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Autore: Naoko_chan    04/12/2014    2 recensioni
Lo aveva sognato. Di nuovo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Ringrazio infinitamente SemplicementeSamanta e Atomic Chiken per aver perso tempo prezioso nel recensire la mia storia, ve ne sono grata <3.








Si era svegliato di soprassalto quella notte, avvolto dalle tenebre.
Respirava affannosamente, la fronte imperlata di sudore, le mani che stringevano spasmodicamente i lembi della coperta pesante.
Lo aveva sognato. Di nuovo.
Lanciò uno sguardo furtivo alla finestra semiaperta; le tende bianche danzavano al debole venticello, dando l'impressione di essere spettri.
Rabbrividì, poggiando i piedi nudi sul suolo duro e freddo. Cercò a tentoni gli stivali di pelle, per poi dirigersi a passo felpato fuori dalla camera.
Entrò deciso nella stanza adiacente alla sua, premurandosi che non ci fosse lui nei paraggi.
"Svegliati!" ordinò alla figura che dormiva nel letto, scuotendola con poco garbo.
Lei sbadigliò appena, la pelle diafana sfiorata dalla flebile luce che la luna proiettava da fuori.
"Muoviti!" sibilò brusco.



"E questa chi è?" aveva domandato un bimbo sui sei anni guardando ostile il corpicino scarno e cereo, seminascosto dalla mantella di lana che sua zia teneva in braccio.
Quest'ultima le aveva sorriso dolce. "La tua nuova sorellina."
Lui si era alzato per studiarla più da vicino, per poi storcere la bocca in una smorfia.
"È brutta, non mi piace."
La vecchia signora aveva allora corrugato la fronte.
"Non fare cos..."
"Voglio essere figlio unico." la interruppe adirato buttando il giocattolo a terra.




Si muoveva come ipnotizzato.
L'aiutò ad alzarsi e a vestirsi, poi la guidò a tentoni verso l'uscita.
"Cosa succed..."
"Sta zitta." ringhiò sottovoce.



Si vedeva che non era della famiglia, forse neanche del loro paese.
Lì erano tutti robusti, pasciuti e la maggioranza aveva chioma e occhi scuri. Lei era diversa.
Pallida, capelli platinati, iridi celesti.
Inoltre era rachitica.
Quando raggiunse l'età di quattordici anni, la zia gli svelò che l'aveva trovata per strada.
"Piangeva convulsamente, seminuda. Tremava per il gelo." aveva mormorato, cercando di impietosirlo. Invano.
L'aveva fatta controllare da un medico, poi aveva deciso di tenerla con sé.
Il più grosso errore della sua vita.




"Dobbiamo sbrigarci prima che arrivi."
Lei annuì, mentre piccole gocce limpide le scivolavano dagli occhi.
"Sei in pericolo." le aveva spiegato gelido, senza troppi giri di parole.



Non gli era mai piaciuta.
Gli aveva rubato sua zia, una delle poche persone care che gli erano rimaste.
Gli aveva rubato la bella vita che faceva prima.
Ma non la odiava solo lui...




Uscirono di fuori, chiudendo piano il portone del grande palazzo di puro marmo.
"Dove andiamo?" chiese lei, trattenendo i singhiozzi.
"Di sicuro via di qui." tagliò corto lui, stringendole con forza la manina ossuta.



Il notaio continuava a scrivere con la sua biro nera, senza fermarsi un attimo.
"A chi volete che vengano ereditati i vostri averi?"
L'anziana donna sospirò, le mani in grembo.
"Metà a mio nipote."
Il maggiordomo entrò con le tazze di tè fumante.
"E l'altra metà... Alla mia piccola Elizabeth."
Il servizio di porcellana si infranse sulle mattonelle.




L'uomo caricò il fucile, sogghignando sadico.
Quello che aveva subito quel giorno era stata una vera e propria ingiustizia.
Lui, l'umile servitore di quella vecchia decrepita da più di trent'anni, non era stato menzionato nemmeno di sfuggita nel testamento.
Tutto per colpa di quella schifosa bamboccia che a malapena si reggeva in piedi.
Ma l'avrebbe pagata cara, questo era certo.



In estate la salute cagionevole della contessa era peggiorata drasticamente.
Girava voce che fosse stata addirittura avvelenata.
Suo nipote passava giorno e notte nella sua stanza, accudendola come una figlia.
Più volte la governate, i domestici e persino la parente stessa lo incitavano a non rimanere chiuso lì dentro e di uscire anche solo per prendere una boccata d'aria.
Ma nulla lo smuoveva da quello che si era prefissato.
"Non ammuffire qui solo per me, ci sono anche i servitori..."
"No, zia. Preferisco occuparmi di voi personalmente."
"Sei una testa dura." sorrise l'anziana donna.
"Ormai mi conoscete bene."
L'altra venne aggredita da un violento attacco di tosse.
Lui le fu subito accanto.
"Lo vedete che avete bisogno di me?"
"Sei tu che in parte mi fai star male, Johnathon."
Il sedicenne trasalì. "Ma cosa dite?!"
"Sapere che tu sei chiuso in questa camera per colpa mia..."
"Ma no, io lo faccio con piacere!"
"Però io ci sto male! Dimmi, vuoi farmi sentire peggio?"
Quando ci si metteva, poteva diventare molto più cocciuta di suo nipote.
Anche se, a dirla tutta, si sentiva un poco meschina a fare leva sui sentimenti di lui per ottenere ciò che voleva, ma d'altronde, era per il il bene di uno dei suoi due eredi.
"No zia..."
"Ecco, bravo."
Lui si stava già allontanando, abbattuto oltre l'inverosimile, quando l'attempata nobile gli diede il colpo di grazia.
"E già che ci sei, porta anche tua sorella. Ha bisogno di stare al sole."
Oltre al danno pure la beffa.
"Come desiderate."
E si sentì sprofondare.




Entrò di soppiatto nella sua camera da letto.
Si avvicinò lento, l'arma da fuoco alla mano, leccandosi le labbra, come se stesse assaporando il sangue della sua futura vittima.
'Crepa strega' pensò mentre si apprestava a mettere fine all'inutile vita di quella sventurata.
Fece partire il colpo.
Il proiettile perforò il cuscino, precipitando nel materasso, per poi finire nel pavimento.
"Non è possibile!" sbraitò fuori di sé, afferrando con ferocia il cuscino ridotto a brandelli e privo per metà della sua imbottita.
"È fuggita!"
Si precipitò alla finestra, notando due giovani che cercavano di scavalcare il cancello.
"Ma non andrà lontana." asserì maligno imbracciando il fucile.



"La ragazzina era accomodata sull'altalena, lo sguardo perso nel firmamento celeste, quel giorno adornato con piccole nuvolette candide.
"È così bello il cielo di oggi..." appurò in un soffio.
"Non trovate, fratellone?" si rivolse all'altra figura seduta a gambe incrociate nel prato, la quale grugnì scocciata.
"È uguale a sempre."
"Ma non..."
"E non chiamarmi fratellone, mi urta profondamente."
La giovane tacque mortificata.
"Ma p-perché?" balbettò, smettendo di dondolarsi.
"Non appartieni a questa famiglia." le spiegò secco.
"E non ne farai mai parte." concluse alzandosi e abbandonandola in giardino.




"Ce l'abbiamo quasi fatta." biascicò il ragazzo in preda allo stremo.
"Buttati!" esclamò rialzandosi in piedi e pulendosi le ginocchia.
"Datti una mossa, stupida!" la sollecitò, udendo il rumore di una porta che veniva sbattuta con rabbia.
Seppur titubante, l'altra si lasciò andare precipitando tra le sue braccia.
Con la ragazzina stretta al suo corpo, cominciò a correre a più non posso, trascurando il cuore che martellava nel petto e le orecchie che fischiavano.
Ma più andava avanti, più la stanchezza si faceva sentire e la forza gli veniva a mancare.
Però non si sarebbe arreso, doveva portarla in salvo da quel mostro.



"John, avvicinati..." aveva sussurrato sua zia con fatica, sdraiata su letto, le mani rugose in aria che cercavano di sfiorare la persona inginocchiata al suo capezzale.
"Si...?" gli era costata fatica pronunciare quel monosillabo, le labbra aride, gli occhi rossi e gonfi.
Lei sorrise affettuosa.
"Ti prego.." proseguì, accarezzandogli i riccioli castani.
"Ti prego..." ribadì, socchiudendo le palpebre.
"...prenditi cura di tua sorella..."
"Lei non è mia sorella." avrebbe voluto ribattere, ma la voce gli morì in gola.
"È così piccola e fragile, promettimi che non le accadrà niente..." lo supplicò, la voce che tremava come le sue braccia.
"Fallo per me..."
Gli sfiorò le dita con le poche forze che le rimanevano.
Il giovane si sforzò di non prorompere in lacrime.
"Sì, zia. Ve lo prometto."




Ansimava, il sudore che colava dalle tempie, i capelli biondi che gli si infilavano dispettosi in bocca quando cercava di prendere fiato.
"Vi scongiuro, fatemi scendere, non andrete molto lontano con me sopra."
"Chiudi il becco..." sibilò acido. "Saresti solo d'intralcio..." boccheggiò, mentre, a fatica, percorreva una piccola collina.
Data la sua corporatura si sarebbe stancata presto e in quel momento anche un secondo era prezioso.
Il rombo di una motocicletta.
Entrato nel panico, non si accorse della radice di un albero, inciampando e cadendo miseramente a terra.
Strinse i denti per il dolore, sentendo la caviglia pulsante.
"Scappa, sbrigati!" gridò alla ragazzina ruzzolata qualche metro più in là.
Si rialzò a fatica, guardandolo incerta.



Il buio più totale.
"John?"
La voce della sua sorellastra.
"Dove sei, razza di sciocca?"
"John, aiuto..."
La vocetta sottile gli compresse le orecchie.
"Dimmi dove ti trov..."
Avvertì degli schizzi di un liquido sul viso.
Si esaminò le mani, dove stava gocciolando quella sostanza vischiosa.
Raggelò: era sangue.




Lo aveva sognato tre notti consecutive e solo alla terza aveva deciso di agire.
Si maledì per non averci pensato prima.
Era stato uno stolto e ora ne stava pagando le conseguenze.
"Cosa aspetti ritardata? Vattene in fretta!" berciò in un misto di collera e spavento.
Lei annuì singhiozzando piano e, voltandosi, iniziò a correre lontana.
Poi lo notò: aveva accostato il mezzo con il quale era giunto ad un albero e si era mimetizzato dietro l'arbusto. Stava prendendo la mira.
"NO!!"
Lo raggiunse il più velocemente possibile saltandogli addosso.
"Ma cos- Tu?!"
"Non farle del male!"
Lottarono rotolando dalla collina, fino a quando l'uomo non gli diede una gomitata nelle costole che lo disorientò per un istante.
Un istante che gli fu fatale.
Approfittando infatti di quell'attimo di debolezza, l'altro gli sferrò un potente pugno in pieno viso, tramortendolo.
Sbatté violentemente la nuca a terra. La vista gli si annebbiò lentamente.


"È così piccola e fragile, promettimi che non le accadrà niente..."


In quel momento risuonò il rumore di uno sparo nell'aria.

Nonostante fosse frastornato e ignorando il dolore acuminate e il liquido vermiglio che gli colava dal naso, alzò piano il capo, restando traumatizzato.
La vide stramazzare al suolo come un sacco vuoto.
"ELISABETH!"
Si rialzò di colpo, assalito dai conati di vomito.
Si avvicinò ancora scioccato alla figura bocconi a terra, impregnata di sangue.
Sussultò vedendo che respirava ancora e sperò che non fosse il suo stato a giocargli brutti scherzi.
"Non puoi morire..." mormorò.
Silenzio.
La prese saldamente per le braccia, agitandola come una bambola.
"Non puoi morire! Non devi morire hai capito?" strepitò dilaniato.
Lei per tutta risposta tossì, versando altro fluido scarlatto.


"È così piccola e fragile, promettimi che non le accadrà niente..."


"G-grazie p-per tut-to qu...ello c-che a-ave-vete f-fatto pe-per m-m..." La giovane non riuscì a completare la frase; rimase immobile, il sangue che fuoriusciva dalle labbra deformate in un agghiacciante sorriso.
John alzò lo sguardo, disperato: lo spregevole autore di quel misfatto si era già dileguato nella notte.
Tornò a studiare la ragazzina: gli occhi vitrei, inespressivi, le guance infossate, l'inquietante squarcio causato dal proiettile, grondante di quel liquido denso, amaranto.
Chiuse gli occhi, stringendo i pugni, desiderando che fosse solo un'incubo.
Poi, improvvisamente, cacciò un urlo nero, straziato, tormentato.
Scoppiò in un pianto accorato, stringendo a sé il corpo senza vita dell'altra.
Si disperò, giurò vendetta, gridando come un forsennato.
Tutta la rabbia accumulata in sedici anni, tutto il dolore, la frustrazione, traboccarono fuori bruscamente.
"Perdonami Elizabeth!" singhiozzò costernato.


"Promettimi che non le accadrà niente..."


"Perdonatemi zia..."
  
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