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Autore: Narsyl    02/11/2008    0 recensioni
Ripensò ai capelli lunghi di una ragazza, al suo sorriso. Ripensò a guardarla da lontano, ripensò a immaginare di prenderla e baciarla, dappertutto, con foga. Ad aspettare con impazienza i finesettimana, a guardarsi allo specchio prima di uscire e dire a se stesso “oggi sarà mia” E tornare a casa e dirsi, sconfitto “ Magari la prossima volta”.. E aspettare e fare un passo alla volta, verso lei che era la luna e le stelle, e il sole e tutti gli astri e tutto il mondo, e più si avvicinava, più le era accanto, più assaporava la sua vittoria, così dolce proprio perché sudata. E cominciare a vedere come quel sorriso rivolto a lui, diventava ancora più bello. Era splendido. E infine ripensò al momento in cui era stata sua, una volta, e poi per sempre. E a come tutto era cambiato, poi.
Genere: Romantico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“E’ stato bello, vero? “ La donna si morse il labbro e arrossì furiosamente. Sempre la stessa piccola pietrolina lanciata contro la finestra dell’indifferenza; una finestra spessa come un muro, opaca, possente, che non ignorava i suoi tentativi lievi forse solo per pietà. Perché infondo l’amava e non voleva darle un dispiacere. Almeno, non un dispiacere così grande da farla piangere. Odiava vederla piangere.
“ Si amore, è stata una bella serata” Mi sono annoiato, i tuoi amici mi stanno tutti sul cazzo, avrei voluto guardarmi la partita in tv e invece niente. Ma per te questo e altro, amor mio, per te tutto. Cominciò a giocherellare con una ciocca di capelli. Brutto segno.
Passava freneticamente le dita fra i fiumi di carbonio e proteine e cos’altro? Cellule morte, forse, non lo ricordava manco più. Eppure la chimica le piaceva al liceo. Le piacevano così tante cose, al liceo, aveva attorno a se tutto un mondo da scoprire, infiniti stimoli, infinite strade affascinanti da percorrere correndo o osservando, solo a lei la scelta, quando come e quale, e dove, che importava? Era così viva, al liceo.
Era passato davvero tanto tempo.
Si sforzò di sorridere e si accucciolò accanto al suo uomo. Lo guardò concentrato sul suo libro, con i riccioli dorati che fluttuavano nell’aria, dolci, gli davano quell’aria di eterno fanciullo, con le labbra carnose sospese fra una parola non detta e l’altra, e un velo tiepido di bugia a ingentilire le sue perle maestose e irremovibili, più forti dell’arrivo del sole al mattino, più decise dei salmoni che lottano per la vita contro corrente; quelle stesse perle che l’avevano fulminata tanti anni addietro.
“Amore..”
“ Si?”
“ Ripensi mai al liceo?”
“ Si, ogni tanto capita, di pensare al liceo”
“ E cosa pensi?”
“ Penso che sia stato un bel periodo”
“ E poi?”
“ E poi.. non lo so. Perché questa domanda, adesso?”
“ Perché stavo pensando al liceo..”
“ E cosa pensavi del liceo?”
“ .. Mah. Che è stato un bel periodo”
Distaccò lo sguardo da Camilleri, un momento. E ripensò, davvero , solo per un momento, a quel benedettissimo liceo. Ripensò ai capelli lunghi di una ragazza, al suo sorriso. Ripensò a guardarla da lontano, ripensò a immaginare di prenderla e baciarla, dappertutto, con foga. Ad aspettare con impazienza i finesettimana, a guardarsi allo specchio prima di uscire e dire a se stesso “oggi sarà mia” E tornare a casa e dirsi, sconfitto “ Magari la prossima volta”.. E aspettare e fare un passo alla volta, verso lei che era la luna e le stelle, e il sole e tutti gli astri e tutto il mondo, e più si avvicinava, più le era accanto, più assaporava la sua vittoria, così dolce proprio perché sudata. E cominciare a vedere come quel sorriso rivolto a lui, diventava ancora più bello. Era splendido.
E infine ripensò al momento in cui era stata sua, una volta, e poi per sempre. E a come tutto era cambiato, poi.
Era passato davvero tanto tempo..
Ora sorrideva e la guardava sorridere. Era una rosa che impercettibilmente, giorno dopo giorno, perdeva un po’ del suo profumo. Conclusasi la primavera, si accingeva anch’ella al tramonto, spossata dal re Crono, piegata dai passare malinconico dei secondi. Eppure, se ci metteva un po’ d’impegno, la vedeva ancora come prima, principessa immortale dell’anima sua: aveva le guance arrossate e l’espressione mansueta di un animaletto addomesticato, raggomitolata su se stessa, nel disperato tentativo di tenere tutti i pezzi di se bene amalgamati insieme; uno di quei piccoli grandi difetti che non sarebbe mai riuscito a correggere, in lei. E se forse non lo affascinava più come prima, quando ancora era un paese incantato in cui ogni angolo appariva una creatura nuova, e se forse erano passati i tempi in cui ogni centimetro della sua pelle era una conquista, e se forse ormai l’aveva sventrata di ogni cosa e non c’era più nulla che non fosse stato suo almeno una volta, sapeva bene che mai in tutto il mondo avrebbe trovato una gioia simile a quella che lei, senza neppure accorgersene, gli aveva dato. Era una fiera timida e instabile, una forza della natura rinchiusa nel corpicino fragile e nell’anima di una bimba capricciosa; insopportabilmente sciocca e profonda oltre l’orizzonte dei sensi; intrepida, inquieta, gattino bagnato eppure docile, agnellino, candida, fiocco di neve.
E, miracolo della vita, aveva permesso proprio a lui di entrarle dentro, di essere in lei e per lei, sempre.
Viveva con l’eterna paura che prima o poi si stancasse. Non faceva davvero abbastanza per lui. Metteva il massimo di lei, tutto, si donava intensamente, con gioia, con passione, perché quello era ciò che davvero sapeva fare. Perché non aveva altro da offrire, nient’altro che ritenesse parimenti prezioso, niente altro che potesse eguagliare ciò che riceveva, se non tutta se stessa. Ma a volte, a fine giornata, chiusi nel silenzio, nascosti dietro la stanchezza, trascinati da un sospiro, la coglievano gli antichi demoni, e allora lei capiva, tremendamente, che non era abbastanza. Non sarebbe mai stata abbastanza. Sapeva che un giorno si sarebbe svegliata e lo avrebbe sentito cantare quella fatidica canzone e allora avrebbe capito che era finita. L’avrebbe sentito dire che lei era tutto e che quel tutto era ancora poco, e avrebbe fatto finta di niente. Lui l’avrebbe baciata sulle labbra e sarebbe andato a lavoro, e poi sarebbe tornato. Perché lui usciva e tornava sempre. L’avrebbe amata con dolcezza, ma dormendo si sarebbe allontanato al lato del letto, forse si sarebbe voltato, forse avrebbe sognato qualcosa, qualsiasi cosa, che non era lei, e non l’avrebbe stretta.
E lei l’avrebbe lasciato fare, perché non aveva niente con cui trattenerlo, niente che lui non conoscesse già.
“ .. E ora perché, mh?”
Il sassolino rimbalza sul vetro e lo scalfisce lievemente, cade giù a terra in un tonfo leggero, schiaccia un fiorellino che aveva lottato giorni per sbocciare, ed ora era lì, schiacciato dal sassolino.
E le lacrime scendevano nonostante tutti i suoi sforzi. Le coglieva alla fonte per evitare che fossero così evidenti. Lo sapeva bene, che non gli piaceva affatto vederla piangere. E fino a quel momento era stata una bella serata.
Chissà perché ad un tratto le cose vanno storte.
Le prese il viso fra quelle sue mani calde e morbide e la guardò, con attenzione questa volta, con tenerezza. Non oppose resistenza, si abbandonò al contatto con la sua pelle e lasciò che il suo calore sciogliesse tutti i nodi. La gola si liberò e le lacrime presero a scendere più copiose, senza argini, senza che nessuno le fermasse – formavano piccoli rigagnoli sulle sue guance, ancora arrossate, e si disperdevano frantumandosi fra le dita affusolate di lui. Erano tiepide e il loro procedere lento era l’unico segno dello scorrere del tempo, in quel momento in cui nulla sembrava più esistere. Lacrime e battito di cuori. Solo questo, e l’osservare il tremore febbrile di quelle labbra umide, foglioline fragili schiuse al mondo, spossate dalla violenza del vento. Le guardava fisso e subito lo colse la voglia irrefrenabile di fermare quel tremore. Di salvarla ancora dalle angherie di se stessa. Di adempiere al compito che si era scelto, di indossare la sua armatura scintillante e galoppare verso la torre più alta, prenderla come fosse aria, metterla al riparo dalla bufera, spostarle dietro le orecchie eleganti i capelli arruffati e allora tenerla fra le dita, proprio come stava già facendo, e baciarla. E allora la baciò.
Lei aveva gli occhi chiusi intanto, e sognava. Sognava ciò che aveva sempre sognato, tutte le fantasie che non erano mai diventate realtà, sognava il tempo in cui aveva sognato,quando ancora credeva che ce l’avrebbe fatta, alla fine, ad essere felice. Quand’è che aveva smesso di crederci? Quand’è che si era arresa al mostro dentro di lei, quando si era abbandonata ai demoni? Non lo ricordava più, il momento – non che avesse importanza. Non le restava che aspettare che il suo principe la venisse a salvare, di nuovo, ancora una volta. Si riprometteva fosse l’ultima. Non ce ne sarà più bisogno. Ho tutto ciò che mi serve per essere felice. Sono felice. Sono felice. Basta che arrivi lui, in fretta amor mio, te ne prego, ma come puoi salvarmi se ciò che mi perseguita è qui dentro e non la fuori? Puoi estirpare il male attaccato al mio sangue, puoi entrarmi dentro a tal punto, e sradicare le erbacce che mi crescono nell’animo e zittire tutto questo baccano, e colorare di bianco la pece e il catrame che fuoriesce dalle mie ferite?
Aprì un attimo gli occhi e lo vide a un soffio da lei distruggere con una carezza il maleficio. Le lacrime s’incontrarono con la luce del sole e formarono tanti arcobaleni danzanti e la stanza s’illuminò di colori vivi, e il loro respiro si tradusse in musica. Così, all’alba di un sorriso, egli la baciò. A lungo, senza fretta. Piano come un sussurro.
Si separarono in silenzio, mentre la tensione e il nero s’allontanava aleggiando nell’aria e usciva frusciando da una finestra. A un tratto entrambi capirono che era passata e si rilassarono. Lui chiuse gli occhi e lei appoggiò la testolina sul suo petto, e cominciò a carezzargli il braccio, così, appena appena: lasciava scivolare le dita sulla sua pelle fino al polso e velocemente risaliva al gomito ruvido, variando velocità, concentrando tutte le sue energie su quel movimento futile, aspettando che tutto li abbandonasse prima di parlare.
“ Va meglio?”
“ Si, lo sai. Grazie”
“ Non essere sciocca” Le baciò i capelli. Profumavano. Chissà perché ogni minima cellula di quel corpo emanasse sempre un così buon odore. Lei non ci aveva mai creduto. Eppure profumava sempre.
.Silenzio.
“.. Stavo pensando che è passato così tanto tempo.. “ spiegò ad un tratto. Il tempo le aveva sempre fatto una gran paura.
“ .. Oh. Ecco.. Sempre il tempo.”
“ Già”
“ Non importa, piccola.. Ci sono io”
“Lo so” Ma non ci sarai per sempre.
“ Ci sarò sempre, qui, per te” Ah.. Davvero? “Lo giuro”
“ Ti amo”
“ Ti amo”
Avevano trent’anni. Lei aspettava un cuccioletto che cresceva lì dentro, da qualche parte, e sentiva la potenza e la grandezza di quello scricciolo più di qualsiasi cosa avesse mai sentito in vita sua. Lo desiderava più della vita e più della felicità e ne aveva, nonostante tutto, un terrore indescrivibile. Lui era felice e l’amava e non chiedeva altro da Dio se non quello. Lei lo amava, amava la creatura che aveva in ventre ancora prima di sapere della sua esistenza, non chiedeva altro da Dio se non quello. Ma la felicità era una dea alata che entrava in lei solo in determinati momenti. La prendeva e la stringeva, e poi, nel silenzio della notte la abbandonava, incompatibile con le sue paure, incompatibile con lei stessa.
Avevano quarant’anni. Non parlavano più del liceo. Crescevano con gioia i loro pargoletti e non pensavano ad altro. Non ce n’era davvero il tempo. Lei non piangeva più e lui non correva più a salvarla sulla torre più alta, la sera quando si addormentavano lui le stringeva la mano e a lei tanto bastava per sapere che quel momento non era ancora arrivato, e restava sveglia ad aspettarlo, tremendamente certa della sua incombenza come se le fosse stato già annunciato.
Avevano sessant’anni, i figli grandi e la casa libera. Passavano ore a godere del silenzio; a volte solo a guardarsi negli occhi, a sorridersi e a sentirsi giovani, come ai tempi del liceo. A volte lui la baciava e sembrava che nulla fosse cambiato. Lei davvero non piangeva più e se con una mano stringeva suo marito, con l’altra teneva ben salda a sé la Felicità, che aveva accettato, non potendola avere dentro di sé, come segreta compagna di vita, una Dea meravigliosa che aveva acconsentito a condividere con lei un po’ del suo candore. La sera a letto lui le stringeva la mano e lei sorrideva e s’addormentava, e non attendeva più sveglia che arrivasse il momento che l’aveva perseguitata per quasi una vita.
C’era un momento durante tutte le notti passate insieme, in cui lei si addormentava, vinta dalla stanchezza. Lui approfittava di quel momento per sgusciare giù dal letto e andare alla finestra. Fissava le stelle e pensava. Al Tempo, alla Felicità, all’Amore. Non sorrideva mentre pensava.
Poi tornava a letto, si voltava verso un lato e si addormentava. Non le prendeva la mano. La mattina si svegliava sempre prima di lei, e mai una volta si scordò di stringerla.
Lei non se ne accorse mai.
  
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