno capisce cosa sono, in
che mondo sono stata costretta a vivere, cosa sono stata costretta a fare
perché era la cosa giusta. Io…cosa credi che siamo Faith, cosa credi che siamo?
Ma guardati! Siamo ragazze ma allo stesso tempo non possiamo esserlo! Non
possiamo esserlo perché da qualche parte c’è sempre un pericolo, qualcosa da
combattere, qualcuno da uccidere e non possiamo farci niente… - il suo tono di
voce tornò basso, fino quasi a raggiungere l’intensità di un sussurro. Distolse
lo sguardo, puntandolo verso l’alto. La luce del neon si infranse nei suoi
occhi lucidi – io ci ho provato, ho fatto la cosa giusta. Sempre. – la guardò
con rabbia – io sono morta maledizione! Sono morta per salvare la mia città,
sono morta per salvare il mondo e sai una cosa? Poi ho solo dovuto prendere
atto che lo dovrò fare ancora e ancora, senza mai dire basta. Non si vince il
male…si rigenera sempre – sorrise- proprio come le cacciatrici. Puoi sopportare
la solitudine? Poi sopportare gli sguardi dei tuoi amici e quelli di tua madre
che ti guardano senza capire? –la sua voce era tornata dura – io non ce la
faccio”
“perché qui
allora? Loro ti capiscono?” Faith indicò i pochi clienti ancora nel bar
ora il suo
tono era scosso da un leggero tremito. Imitò un sorriso
“Guardali.
Sono tutti spenti, tutti vuoti. Tutti soli. Vengono qui a cercare qualcosa e
tornano ogni notte, non possono semplicemente farne a meno e si illudono di
riuscire a trovarla qui – alzò le spalle – non ci sono solo demoni sai? Donne,
soldati, borghesi. Si nascondono dai loro incubi personali, scappano da quello
che sta fuori. – respirò profondamente, la sua voce atona sembrava riprendere a
poco a poco la calma ostentata con cui le si era rivolta sin dal primo istante
– e io non sono migliore di loro. Vogliamo tutti la stessa cosa in fondo”
“e
sarebbe?”
Buffy tornò
a sedersi. Abbandonandosi mollemente sulla sedia
“la pace”
sussurrò
Faith alzò
le spalle
“Non credo
tu l’abbia trovata. – la fissò, un barlume di sfida non del tutto sopito negli
occhi – l’unico modo è la morte, no?” lo disse con un tono amaramente
canzonatorio, cogliendo il paradosso della sua affermazione
Buffy rise
con lei, chiudendo gli occhi
“credi che
non ci abbia pensato? Ma vorrebbe dire un’altra cacciatrice attivata. – alzò le
palpebre, che sentiva ormai pesanti come macigni – e poi c’è un altro fatto. Io
non voglio morire Faith. Non voglio morire”
era vero.
Nonostante tutto. Una forza inspiegabile, impietosa, insopprimibile la legava a
quella vita, a quel potere che tanto avrebbe voluto uccidere, estirpare. Ma, a
rifletterci, chi sarebbe stata poi senza? Cosa sarebbe stata? Aveva paura…paura.
Ma questo no, questo non glielo avrebbe mai detto. Aveva già aperto uno
spiraglio dal suo vaso di Pandora, non intendeva scoperchiarlo completamente.
Poteva parlare di morte, poteva parlare di solitudine, ma non di paura.
Anche se la
sentiva come un grido anche nella ragazza che le stava di fronte.
And she said, - e lei
disse
'we are all just prisoners here,
of our own device' - 'Noi
siamo tutti prigionieri del nostro nuovo congegno'
And in the master's chambers, - e
nella camera del padrone
They gathered for the feast - si
sono raccolti per il banchetto
They stab it with their steely knives, - lo trafiggono con i loro coltelli in acciaio
But they just can't kill the beast - ma non possono uccidere la bestia
Faith si
alzò in piedi a sua volta, facendo il giro del tavolo sino a trovarsi a pochi
passi da lei. La sua ombra oscurò il viso dell’altra cacciatrice, impedendole
di vederne i lineamenti.
“ e allora
cosa fai ancora qui? Hai intenzione di passare così quanto tempo? Un mese, un
anno…quanto Buffy?”
Il respiro
di Buffy era tornato normale. Gli occhi non avevano più quel riflesso
luccicante che precedeva le lacrime, ma erano tornati freddi e vacui. Senza più
traccia dell’angoscia che la aveva assalita prima.
Si alzò in
piedi anche lei, come se fosse la prima volta che lo faceva, sino a trovarsi di
fronte a Faith.
“è ora che
tu te ne vada Faith. Hai sentito abbastanza per questa notte” il gelido candore
con cui pronunciò quelle parole non aveva nulla del tremolio amaro che la aveva
quasi portata alle lacrime.
Faith la fissò. Un
brivido freddo le percorse la schiena nel sentire quelle parole, ma fu solo un
attimo: poi la sensazione si tramutò in piacere.
Sorrise
quasi.
Decisamente
le piaceva di più quando indossava la sua maschera fredda, piuttosto che quello
sguardo angosciato. Era più facile confrontarsi con lei così, ora. Bastava
guardarla per capire con chi si aveva a che fare: con una cacciatrice, con una
strana razza di demone che, per quanto lo disprezzasse, possedeva il potere e poteva,
anzi amava, usarlo.
Non era una
degli “altri” di quelle figure indistinte che avevano bisogno di essere
salvate. Si sorprese a pensare che, in fin dei conti, anche Buffy avrebbe
voluto esserlo: potersi fermare e aspettare. Aspettare che fosse qualcun altro,
per una volta, ad aiutarla.
Non era
quello che desideravano tutti?
Ma lei,
loro, non potevano farlo. Ed entrambe portavano una maschera. Per quanto tempo,
per quante battaglie, questo solo il caso poteva dirlo, ma non era una novità
che tutti, loro in special modo, dovessero indossarne una.
No, non era
una novità, solo un altro dei difetti insiti nella natura umana.
Ed ecco che
la farsa che stavano recitando era ripresa da dove la avevano interrotta.
Ognuna al
suo ruolo, che vengano abbassate le luci.
Guardò
ancora un attimo Buffy, senza parlare. Sapeva che era il momento della sua
battuta. Che, in un modo o nell’altro, la serata era finita. Che non ci sarebbe
stata un’altra tregua.
Ancora un
attimo…solo un attimo ancora, per imprimerla nella memoria per come era, al di
là di ciò che sarebbe successo l’istante successivo.
L’istante
successivo: era adesso quello presente.
Il momento
di far continuare lo show.
Abbassò il
mento, guardando la cacciatrice che le stava di fronte con un misto di curiosità
e ironia. Curiosità di scoprire come si sarebbe comportata, ironia per
nascondere tutto il resto.
“sarà
B…posso chiamarti B vero? Però credo che tu dovrai venire con me” le sorrise,
con un’espressione falsamente accattivante. Era più facile di quanto avesse
creduto, dopotutto ci era abituata.
Buffy
rimase a guardarla, indecisa sul da farsi. Il loro gioco era ripreso, alla
fine. Bene. Dopotutto era stata lei la prima a riprendere il suo ruolo no?
Voleva che
tutto finisse, che Faith se ne andasse, e quello era il sistema più rapido.
Era inutile
parlare ai sordi e indicare ai ciechi.
“e dove
vorresti portarmi? – le si avvicinò: occhi negli occhi – dal Consiglio?”
Faith alzò
le spalle
“da loro, o
da chiunque voglia una cacciatrice”
Buffy rise,
con la stessa nota fredda della prima volta che si erano parlate, con la stessa
durezza, con lo stesso scherno
“prima non
sembravi intenzionata…sai, credevo cercassi una sorta di cameratismo tra
cacciatrici, o qualcosa del genere”
Faith
rimase colpita un attimo. Una scossa fredda. Poi più nulla.
“e tu credi
davvero che mi importi di te?” la guardò candidamente, con lo stesso sguardo
che si rivolge ad una bambina che ha appena detto una stupidaggine.
“No,
probabilmente non ti interessa sapere che loro mi costringeranno a tornare a
Sunnydale, che tornerò ad uccidere, che tornerò a combattere. Ma ti sei chiesta
cosa potrebbero farsene di due cacciatrici? Ne è sempre bastata una in
passato.”
Faith non
rispose, continuando a sorriderle. Quasi un’esortazione a continuare.
E Buffy lo
fece.
“e se
dovessimo combattere, io e te? Chi vincerebbe? E sarebbe giusto farlo?” la
fissò, in cerca di una risposta.
“Vuoi che
io ritorni ad essere una cacciatrice? – il suo tono era duro. Una sfida
lanciata a viso aperto – bene…”
dal retro
dei pantaloni estrasse unpaletto. Lo stesso che aveva nascosto lì prima di
iniziare il suo turno. Lo stesso con in quale si era difesa, mentre tornava a
casa, qualche sera prima. Lo stesso con il quale aveva salvato una vita, la
notte scorsa.
Ironico, se
ci si rifletteva. Quello era l’unico ricordo dal quale non era riuscita a
separarsi.
In un
attimo era al bancone.
Un vampiro
vi era accasciato sopra, con accanto un bicchiere di vodka.
Lo prese
per i capelli, alzandolo di peso.
Due occhi
gialli si animarono, le fenditure nere fecero ma mala pena in tempo a mettere a
fuoco un viso pallido.
Una nuvola
di polvere si depositò sul pavimento.
Buffy
chiuse gli occhi. Era tutto finito: lo aveva fatto.
Un’altra
volta. L’ennesima volta.
Rimise a
posto il paletto, ignorando la fitta al cuore provata nell’istante stesso in
cui un pulviscolo simile alla cenere si era posato sulla sua mano che stringeva
l’arma.
Tornò verso
Faith. I suoi occhi, animati da una sorta di insopprimibile gioia, ancora più
verdi. Le guance leggermente rosate, le labbra increspate da un sorriso. Una
strana sensazione alla bocca dello stomaco: come una muta esultanza dei sensi
che la fitta di prima non calmava.
“…non sono
mai stata altro. Ci ho provato ma non sono mai stata altro”
“non siamo
così diverse allora” Lo sguardo dell’altra cacciatrice non riusciva a staccarsi
da lei. Dalla mano che, solo un secondo prima, impugnava un paletto; da quegli
occhi, che tradivano ogni sforzo di soppressione di un potere tramandato da
secoli.
Il sorriso
di Buffy si spense, a pochi passi da lei. l’ultima sillaba di quella frase non
ancora pronunciata.
Un lampo
freddo.
Poi Faith
accasciata a terra: il labbro inferiore tagliato e un rivolo di sangue dello
stesso colore del suo rossetto che le scendeva sul mento.
Buffy si
avvicinò ancora di qualche passo, fino ad accostarsi alla ragazza, ancora stesa
a terra. Una mano dalla pelle rossastra e screpolata stretta a pugno.
“sì che lo
siamo Faith. L’unica cosa che abbiamo in comune è che combattiamo per il motivo
sbagliato”
Faith si
raddrizzò, passandosi una mano sul viso per pulire il sangue
“e quale
sarebbe?”
“io lo
faccio per necessità. Tu per piacere. – respirò a fondo- O meglio, lo fai
ancora per piacere”
Buffy le
voltò le spalle, ascoltando il fruscio dei suoi abiti mentre Faith si rialzava
“ma
l’importante è farlo B. E io lo faccio, tu no” la sua voce era grave, abbassata
da un tono che non aveva mai usato
“fino a
quando non finirai prigioniera di un posto come questo” si voltò, con una
pericolosa amarezza negli occhi “vattene Faith…è meglio che scappi prima che
prenda anche te. – le sorrise -
Manderanno qualcun altro, non preoccuparti. Al consiglio non mancano gli
uomini”
Faith si
mosse. Verso la porta.
Inspiegabilmente.
Inspiegabilmente
intimorita. Improvvisamente spaventata. Profondamente cosciente.
“ti
ucciderà questo posto, lo sai vero?”
Buffy non
rispose, la guardò e basta, mentre si avvicinava alla porta.
Faith era a
pochi passi, ora.
Si fermò:
c’era una cosa che voleva sapere, ancora.
“e se
dovessimo combattere, io e te?”
“non
succederà” Buffy la fissò e Faith si trovò a chiedersi dove trovasse tutta
quella sicurezza
“come fai a
dirlo?”
“perché
sarebbe sbagliato” le voltò la schiena, dirigendosi verso il bancone
Faith la
fissò ancora un attimo, prima di afferrare la maniglia e abbassarla con forza.
Si
raddrizzò, chiudendosi la giacca.
“Arrivederci
B” abbozzò un sorriso privo di gioia.
Si
sarebbero riviste e avrebbero combattuto. Lo sapevano entrambe. Perché,
nonostante tutto, per quanto cercassero di evitarlo, era sempre una questione
di potere.
Anche
quando era sbagliato.
Si chiuse
la porta alle spalle. Un soffio di aria gelida le sferzò il viso, nemmeno uno
spiraglio di luce ad illuminare l’oscurità.
Staccò la
mano dalla porta. Dal coperchio di quella tomba.
Last thing I remember,
I was - L'ultima
cosa che ricordo è che stavo
Running for the door - correndo verso la porta
I had to find the passage back - cercai il passaggio che mi riportasse
indietro
to the place I was
before - nel posto in cui ero prima
Si strinse
di più nel cappotto, infilando le mani in tasca, e inspirò la brezza fredda
dell’alba che si faceva sempre più vicina. Era uscita, era fuori. Fuori da
quella cappa di fumo, fuori da quella stanza trasudante angoscia.
Libera.
Buffy
invece era rimasta dentro. Buffy non era uscita.
Si guardò
intorno: nessuno. Solo gelo e buio. E lei, che camminava avanti.
Il freddo
si impossessò di lei, come una selva di aghi che si conficcano nella carne.
Si voltò un
attimo verso la porta da cui era appena uscita: forse era quello ciò che
intendeva lei, quando parlava di solitudine.
* * *
Buffy staccò gli occhi dalla
porta, che si era appena chiusa alle spalle di Faith.
La polvere del vampiro era
ancora a terra, sullo sgabello.
L’angoscia crebbe in lei,
libera finalmente di esplodere. Il potere, la voglia di uccidere, di combattere
ciò che le avevano insegnato essere male: covavano in lei, sempre.
E crescevano. Crescevano
esattamente come la solitudine.
Anche Faith lo aveva capito,
alla fine.
Guardò di nuovo la porta: là
fuori, lì dentro. C’era davvero così tanta differenza in fondo?
Welcome to the Hotel
California - Benvenuto all'Hotel California
Such a lovely place - un posto così
amabile
Such a lovely face. - un volto così amabile
You can check out any
time you like, - tu puoi lasciare l'albergo quando vuoi,
But you can never leave! – ma non potrai mai abbandonarci