Una foto in una cornice da ragazzina, di peluche rosa con perline luccicanti appese qua e là. Due visi vicini, le pelli diverse a contatto e quei due sorrisi splendenti della stessa felicità.
Lei avrà quindici anni, forse sedici, e per alcuni versi
sembra più grande: c’è una luce seria nei grandi occhi di nocciola, e tutta
un’aria consapevole e tranquilla intorno al suo viso, in netto contrasto con la
bocca carnosa e morbida, di un rosa smagliante e appiccicoso al sapore di
fragola e lampone.
Lui è più grande, di anni ne avrà quasi diciotto, e ha un
sorriso che mette allegria. Ha il naso un po’ grande ed i capelli tagliati
corti, troppo corti, ma nonostante tutto ha un faccino che fa venire voglia di
baci e parole lente. Il suo braccio, ben definito dai muscoli ma sottile, dalla
pelle ambra tipica dell’abbronzatura che scivola via, è intorno alle spalle di
lei, che sono scure e provocanti, bene in vista sotto il bianco della maglietta
di seta scollata ed aderente.
Lei guarda davanti a sé, ha le labbra aperte in una risata
divertita indirizzata a qualcuno che non si vede, e non si accorge dello
sguardo alla menta del ragazzo che le è addosso, dolce e triste.
Sullo sfondo c’è Roma di notte: strade illuminate, lunghe
scie di luce che si proiettano sulle pozzanghere e un cielo talmente scuro da
sembrare blu.
Era una notte speciale, quella. Loro due festeggiavano i
loro tre mesi, che non sono pochi ma nemmeno troppi, ed avevano tutta la città
a disposizione per una lunga notte di nero blu e giallo. Lei non poteva uscire
tanto spesso la sera, e lui era abituato al suo gruppo ed ai suoi locali
fumosi.
Invece le strade avevano ancora addosso il buono della
pioggia, c’erano miliardi di stelle che si riflettevano e voci che si
affollavano sopra di loro.
Camminavano stretti, le mani infreddolite che si cercavano
costantemente, gli sguardi che si intrecciavano ogni tanto con piccoli sorrisi
segreti, e lei nel frattempo parlava allegramente con tutti gli amici che
avevano intorno. La sua voce aveva un suono strano, che a lui era sempre
piaciuta, con la sua incoerenza fatta di parole infantili e sussurri rochi, e
sapeva parlare bene. La ascoltavano tutti volentieri, e ridevano tirando ampi
tiri dalle sigarette incastrate tra le labbra.
Era già tardi quando erano andati a sedersi vicino al
Colosseo. E lì, lei aveva preso la mano di lui tra le sue e l’aveva trascinato
in un angolo buio e silenzioso. I loro corpi si erano incontrati con
naturalezza, spinti addosso ad un muro, le loro labbra erano affamate e gentili
insieme, e c’era tutta una magia nell’aria fatta di quella strana festa nuova,
e dalla sensazione che avevano tutti e due che fosse un evento unico, quel loro
vivere nel buio, tra le stelle ed i sorrisi.
Il giorno dopo era domenica, e l’aria piovosa aveva perso
la sua bellezza, sporcata da paradigmi latini e lunghe pagine affollate di
appunti. Era già tardi quando si erano visti, in mezzo ad una festa di
pozzanghere, e loro labbra si erano unite un’altra volta. Lei era salita in
motorino dietro di lui ed avevano volato tra gli spruzzi d’acqua e gli ultimi
piccioni infreddoliti.
A casa di lui non c’era nessuno. Non c’era mai nessuno, ed
a lei non dispiaceva quella lenta esplorazione delle stanze, la sua voce che si
ripeteva addosso ai muri e sulle lenzuola, il silenzio in cui cantavano solo i
loro corpi, fatti di spigoli pronti a completarsi.
Lui l’amava; amava ogni cosa di lei, ed amava anche il suo
corpo di burro e metallo, di spigoli amari e curve di caramella. Era scura su
tutto il corpo, magra e armoniosa, con due morbidi seni ed i fianchi disegnati
nella panna. Le gambe erano lunghe, agili, gli si chiudevano sulla schiena
morbidamente mentre lui le si dondolava dentro.
Amava le sue mani: ben disegnate, con quella pelle al
caffelatte che faceva contrasto con le unghie da bambina, ovali e rosa,
scintillanti. Amava la sensazione che gli davano le sue mani sul corpo, il suo
respiro tra i capelli, la sua pelle addosso.
Anche lei lo amava, in maniera diversa ma ugualmente
forte. Amava la dolcezza che c’era in ogni cosa di lui, i suoi occhi che la
guardavano, le sue labbra che le disegnavano aloni di brividi sulla pelle, e
amava il suo corpo sottile, i muscoli della pancia che si contraevano
assecondando il ritmo sempre più veloce del respiro, le spalle disegnate a
curve perfette che l’accoglievano come casa.
E quei loro amori si intrecciavano perfetti tra le
lenzuola spiegazzate, nell’affannata ricerca dei corpi e nei sospiri paralleli.
“ Mi ami troppo.” Pensava lei a volte, guardandolo stare
con il viso tra le mani e sentendo il peso di tutto il suo amore.
“ Ti amo male.” Rifletteva lui, perdendosi nella sua
pelle, affondando il naso nei suoi capelli alla pesca, stringendola forte per
non lasciarla andare.
E lei lo distanziava un po’. A volte evitava i suoi
sguardi dolci, e lanciava battute acide. Altre volte gli girava le spalle.
E lui la inseguiva, chiedendosi cosa avesse fatto di
palesemente sbagliato, baciandola sulla spalla, cingendola per la vita,
chiamandola già tardi per darle la buona notte.
Ed i loro amori uguali scivolavano per terra, lontani e
sofferenti.
“ Non lo amo abbastanza per farlo felice” pensava lei,
affogando i respiri nel cuscino.
“ Che ci succede?” si chiedeva lui, ascoltando il cd che
lei gli aveva messo tra le mani, fatto di canzoni e ricordi.
Ma le distanze si annullavano quando facevano l’amore. Di
nuovo, era tutto semplice. Un bacio se mi ami. Una carezza se mi vuoi. Un
sussurro se ti piace. Di nuovo intrecciati, corpi anime e cuori. Di nuovo loro
due stretti in un brivido.
“ Non finirà” pensava lei, allungando una mano fuori dalla
finestra e sorridendo alle gocce di pioggia che tintinnavano sul cemento e le
affondavano sulla pelle, sporche e tiepide.
“ Non ce la facciamo.” Rifletteva lui, alla vista del
cielo grigio e dell’acqua che scendeva dal cielo.
La lasciò così, in un giorno di pioggia. Era il suo
compleanno, compiva quei diciotto anni che avevano aspettato con entusiasmo per
la macchina che gli avrebbe portati in giro e la casa che sarebbe stata loro
per davvero.
La lasciò piangendo. Lei era avvolta nel lenzuolo e girava
per il minuscolo monolocale, con i boccoli di castagna che le dondolavano sulle
spalle e quando lui la fermò, lo guardò spaventata.
Quando lui disse “è finita”, lei sentì un calore forte in
mezzo alle gambe e si accorse del sangue grumoso che prendeva a fluire
all’improvviso. Se ne andò in bagno e si infilò un Tampax. Poi se ne andò e
basta, senza salutare, senza supplicare. Le lacrime le si incastravano nella
gola e mentre camminava a testa bassa sotto la pioggia, cercava le parole che
aveva perso.
Lui la guardò allontanarsi, piccola e colorata in quella
sua minuscola felpa grigia con il cappuccio e lo strano cappello rosa acceso,
abbinato ad una lunghissima sciarpa che le dondolava allegra sulle spalle, una
nota di allegria e colore in quell’inverno arrivato troppo presto. La guardò
evitare gli sguardi della gente, e rimanere appoggiata al muro a fumarsi una
sigaretta, traendo da ogni boccata una promessa di odio.
Quando fu troppo lontana anche per immaginarla, chiuse la
finestra. Nella stanza c’era ancora il profumo di lei. Il letto era ancora
tiepido, e si addormentò tra le lenzuola fragranti dei loro baci.
Il mattino dopo, e tutti quelli seguenti, la osservò
debole e pallida, avvolta in abiti troppo scuri e troppo normali per lei,
camminare per il cortile della scuola sotto il braccio di qualche amico. Lei lo
guardava a malapena per la maggior parte del tempo, ma ogni tanto lo supplicava
con quegli occhi colmi di odio ed amore.
“ Non finirà così.” Si giurava lei, cercandolo tra le
facce ammassate.
“ Non finirà così.” Sperava lui, trovandola senza
difficoltà in quella calca di colori e sorrisi.
Non finì così. Lei era debole. Lei aveva bisogno di lui.
Lui era distrutto. Lui aveva bisogno di lei.
Loro non c’erano più per gli altri. Loro c’erano solo nei
loro sussurri mischiati ai gemiti intrisi di promesse. Loro non erano che due
corpi stretti in un’anima, e lo sapevano entrambi.
Lei cercò di cacciarlo via dal suo corpo, lasciandosi
spogliare da mani senza amore.
Lui si inzuppò di odio, guardandola premere la sua pelle
da principessa su corpi senza anima.
Lei lo amò con tutta la forza del suo odio, mentre si
lasciava bruciare da baci di ghiaccio.
Lui la desiderò senza capire perché, guardandola spegnersi
di lacrime, grigia e non lei.
E forse sarebbe andata avanti in un lungo esitare di odio
e amore, lacrime e rimpianti, baci e pugni, se non fossero capitati per caso ad
una festa noiosa, affollata ma non tanto da risultare interessante e
soprattutto non al punto di permetter loro di non riconoscersi.
Si trovarono vicini. Lei sorseggiava annoiata un liquore,
alcol che bruciava sulle sue labbra infettate d’odio, e lui fumava.
“ Ciao” esordì lei, guardandolo stupita. I suoi occhi si
spalancarono lentamente, aperti di promesse non mantenute e lacrime, urla nel
silenzio e rimpianti.
“ Ti amo ancora.” Disse per tutta risposta lui,
togliendole il bicchiere dalle mani.
Lei lo schiaffeggiò. Lui fermò la sua mano sulla guancia e
le disse di farlo ancora. Lei lo colpì nuovamente. Lui strinse il suo polso tra
le dita e la guardò con quegli occhi alla menta che la scioglievano dentro.
“ Anche io ti amo ancora.” Disse lei, tremando. Lo colpì
ancora, e poi si lasciò andare docilmente tra le sue braccia.
Il dopo fu difficile. Si trattò di cancellare odio e
rancore e disegnare a nuovi tratti amore e felicità. Ma lui era forte, con lei,
e lei era radiosa, con lui.
Lei compì diciotto anni in un pomeriggio di primavera, e
portò una scatola di cartone nel monolocale di lui.
Tirarono fuori una foto. Era in una cornice da ragazzina,
di peluche rosa con perline luccicanti appese qua e là. Due visi vicini, le
pelle diverse a contatto e quei due sorrisi splendenti della stessa felicità.