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Autore: ISI    01/11/2008    2 recensioni
“Suonerò finchè vorrai...” le lacrime che gli finirono tra le labbra gli parvero più dolci di quelle versate qualche attimo prima “Suonerò per te fino alla fine.”
Sequel-prequel di "Melodia incompleta"
Genere: Triste, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Suona per me una volta ancora

 

Premessa: non avrei ma creduto che sarei riuscita a dare un Sequel, né, tantomeno, un prequel alla storia che scrissi circa un anno fa e che porta il titolo di “Melodia incompleta”. Poi un giorno è arrivata l’illuminazione e la decisione di vedere oltre la tragedia di questo mio amato musicista e capire cosa fosse per lui la vera arte, quella che, pur essendo purificata da ogni manierismo e acrobazia tecnica, riesce ad esprimere i sentimenti di chi suona, di chi scrive, di chi dipinge o semplicemente esprime se stesso. Se la vera arte sia spartana o ricca di decorazioni, ornamenti e panneggi non saprei dirvelo, ognuno, in fondo, ha la sua arte cui dar vita, e quella del mio personaggio, da me tanto venerato per la sua vulnerabilità, scinde la tecnica da quel sentimento che ha perso ormai da tanto tempo, ma che vorrebbe ritrovare. Ciò che è scritto qua sotto è dunque il mio pensiero, secondo il quale la vera arte nasce e trova sostentamento dai sentimenti umani, in primis l’amore, così come la vita e tutta la corte di azioni quotidiane che la circondano.

Scrivere questa storia non è stato semplice, soprattutto considerando la pressione fatta dai professori a scuola e le varie, forse stupide ed infantili, crisi che hanno coinvolto la sottoscritta, lasciandola con il torto e l’amaro in bocca più di una volta.

Un giusto e sentito ringraziamento va a Chiku, la mia Beta rader, insostituibile ed impagabile per il suo impeccabile e sempre scrupoloso lavoro, ma ovviamente grazie anche a tutti voi che, forse per caso, forse per noia, vi troverete a leggere e, perché no, a recensire questa storia...

Spero solo di non avere offeso, con queste mie parole, il vero concetto di arte (anche se credo che pure questo sia abbastanza soggettivo) e tutti i veri artisti.

Buona lettura.

 

 

 

 

(Sequel-Prequel di

Melodia incompleta)

 

Il teatro esplose in uno scrosciare assurdo d’applausi e d’ovazioni; il sipario si chiuse dinnanzi a lui, come da programma, e, prima ancora che potesse tirare un sospiro di sollievo, l’organizzatrice del concerto l’aveva già raggiunto ed affiancato, più che entusiasta per l’esito della serata.

“Maestro, è stato fantastico! Davvero, non ho mai sentito nessuno suonare come ha appena fatto lei, io... io le giuro sono senza parole.”

L’uomo dai lunghi capelli neri e gli occhi del colore dell’ebano la fissò per qualche attimo, senza alcun interesse, senza quasi vederla, l’attenzione persa da qualche parte nell’illusione di un successo che, almeno per lui, non era tale.

Se non ha parole allora taccia...” più semplice di così. La donna si lasciò scappare uno di quei suoi soliti, insopportabili, striduli risolini, pensando che il musicista stesse scherzando.

“Ah! Voi artisti siete così strani!” a quest’ultima affermazione lui, perplesso, alzò un sopracciglio con fare interrogativo e lei, arrossita fino alla punta dei capelli, si affrettò a chiarire “Non intendevo in senso negativo, ovviamente, dicevo solo che...

“Sbaglio oppure aveva detto di non aver più parole?” l’interruppe stancamente il maestro, ma la donna evidentemente fece finta di non averlo sentito.

“Insomma quanto  impegno e quanta costanza nell’esercitarsi servono per poter arrivare al suo livello! Ovvio che senza talento non si va da nessuna parte... sì, io credo proprio che la sua sia una dote innata, da lei coltivata con la massima cura ed il massimo amore!” lui la guardò sempre più confuso chiedendosi se ci stesse, per così dire, provando.

 

Adulatrice.

 

“Lei ha indubbiamente ragione, ma dimentica la cosa più importante, quella che nobilita ogni arte, indipendentemente che si stia parlando di musica, di scrittura o di qualsiasi altra espressione umana.” la donna ovviamente non capì e, per un attimo, l’uomo fu indeciso se svelarle o meno quello che lui definiva come il segreto della perfezione artistica,  poi si disse che, molto probabilmente, anche se gliene avesse parlato, lei non avrebbe compreso fino in fondo.

“Bisogna avere qualcuno per cui suonare,” lei, d’un tratto, sussultò, riconoscendo nell’oscurità delle sue iridi, le piaghe dolorose della sofferenza “bisogna aver qualcuno cui offrire in dono la propria arte, la propria anima, noi stessi, tutto quello che siamo, tutto quello che siamo stati e che saremo.”

 

Anche lui, un tempo, aveva avuto qualcuno a cui donare la propria arte, qualcuno a cui donare se stesso...

 

 

Un ragazzino dai lunghi capelli neri e gli occhi color dell’ebano che non dimostrava più di sedici, diciassette anni s’arrampicava, con il fiato corto ed affannato, sul pendio d’un colle erboso, punteggiato qua e là da qualche solitario albero da frutto, trascinandosi dietro una grande e pesante custodia che racchiudeva in sé il motivo della sua venuta in quel luogo tanto sperduto e isolato.

Ne aveva davvero abbastanza degli urli isterici di sua sorella, delle liti con i  vicini, che non contemplavano, ovviamente, solo grida e insulti, ma anche lancio di stoviglie e oggetti vari; non avrebbe potuto tollerare oltre il fruttivendolo sotto casa sua che, a gran voce, lodava la genuinità delle sue pesche noci  o lo scemo del villaggio, che fisarmonica alla mano, in pieno giorno, andava sotto la finestra di ogni donna, maritata o meno, a cantarle tutto il proprio imperituro ed eterno amore: vi era decisamente troppa confusione perché potesse concentrarsi, anche solo minimamente, sul suo adorato contrabbasso.

Il flusso dei suoi pensieri e, fortunatamente, anche le manie omicide che gli erano montate addosso al solo ricordo degli odiosi individui che disturbavano i suoi esercizi di solfeggio tacquero per un attimo nella testolina bruna del giovane che si guardò intorno spaesato: di fronte a lui, svettando dall’erba alta, se ne stava un grande melograno carico dei suoi frutti d’inizio autunno e tutt’intorno vi era il silenzio più assoluto.

Sospirò finalmente soddisfatto, considerando che, sì, quello era decisamente il posto più adatto, ed appoggiata a terra la nera custodia ne estrasse contrabbasso e relativo archetto, maneggiandoli entrambi con quanta più cura possibile, senza però cominciare subito a suonare, indugiando nell’accarezzare con le dita della mano sinistra le corde tese a dovere dal diapason, l’animo diviso tra la voglia incontenibile di esprimere se stesso per mezzo di note, accordi, pause e riprese ed il timore onnipresente di non esserne in grado, di non rendere giustizia a quell’irrinunciabile appendice del suo corpo, che era lo strumento stesso, basandosi unicamente sulle sue capacità e sulla sua ancor grezza tecnica, ben lungi dall’essere accurata e precisa.

Poi fu un attimo: ogni sua paura, qualunque essa fosse, si dissolse ed egli prese ad esercitarsi eseguendo pezzi più o meno complessi, seminando qua e là errori più o meno gravi, borbottando contrariato ad ogni stecca o imperfezione che purtroppo gli capitava di fare.

Suonò fintantoché le mani, ancora poco avvezze alla fatica della musica, non cominciarono a dolergli, fintantoché il sole, che già languiva all’orizzonte lontano, riuscì ad illuminare il creato quanto bastava per vedere ed allorché, a malincuore, si dovette dar per vinto, riponendo lo strumento nella custodia, sussultò nell’udire un allegro applauso che, considerando la desolazione del luogo, non poteva che essere per lui ed il suo piccolo, imperfetto concerto.

Si volse di scatto verso il melograno e lo vide.

 

Credeva di esser solo, credeva che si sarebbe bastato, nonostante tutto, ma quando i suoi occhi si posarono su di Lui dovette ricredersi.

 

Il folto groviglio di ricci che aveva in testa era dello stesso rosso vermiglio di quei fiori che, morendo, avevano generato i frutti da lui raccolti nel cesto che teneva in mano, mentre le iridi, incastonate come due gemme nel bel volto, avevano il colore della clorofilla più scura.

 

Un’apparizione, una specie di miraggio, una vera e propria folgorazione.

 

Lo sbigottimento per quell’epifania così improvvisa e repentina ebbe la meglio sul giovane musicista che non riuscì ad articolar parola, tantomeno, dunque, a chiedere al nuovo arrivato chi diamine fosse o cosa volesse.

Non ebbe neppure modo d’indignarsi per essere stato spiato, semplicemente non gli riuscì.

“Bel concerto...” lo vide sorridere, o almeno così gli parve, e poi andarsene così com’era comparso.

 

E se fosse stato tutto frutto della sua immaginazione?

E se la stanchezza gli avesse tirato un brutto scherzo?

 

Di seguito ad un simile episodio il buonsenso avrebbe allontanato chiunque da quel luogo, chiunque eccetto proprio il piccolo contrabbassista che, complici la confusione persistente attorno al suo più normale habitat e la mancanza più assoluta in lui del buonsenso stesso, si ritrovò, strumento in spalla, di nuovo in mezzo all’erba alta di quella famosa collina, dinnanzi al grande e vecchio melograno, dinnanzi a Lui.

 

Confusione? Mancanza di senno e di prudenza? Tutte scuse: dire che desiderasse rivederlo almeno per un’ultima volta significherebbe usare un eufemismo.

 

“Suonerai anche questa volta, vero?” per un attimo gli parve di scorgere, nelle iridi smeraldine dell’altro un accenno di preoccupazione che scomparve non appena annuì in risposta alla sua domanda “E dimmi...” gli aveva chiesto poi, senza avere il coraggio di guardarlo in faccia “Posso stare qui ad ascoltarti?”

Be’, se proprio non ci tieni ai tuoi timpani... a quelle parole l’imbarazzo svanì ed il rosso rise.

Quella sera il giovane musicista ebbe, nonostante gli errori fatti, come l’impressione di aver suonato meglio del solito.

 

Colui che trasforma la fredda e mera tecnica in vera e propria arte...

 

Impararono a conoscersi, poco a poco, e anche se non l’avrebbe mai ammesso adorava suonare per Lui, nonostante farlo non fosse sempre così facile: i pezzi che il suo maestro gli assegnava erano, il più delle volte, assai difficili ed egli avrebbe voluto eseguirli alla perfezione non tanto per se stesso, quanto più per quella testolina riccia che, con tanta devozione, l’ascoltava e lo sosteneva.

Avrebbe voluto dargli solo il meglio, sia di sé che della propria arte, ma puntualmente sbagliava qualcosa ed ogni suo sforzo risultava vano; non era degno, o almeno così credeva, né di Lui né della sua attenzione e questo lo mandava su tutte le furie, distruggendolo: aveva bisogno di Lui.

 

Non credeva che amare fosse tanto difficile...

 

Un giorno, dunque, all’ennesima stecca, esasperato, gettò l’archetto a terra con rabbia e fece per andarsene, ma l’altro lo trattenne tirandolo a sé per un braccio.

Solo allora il rosso si accorse che gli occhi del suo musicista preferito erano velati di lacrime, lucidi delle aspettative che credeva di aver deluso con la sua orribile esecuzione.

“Che diavolo ti è preso?” gli chiese preoccupato e le guance dell’altro si rigarono di tutto quel dolore, di tutti quei sentimenti che, senza farne mai parola con nessuno, s’era tenuto dentro fino ad allora.

“Io... io non ne sono in grado!” aveva sempre pensato che piangere fosse una cosa alquanto stupida e che in fondo non servisse davvero ad un bel niente, se non a rendersi ridicoli di fronte agli altri, ma quella volta non potè trattenersi, non volle “Io non ci riesco... un paio di singhiozzi gli mozzarono il fiato “Io non riesco a suonare!”

 

Amare.

Era questo che avrebbe voluto dire, amare e non suonare, ma non ci fu bisogno alcuno né di spiegazione, né tantomeno di parafrasi: Lui aveva già capito, già compreso.

 

“Io credo che tu, con il giusto esercizio, possa essere in grado di suonare qualsiasi cosa desideri, ma anche se così non fosse, anche se tu fossi il più negato dei contrabbassisti, sappi che non potrei comunque fare a meno di amare la tua arte; per quanto tu possa steccare, stonare, distrarti o volgere il pensiero a qualcun altro mentre suoni, sappi che io non potrei mai fare a meno di amare la tua musica, non potrei fare a meno di amare te. Certo, questa è una ben magra consolazione ed io, sicuramente, non posso obbligarti a fare qualcosa che non vuoi o che, peggio ancora, ti fa soffrire e star male, ma te ne prego, suona per me una volta ancora, ed io saprò mettermi l’animo in pace anche se per qualsiasi motivo deciderai di mollare tutto, anche se questo sarà il nostro addio.”

 

Lo amava.

Nonostante tutti i difetti, nonostante tutti gli sbagli Lui l’amava comunque.

 

Suonerò finchè vorrai...” le lacrime che gli finirono tra le labbra, gli parvero più dolci di quelle versate qualche attimo prima “Suonerò per te fino alla fine.”

 

Poi la fine era arrivata, materiale per uno, psicologica, artistica e musicale per l’altro: l’uno era stato seppellito dalla terra, l’altro dal dolore e non c’era stata più né arte né musica, ma solo un odioso manierismo ed una terribile accozzaglia di rumori.

 

 

Il teatro si era ormai svuotato quando un tecnico gli chiese che cosa ci facesse ancora, con tanto di contrabbasso in mano, quando tutti se ne erano tornati a casa da un pezzo.

 

Bugiardo.

Lui a casa non c’era tornato e niente e nessuno gli avrebbe ridato la possibilità di farlo.

 

Il maestro fece finta di non averlo sentito e continuò a fissare un punto imprecisato di fronte e sé, anche quando il tecnico, stanco di aspettare, se ne andò dopo aver spento tutte le luci: scomparve ai suoi occhi l’immagine del sipario calato sul palco e dimenticò per un attimo quello più doloroso e pesante che si era chiuso sulle loro anime, mentre l’intimità del buio partoriva tangibili e reali ricordi lontani, ma vividi al tempo stesso e la sua figura dolce, così cara al tempo in cui era riuscito a vivere e ad amare, si riaffacciava serena, come se niente fosse stato, a chiederglielo, forse per l’ultima volta.

“Suona per me una volta ancora...”

Il musicista non piangeva più da tanto tempo, credeva di aver speso ogni sua singola lacrima sul freddo simulacro della fragilità e della finitezza umane, ma a quanto pareva si sbagliava.

“Lo sai...” per un attimo gli parve d’esser tornato bambino nell’udire la propria voce incrinarsi sotto il peso della verità “Lo sai che non ci riesco, lo sai che da quando te ne sei andato...” non riuscì a finire la frase ché i singhiozzi invano trattenuti lo soffocarono.

 

Gli spettatori di prima s’erano goduti ed accontentati di freddi e, per lui, banali virtuosismi, ma Lui non avrebbe fatto lo stesso imperdonabile errore, Lui non si sarebbe accontentato di così poco: Egli bramava l’arte, bramava l’amore.

 

Provaci, ti prego...” il suo tono ora si era fatto supplichevole “Questa è la mia unica richiesta...” l’altro rise.

“Proprio non ci tieni ai tuoi timpani, vero razza di stupido?” il rosso scosse il capo, la clorofilla scura dei suoi occhi persa nell’ebano di quelli dell’amato.

 

E la notte fu la sola ad udire la sinfonia più bella alla quale uomo avesse mai osato dar vita.

  
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