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Autore: M4RT1    07/12/2014    1 recensioni
Johanna odiava il verde. O meglio, odiava quella tinta che voleva imitare le sfumature delle foglie, dell’erba, del muschio che cresceva sulle radici degli alberi di casa sua. Odiava quella finzione perché aveva visto la realtà.
Odiava gli Hunger Games perché aveva visto la morte, dietro uno spettacolo televisivo.
[...]
E odiava se stessa perché non era riuscita a fermarsi alla menzogna, senza scavare a fondo.

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Questa storia partecipa al Contest "Best Fandom Ever" indetto da Daenerys Laufeyson.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Johanna Mason
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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N.d.A.: una piccola precisazione: potete collocare questa storia appena dopo gli Hunger Games in cui fu Johanna a vincere. Nella mia testolina bacata, lei e Finnick si sono consociuti in quest'occasione (chi ha letto una mia precedente FF, "One more day with you" - di cui magari lascio il link in fondo- lo sa) e questo è esattamente il momento che precede il loro incontro). Buona lettura (incauti lettori u.u).
 


A S_Lily_S,

perché le ho detto che non le avrei dedicato questa storia (?)



A Johanna erano bastati trentadue minuti a Capitol City per rendersi conto che quella vita non era adatta a lei. Che preferiva il legno ruvido e grezzo del suo Distretto ai tavoli lisci e curati del Palazzo Presidenziale; che la musica ad alto volume le faceva venir voglia di prendere a schiaffi quei camerieri vestiti di tutto punto; che la vita del vestito che indossava era larga probabilmente come l’anello che era costretta a portare in giro, brillante e volgare sull’anulare unto di crema idratante.

Si era domandata più volte cosa sarebbe successo se, di punto in bianco, il nastro verde bottiglia che teneva compressi i suoi fianchi si fosse sciolto: allora, probabilmente, il vestito si sarebbe allargato al punto da sembrare la logora camicia da notte con cui si ostinava a dormire. E qualcuno l’avrebbe notata, forse, ma non prima che la sua Stilista fosse accorsa a sistemare il tutto.

Johanna odiava il verde. O meglio, odiava quella tinta che voleva imitare le sfumature delle foglie, dell’erba, del muschio che cresceva sulle radici degli alberi di casa sua. Odiava quella finzione perché aveva visto la realtà.

Odiava gli Hunger Games perché aveva visto la morte, dietro uno spettacolo televisivo.

Odiava i trucchi pesanti della Capitale perché aveva avuto modo di osservare i volti veri, segnati dalla fatica e da una bellezza così sfuggente da passare inosservata tra gli sfarzi dei ricchi.

E odiava se stessa perché non era riuscita a fermarsi alla menzogna, senza scavare a fondo. Forse sarà stata colpa del suo ruolo al Distretto, quando il suo nome non era stato estratto e lei aiutava a disfarsi del terreno per sradicare gli alberi. Quando ancora era una ragazzina normale, scarna, sporca e scostante, ma pura.

Johanna pensava spesso a quell’aggettivo, da quando aveva vinto i Giochi: puro. Si era resa conto che niente più lo era, a Panem, e forse niente lo era mai stato. Non la pelle finta di Cesar Flickerman, non le false ricompense per i Vincitori, non il sorriso del Presidente Snow.

Nulla era veramente puro, nulla era come appariva. Ed era per quello, si diceva, che avrebbe dovuto scavare a fondo. Per non lasciarsi ingannare come era successo agli altri. Alla sua stilista, agli accompagnatori, al pubblico e agli sponsor che l’avevano aiutata a vincere. Loro non erano aguzzini, ma vittime come lei – vittime più fortunate, certo, ma il loro corpo era piegato dagli eccessi della Capitale proprio come quello di tutti i Vincitori.

Quando un cameriere le sfilò davanti con un vassoio d’oro, si rese conto di aver bisogno di fuggire – bisogno vero, come se in quell’enorme stanza sfarzosa mancasse l’aria. Sapeva cosa contenevano i bicchieri che stavano passando per la sala e la cosa la disgustava più di tutto il resto – più delle ciglia esageratamente lunghe di quella donna che cercava di parlarle, anche più della risata falsa del Capo Stratega. Perché il pensiero che ci fossero persone che bramassero di aver lo stomaco abbastanza vuoto da mangiare ancora le faceva venire il vomito.

Fu per questo che uscì. Che corse via, sfilandosi quelle ridicole scarpe strette (lei, che era abituata agli stivali da boscaiolo) e vertiginosamente alte, cosparse di così tanti brillantini da renderla quasi un faro nella notte.

L’aria era pulita, quella sera. Pura, pensò con ironia.

Pur sapendo che tutto era falso, maschera calata sulla nazione in cui viveva e sugli occhi di chi non se ne rendeva conto.

E lei – vittima, carnefice e poi ancora vittima – si sentiva sporca. Lei che era un’assassina e aveva ucciso sette Tributi a sangue freddo. Lei che era stata traviata, sconvolta, prelevata alla sua terribile vita e risputata in un’esistenza tanto più meschina da sembrare impossibile. Come se non ci fosse mai limite al peggio.

E per l’ennesima volta si ritrovò a chiedersi perché solo lei, tra tutti i Vincitori, se ne rendesse conto. Se fosse davvero l’unica o se, semplicemente, gli altri fossero più bravi a nascondere i loro sentimenti. Se facesse tutto parte degli Hunger Games, ancora, e prima o poi la sua famiglia sarebbe rispuntata fuori dicendole che sì, aveva vinto davvero.

Ma non era così, lo sapeva.

Altrimenti non avrebbe visto il loro sangue macchiare il pavimento di casa, al ritorno dalla sua Edizione.


N.d.A. (sì, altre): ecco il link --> 
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2439775&i=1
  
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