Nei nostri sogni
L’orologio
digitale appeso alla parete
alle sue spalle indicava che la mezzanotte era passata da venti minuti.
In piedi dietro al bancone del pub,
Erza Scarlet stava aiutando la collega Mirajane Strauss a riassettare
le pinte
che i clienti avevano svuotato con pochi sorsi durante quella lunga ed
estenuante giornata di inizio dicembre. C’era ancora qualcuno
a parlottare ai
tavolini del locale, ma presto anche i ritardatari se ne sarebbero
dovuti
andare: mancava poco all’ora della chiusura.
-Sai cosa ti dico?-, stava chiedendo
Mirajane, chiudendo dietro le apposite vetrine gli alcolici utilizzati
per
preparare i cocktail. -Sono felice di essere riuscita ad aprire un pub
tutto
mio. È una soddisfazione essere autonomi-.
Erza annuì con un cenno della testa.
In realtà non stava seguendo affatto il discorso
dell’amica.
-Ho solo paura della concorrenza di
Laxus… E se ce la facesse pagare per aver iniziato
un’attività indipendente?-.
-Se ne dovrà fare una ragione-,
replicò Erza, facendo il giro del bancone e capovolgendo sui
tavoli liberi le sedie,
così da pulire il pavimento. -Abbiamo lavorato come sue
subordinate per tre
anni, giusto il tempo di fare un po’ d’esperienza.
E mi sembra che il nostro
apprendistato stia dando i suoi frutti, no?-.
Mirajane fu costretta a darle ragione:
sì, avevano aperto quel pub da poco più di un
mese, ma i clienti non erano mai
mancati, anzi. Perfino qualche abitudinario dell’Extreme, il locale di Laxus Dreyar, aveva
deciso di passare dalle
loro parti per una visita.
-Pensi che se la sia presa?-, domandò
titubante Mirajane.
-Lo conosco abbastanza da crederlo,
già-.
Erza sentì la collega sospirare.
-Ehi, ma perché tutta questa
preoccupazione? Mi sei sembrata felice quando ti ho proposto di
abbandonare l’Extreme-.
-Lo sono ancora-, disse con calore la
ragazza, -ma c’è qualcosa che mi
turba…-.
Le lancette dell’orologio ricordarono
loro che tra mezz’ora sarebbe terminata la giornata. Erza
sbuffò.
-Mira, puoi chiudere tu, stasera? Sono
un po' stanca-.
-Lo vedo bene, hai delle occhiaie
spaventose!-, esclamò la collega, riferendosi ai due segni
scuri che le
marcavano gli occhi.
-E con questo cosa vorresti dire?-.
-Oh, Erza, non prendertela per così
poco! Piuttosto, torna a casa e riposa. Dio solo sa quanto poco dormi-.
-Dormo abbastanza, te lo garantisco-,
replicò la ragazza, voltandosi e nascondendo uno sbadiglio.
Come al solito,
Mirajane aveva ragione.
-Fatti un favore: non appena sarai
rientrata, chiuditi nella doccia, preferibilmente sotto l'acqua
bollente.
Vedrai, favorirà il sonno. Non farai in tempo ad asciugarti
che cadrai
addormentata sul letto-, le sorrise l'amica, rassettando gli ultimi
bicchieri
dietro al bancone.
-Mi ricordi tanto mia madre-, sbuffò
Erza, avvicinandosi all'uscita. -Non c'è alcun bisogno di
parlarmi come ad una
bambina-.
-Ora vai. Che aspetti?-.
-Ti prometto che domani sera
recupererò il lavoro di oggi-.
-Non crucciarti e lascia fare a me.
D'altronde non sei abituata a turni così lunghi e ti stanchi
facilmente...-, la
prese in giro Mirajane, continuando a sorriderle.
-Sì, come no... Te lo ripeto: se non
ti avessi convinta a rilevare questo bar, staresti ancora lavorando per
Laxus.
O forse non ti dispiaceva poi così tanto?-,
replicò Erza, facendo avvampare le
guance dell'amica.
-Ci vediamo domani-, la congedò
l’altra, spintonandola letteralmente fuori e chiudendo con
una doppia mandata
la porta di vetro. Dal canto suo, Erza non ebbe il tempo di aggiungere
nulla: la
collega aveva già esposto il cartello CHIUSO ed era tornata
alle proprie
incombenze, provando inutilmente a scacciare dai propri pensieri
l'immagine di
Laxus, magicamente evocato poco prima.
"Avranno preso a frequentarsi
fuori dal lavoro", pensò Erza, dissimulando una risata. "Lo
dicevo
che non me la contavano giusta...".
S'incamminò lungo il desolato
marciapiede, stringendosi nell'impermeabile che Mirajane le aveva
regalato per
Natale l’anno prima. Un soffio di vento gelido la fece
rabbrividire e la
convinse definitivamente a farsi una bella doccia non appena fosse
rientrata
nel proprio appartamento.
Il condominio in cui risiedeva non
distava molto dal bar. Normalmente impiegava un quarto d'ora per
raggiungere
casa, ma quella sera, complici la stanchezza ed il freddo, non aveva
alcuna
intenzione di proseguire quella scarpinata.
-Taxi!-, chiamò a voce alta,
avvistando una vettura gialla sbucare dall'angolo opposto della strada.
L'automobile si fermò ed Erza salì, accomodandosi
sul sedile posteriore.
-Buonasera, signorina-, la salutò
l'uomo alla guida, guardandola dallo specchietto retrovisore.
-Buonasera. Potrebbe portarmi al 14G
di Green Lane, per favore?-.
Senza proferir parola, l'autista fece
retromarcia e la condusse a casa in meno di cinque minuti. L'ora tarda
favoriva
il deflusso del traffico, tanto che nella sua corsa il taxi non
incrociò altre
vetture.
-Sono quindici Jewels-, la informò
l'uomo, arrestando l'automobile al margine del marciapiede, esattamente
di
fronte all'ingresso del condominio.
-A lei-, disse Erza, estraendo dal
portafoglio la cifra richiesta e facendo scivolare le monete sul palmo
aperto
del tassista.
-Buona serata-, le augurò l'uomo,
ripartendo a gran velocità e scomparendo nella notte una
manciata di secondi
dopo.
La ragazza lo vide allontanarsi e
risistemò in un taschino della tracolla il proprio
borsellino, rabbrividendo di
nuovo prima di recuperare le chiavi di casa ed entrare nella palazzina.
Una
volta dentro, si affrettò verso l’ascensore che
l’avrebbe portata al quarto
piano, ma dovette constatare di dover prendere obbligatoriamente le
scale: un
grosso cartello era stato affisso accanto all’ascensore ed
una scritta sbilenca
informava i condomini che fosse GUASTO.
Sospirando e passandosi una mano tra i
capelli, Erza si fece forza e salì le rampe, ripetendosi a
mo’ di mantra che il
premio per quell’ultima fatica di fine giornata sarebbe stato
un gran bel sonno
ristoratore, esattamente ciò che ci voleva dopo aver fatto
le ore piccole per
sette giorni consecutivi.
Certo, una parte della colpa era stata
anche sua: in tre occasioni aveva aiutato Mira fino a tardi proprio
come era
successo quella sera, ma le restanti quattro nottate le aveva passate
chattando
con Millianna, una delle sue più care amiche che per lavoro
era stata costretta
a lasciare Magnolia e a trasferirsi in una città a ottocento
chilometri di
distanza. Insomma, conciliare i loro impegni non era semplice e
l’unico modo
per mantenersi in contatto era darsi appuntamento la sera, in chat.
Salì a fatica l’ultima ventina di
gradini e si fermò sul pianerottolo per qualche secondo,
giusto il tempo di
riprendere fiato; inserì di nuovo le chiavi nella toppa ed
entrò
nell’appartamento.
Era un bilocale modesto a cui si
accedeva tramite un piccolo corridoio; sulla destra Erza aveva
allestito un
salottino formato da un divanetto a due posti e un tavolino basso di
fronte a
cui aveva sistemato il televisore. La stanza era separata dalla
successiva
tramite un arco in muratura che portava alla cucina, completa di tavolo
e due
sedie che raramente venivano occupate da altro che non fosse un cumulo
di abiti
da stirare – Erza aveva preso l’abitudine di
stirare lì, visto che quella era
la stanza più spaziosa dell’appartamento. Accanto
alla cucina era situato il
bagno, comunicante direttamente con la camera da letto, vero regno
della
ragazza. Era lì che si rifugiava per leggere –
spesso si era anche chiesta che
senso avesse, allora, mantenere il salotto a disposizione – e
chattare con
Millianna.
Si richiuse la porta alle spalle e
poggiò la borsa sul divano, recuperando il telecomando del
televisore che si
era incastrato tra seduta e schienale; fece rapidamente zapping tra i
canali e
sbadigliando si rese conto di quanto fosse stato effettivamente inutile
comprare uno schermo, visto che i programmi televisivi lasciavano
alquanto a desiderare.
Spense la TV e andò dritta in camera.
La prima cosa che notò fu il monitor oscurato del computer:
si avvicinò alla
piccola scrivania su cui l’aveva collocato e mosse il mouse
per verificare che
desse ancora segni di vita. Mentre il PC si riavviava pigramente e le
ventole
riprendevano a girare, Erza entrò in bagno e
regolò l’acqua della doccia, aspettando
impazientemente che diventasse calda; tornò di nuovo in
camera da letto e
controllò la chat.
C’erano cinque messaggi non letti e provenienti
rispettivamente da Millianna – “Dove
sei
finita? Non dovevamo sentirci per le nove?”
– dal suo amico Simon – “Ciao,
Erza. Stavo pensando… Hai impegni per
sabato pomeriggio? Io sono libero dal lavoro e ho visto che al cinema
è uscito
quel film di cui parli da mesi. Potremmo andarci insieme, che ne dici?
Sempre
se ti va… Non so, dimmi tu” –
da Lluvia Lockser, una ragazza con cui aveva
lavorato prima di lasciare l’Extreme
– “Ho seguito il tuo consiglio, ma Gray non ne vuole
proprio sapere di me”
– da Gray Fullbuster, suo ex compagno di scuola –
“Hai detto a Lluvia di provarci con
me? ANCORA?!” – e da Lucy
Heartphilia, che aveva conosciuto frequentando la palestra locale
– “Tu non ci crederai.
È troppo bello per
essere vero. Natsu mi ha chiesto di stare insieme a lui. Capisci?
INSIEME!”.
Avrebbe dovuto rispondere a un bel po’
di domande – quella che la preoccupava di più
riguardava Simon: negli ultimi
tempi aveva cominciato a comportarsi diversamente nei suoi confronti.
Ogni
volta che si vedevano si mostrava impacciato e lievemente a disagio,
cosa che
prima non era mai accaduta – ma si disse che la
priorità, per il momento, era
la doccia.
Rientrò in bagno, raccolse i capelli
sulla testa per evitare di bagnarli – se avesse acceso il
phon a quell’ora
della notte, i condomini del piano di sotto le avrebbero inveito contro
come
minimo fino al mattino seguente – e una volta fatti cadere a
terra i vestiti
tirò la tendina della doccia, lasciando che
l’acqua lavasse via le fatiche
della giornata. Il vapore la avvolse e la fece avvampare,
costringendola a
tossire; venti minuti più tardi uscì dal bagno
tenendo addosso solo l’asciugamano
che la circondava come una sottospecie di tubino.
Sedette sul letto e si asciugò pian
piano, mentre sentiva il sonno premerle sulle palpebre. Mira aveva
ragione:
niente favoriva il riposo quanto una doccia calda. Erza si ripromise
che
avrebbe ascoltato più spesso i saggi consigli
dell’amica.
Non appena si fu rivestita – aveva
recuperato una camicia da notte di lana dall’armadio e
l’aveva indossata alla
svelta – provò a rispondere ai messaggi ricevuti,
ma alla fine si disse che
avrebbero potuto aspettare. Probabilmente Millianna si sarebbe legata
al dito
la mancata replica, ma Erza era sicura che avrebbe capito la
situazione, una
volta che gliel’avesse spiegata.
Non le rimase che trascinarsi per la
seconda volta a letto e rifugiarsi sotto i numerosi strati di coperte,
cercando
di riscaldarsi. Impostò la sveglia sul cellulare e poi
chiuse gli occhi con la
speranza di addormentarsi subito.
Non si rese conto di quanto tempo le
fu necessario per cadere nel mondo dei sogni.
***
Era
al Magnolia Park. Poteva essere
una giornata invernale o l’inizio della primavera; non
avrebbe saputo dirlo. I
rami degli alberi erano spogli e per terra c’erano scie di
foglie secche che
scricchiolavano al suo passaggio.
Erza si accorse di tenere tra le mani un guinzaglio. A quanto pare
stava portando un labrador – che dedusse fosse il
suo – a passeggio. E pensare che a lei i cani neanche
piacevano troppo!
-Buono-, disse all’animale, tirando il
guinzaglio per evitare che scappasse. -Andiamo a fare un giro, su-.
Si incamminò lungo il sentiero
tracciato dalle foglie, calciandole via di tanto in tanto. Non era mai
stata
un’amante dell’autunno e dell’inverno,
anzi; vedere gli alberi secchi e nudi la
rattristava molto. Quando le chiome verdi cominciavano ad imbrunirsi e
accartocciarsi, pensava inevitabilmente alla solitudine, alla
vecchiaia, alla
morte. Salvo poi riscuotersi da quelle riflessioni tetre e tornare a
concentrarsi su qualcosa di positivo.
Il labrador aveva iniziato a
strattonare il guinzaglio, costringendola a sveltire il passo. Stavano
attraversando tutto il parco, stranamente deserto. E sì che
si ghiacciava, lì
fuori, ma anche nei periodi più freddi dell’anno
c’era sempre gente ad
affollare i prati. Quel giorno, poi, tirava un forte vento e si
stupì nel non
vedere gruppi di bambini far volare gli aquiloni; era un passatempo che
aveva
amato anche lei, da piccola.
-Si può sapere dove mi stai
portando?-, chiese all’animale con non poca stizza. -Siamo
qui per una
camminata, non per una maratona!-.
Ma a quanto pare il cane non voleva
saperne di starsene tranquillo: tirò con più
forza il guinzaglio e riuscì a
divincolarsi dalla presa di Erza, a cui non rimase altro che guardare
il
labrador schizzare via attratto da chissà che cosa.
-Torna qui!-, gridò lei, seguendolo
con il fiatone. -Devo riportarti a casa!-.
Ma perché si preoccupava tanto? Quel
cane era solo un’illusione, no? Non era suo. Non era di
nessuno, per quanto ne
sapeva. Eppure si sentiva in dovere di riprenderlo. Sì,
doveva recuperarlo.
-Buck!-, lo chiamò ancora, stavolta
usando il primo nome che le venne in mente. Chissà dove lo
aveva sentito, tra
l’altro. -Buck! Buck, dove ti sei cacciato?-.
Si guardò intorno, aguzzando la vista
per penetrare la lieve foschia che si era improvvisamente levata:
dell’animale
non c’era traccia. Vagò per qualche altro minuto
senza avere la più pallida
idea di dove stesse andando e di colpo lo sentì abbaiare.
-Buck!-, chiamò per l’ennesima volta,
correndo nella direzione da cui sembrava provenire l’ululato.
E finalmente lo vide.
-Stupido-, disse tra sé e sé,
avvicinandosi all’animale, immobile a qualche metro di
distanza. Si inginocchiò
accanto al cane e recuperò il guinzaglio, concedendogli una
carezza sulla
testa. -Non scappare più, d’accordo? Ti avrei
potuto perdere, sai? E poi cosa
avrei fatto? E se qualcuno ti avesse portato via?-.
Buck continuava a rimanere fermo.
Fissava un punto di fronte a sé con grande interesse e Erza
si chiese di nuovo
cosa fosse stato ad attirarlo da quella parte.
-Hai visto un altro cane con cui
giocare? Oppure hai provato a seguire uno scoiattolo, ma te lo sei
lasciato
scappare?-.
Il labrador abbaiò e si allontanò di
nuovo nella foschia, ma stavolta Erza non si lasciò cogliere
impreparata: tenne
ben saldo il guinzaglio ed evitò che scappasse.
-Ma qual è il problema?-.
-Buck! Su, bello, vieni qui!-.
Una voce maschile ruppe la quiete del
parco. Erza si rimise in piedi e si guardò intorno per
vedere chi avesse
parlato.
-Buck, te ne sei andato? È quasi ora
di cena e se ci sbrighiamo a tornare a casa, ti prometto che avrai una
razione
extra di crocchette. Quelle al pollo che ti piacciono tanto, magari-.
La voce adesso era più vicina. Il cane
abbaiò ancora e Erza pregò con tutte le sue forze
che facesse silenzio.
-Eccoti, allora!-.
Dalla nebbia sbucò un giovane stretto
in un trench nero che gli arrivava a metà coscia ed esaltava
la sua magrezza.
Aveva folti capelli blu che gli ricadevano compostamente sulla fronte,
nascondendo appena un curioso tatuaggio rosso che spiccava sulla
guancia
destra, ed uno sguardo decisamente amichevole.
Il nuovo venuto si avvicinò e si
abbassò all’altezza del labrador, grattandogli con
fare amorevole il muso e le
orecchie; poi rivolse la propria attenzione a Erza.
-Grazie per averlo preso-, le disse
con un sorriso, guardandola dal basso. -Buck è molto
espansivo e quando è al
parco non vede l’ora di correre e giocare qui intorno.
Pensavo che lo avrei
perso per colpa di questa foschia, ma grazie al Cielo è
intervenuta lei. Non so
cosa avrei fatto, se non lo avessi ritrovato-.
Il ragazzo si rialzò e la fissò,
aspettando che dicesse qualcosa. Peccato che Erza fosse a corto di
parole.
-Mi scusi, ma temo che ci sia un
errore-, provò a spiegare lei. -Questo cane è
mio. Sono arrivata al parco
quindici minuti fa e lo portavo con me-.
-È impossibile-, replicò lui. -Si sta
sbagliando-.
-Crede che non saprei riconoscere il
mio cane?-. Allo stesso tempo Erza si chiese perché avesse
cominciato a pensare
che Buck fosse davvero suo.
-Mi sta dando del bugiardo?-.
-Penso solo che si stia confondendo. I
labrador sono cani molto comuni, se non sbaglio-.
-Allora mi dica: come si chiama il suo
cane?-.
-Buck-.
-Ma guarda un po’ quanto è piccolo il
mondo!-, sbottò il ragazzo, rivolgendo gli occhi al cielo e
allargando alle
braccia. -Stessa razza di cane e stesso nome. Non crede che le
coincidenze
siano un po’ troppe?-.
-Senta, è un caso. So solo che questo
cane era con me quando sono entrata-.
-Anch’io sono certo della stessa
cosa-, ribatté lui. -Come risolviamo la faccenda?-.
Quel sogno era paradossale. Erza
avrebbe voluto svegliarsi il prima possibile, pur di non continuare
quell’assurda conversazione.
-Il mio cane è scappato.
All’improvviso è corso via ed io l’ho
seguito-.
-Certo che sì! Stava tornando dal
legittimo padrone!-.
-Ma anche il suo cane ha fatto la
stessa cosa, no?-.
Quell’obiezione era innegabile.
-Quindi?-, domandò il ragazzo.
-Significa che il suo labrador è
ancora in circolazione. Se Buck fosse veramente suo, non avrebbe avuto
motivo
di abbaiare quando l’ha vista arrivare, no?-.
Anche quello era un punto a sostegno
di Erza.
-Oppure la soluzione è un’altra-.
-Sarebbe?-, chiese lei, curiosa e
nervosa allo stesso tempo.
-Quello che sto per dirle potrebbe
sembrarle impossibile, ma visto che questa è tutta
un’illusione… Ha pensato che
potrebbe esserci un solo cane?-.
“Bene”, si disse Erza, “siamo alla
frutta. Talmente alla frutta che anche le persone che immagino sanno di
trovarsi in un sogno”.
-Vuole dire che Buck sarebbe sia mio
sia suo?-.
-Esattamente-, asserì il ragazzo,
facendo un breve cenno con la testa.
-È assurdo-.
-Lo so-.
-Perché dovrebbe accadere una cosa del
genere?-.
-Non lo chieda a me. I sogni spesso
non hanno alcun senso-.
I due si fissarono ancora, mentre Buck
guardava ora l’uno ora l’altra.
-Va bene, siamo ad un punto morto.
Tanto vale fare le presentazioni, no?-, fece notare Erza.
-Oh, giusto-, concordò il ragazzo. -Mi
chiamo Jellal Fernandes-.
-Piacere di conoscerla-, replicò lei,
afferrando la mano che le veniva tesa. -Io sono Erza Scarlet-.
-È un nome adatto-, disse lui,
indicando i capelli che le contornavano l’ovale del viso.
-E il suo invece è… particolare-.
-In che senso?-.
-Si offende se le dico che mi fa
pensare alla parola gelatina?-.
Il ragazzo sospirò: -Ci sono abituato,
ormai. È così che mi chiamavano alle Elementari-.
-Oddio, mi scusi, allora!-, tentò di
rimediare Erza.
-Si figuri. C’è di peggio-.
Per qualche minuto cadde un silenzio
insopportabile. Entrambi pensarono che Buck avrebbe anche potuto
abbaiare,
giusto per allentare la tensione.
-E viene spesso qui al parco?-,
domandò Jellal dopo alcuni secondi di riflessione.
-Non molto, a dire la verità-.
-È un peccato. È un luogo
meraviglioso, tanto d’estate quanto d’inverno. Io e
Buck siamo frequentatori
abituali-.
-Capisco-.
-Ecco perché sono ancora convinto che
il cane sia mio e non suo-.
-Non ricominciamo con questa storia!-,
sbottò Erza, lisciandosi l’impermeabile color
sabbia che indossava. -Anzi, sa
cosa le dico? Che, se vuole, può anche tenerlo lei-.
-Perché mai? Si è battuta duramente
per avere Buck-.
-Non so perché l’ho fatto. In realtà
non vado pazza per i cani-, ammise.
-E si lamenta dell’assurdità dei sogni
quando lei per prima non ha le idee molto chiare?-, la prese in giro
Jellal.
-Senta, cosa devo dirle? Io volevo
solo riprendermi dopo un’intensa giornata di lavoro. Non
è colpa mia se sono
finita in questo parco e ci siamo incontrati-.
-Se è per questo, vale lo stesso per
me-.
-Bene-.
-Bene-.
I due si esaminarono per qualche
secondo. C’era qualcosa di davvero strano, in quel sogno.
-Se non viene al parco, cosa fa nel
tempo libero?-, domandò Jellal.
-Vado in palestra-.
-Quale?-.
-La Makarov Gym, sulla High Street-.
-Passo spesso da quelle parti, ma non
mi è mai capitato di incontrarla-.
-E anche se mi avesse incrociata?-.
-Forse avremmo potuto conoscerci in
circostanze diverse e più piacevoli rispetto a questa, non
crede?-.
Ora Jellal le sorrideva. Non solo era
alle prese con un sogno assurdo, ma aveva anche a che fare con uno
sconosciuto
dall’aria alquanto insolita.
-Può darsi-, rispose Erza, sollevando
un sopracciglio con fare sospettoso.
-Senta, dovremmo ricominciare da
capo-, propose lui, passandosi una mano tra i capelli e spostandoli
dalla
fronte. -Mi sembrava che avessimo iniziato bene, prima che partisse la
discussione. Anche se non abbiamo più idea di chi sia il
vero padrone di Buck,
lei è stata molto gentile nel recuperarlo. Che ne dice di
fare una passeggiata?
Sempre che non abbia fretta, ovviamente-.
Erza soppesò l’offerta: sotto un certo
punto di vista diffidava ancora di quel tipo, ma d’altra
parte c’era qualcosa in
lui che le ispirava fiducia. Forse erano i suoi occhi a rassicurarla:
sembravano dolci, quasi accoglienti.
-Dove vuole andare?-, gli chiese.
-Magari in riva al laghetto? È un
posto che a Buck piace molto e io mi diverto a vederlo correre da una
parte all’altra-.
-Vada per il laghetto, allora-, si
arrese Erza. -Ma sbrighiamoci. Tra poco sarà buio-, fece
notare, puntando gli
occhi verso l’alto e osservando il cielo incupirsi.
-Le prometto che non la tratterrò per
molto-, la rassicurò Jellal. -Non è mia abitudine
infastidire una ragazza
affascinante come lei-.
-Siamo passati dalle accuse alla
cortesia?-, obiettò lei.
-Dimentichi ciò che è successo prima-,
la pregò lo sconosciuto per tutta risposta. -E perdoni il
tono che ho usato.
Non volevo che ci fossero equivoci tra di noi-.
-D’accordo-, annuì Erza. -Farò finta
che non sia accaduto nulla-.
Che sogno bizzarro! Alla fine era
stato lui a porgere le scuse, quando invece era stata lei a dare inizio
alla
polemica.
-Vogliamo andare?-, le domandò.
-Sì. E tenga questo-.
Gli tese il guinzaglio e Jellal lo
fissò: -È sicura di volermi affidare Buck?-.
-Perché no? Non ha la faccia di un
ladro di cani, in fondo-.
L’uomo sorrise e prese il guinzaglio:
-Va bene, va bene. Mi prenderò cura io di questo bestione-.
Si abbassò una seconda volta e
accarezzò la testa dell’animale, che
uggiolò in segno d’approvazione.
-OK, direi che possiamo andare. Erza,
rimanga al mio fianco: se questa foschia dovesse intensificarsi,
rischieremmo
di perderci di vista-.
La ragazza non proferì parola. Si
limitò a seguire Jellal nella nebbia, mentre il cane li
conduceva attraverso il
parco. Pensò che nella vita aveva fatto pochi sogni strani
come quello.
-Lei piace molto a Buck-, aggiunse
qualche minuto più tardi l’uomo.
-Come, scusi?-.
-Deve avergli fatto una buona
impressione, altrimenti non si sarebbe lasciato avvicinare. Di solito
tiene
lontano chiunque provi ad accostarsi-.
-Oh-.
-A pensarci bene, è anche uno dei
motivi per cui non incrocio mai nessuno, qui al parco. Non trova che
sia
curioso?-.
Erza si disse che quella era solo
l’ultima delle cose che trovava insolite, ma non espresse la
propria opinione
in merito.
-Però oggi sono stato fortunato-.
-Sul serio?-, domandò la donna con
poco interesse.
-Ho incontrato lei-.
Erza si fermò. Jellal mosse qualche
altro passo, prima di voltarsi per vedere cosa le fosse preso.
-Va tutto bene?-, le chiese, stavolta
con tono preoccupato.
-S-sì-, balbettò di rimando. Sentiva
una morsa stringerle lo stomaco ed un peso opprimerle il torace. Per
alcuni
secondi ebbe l’impressione di non riuscire a respirare.
-Erza? Erza?-.
Di colpo non sentì più nulla. Le
parole che Jellal stava pronunciando divennero mute e l’unica
cosa che vide
furono le sue labbra continuare a muoversi.
Driiin!
Il fastidioso trillo della
sveglia la
riportò prepotentemente alla realtà. Jellal, Buck
e il parco divennero
un’unica, sfocata macchia di colore e Erza aprì
gli occhi, accorgendosi di
essere ancora al caldo del proprio letto. Sbirciò
l’orario sul cellulare e
sbuffando si coprì il viso con le coperte: stava per
iniziare una nuova
giornata, ma avrebbe fatto di tutto per sapere quale fosse
l’epilogo di quello
strano sogno.