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Autore: Andrewthelord    08/12/2014    0 recensioni
Agghiacciante cross-over tra il film “Fracchia la Belva Umana” e l’anime “Kaitou Saint Tail” (Lisa e Seya).
È arrivato in Giappone il più importante dipinto del novecento italiano, un Osvaldo Paniccia originale. Non solo Saint Tail (Seya), anche la Belva Umana (Paolo Villaggio) è sulle sue tracce. Riusciranno Asuka jr (Alan) e il Commissario Auricchio (Lino Banfi) ad impedire l’ennesimo furto? E Giandomenico Fracchia (Paolo Villaggio) verrà ancora utilizzato dal suo sosia per i suoi loschi piani?
Non si tratta, come potrebbe sembrare, di una fan fiction nonsense, ma di una vera e propria storia in cui i personaggi sono loro stessi e non delle caricature.
Sono ben graditi i commenti, anche brevi!
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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54 Cinque personaggi in cerca d’epilogo – Auricchio

 

«Porca puttena maledetta!!!».

Auricchio era rosso in volto come un peperoncino piccante calabrese. E continuava a cambiare in “e” le “a” delle penultime sillabe. Gesticolava come al suo solito. Urlava sputacchiando. Ma nessuno, nemmeno lo spettatore di cinepanettoni più ignorante di tutto lo Stivale, uno di quelli che ride alle battute di Colorado su Italia 1 e tiene l’autografo di Massimo Boldi in salotto come una reliquia lo avrebbe trovato in quel momento divertente.

Rizzo, alle sue spalle, non riuscì proprio a trattenersi. Rimase in silenzio, ma con un sinistro sfondò una parete. E non era cartongesso. Tutti quelli che entravano ed uscivano dallo stanzino erano agenti delle forze dell’ordine, militari, uomini duri. Persino qualche donna, che quanto a testosterone se la sarebbe giocata con Xena. Ma tra questi alcuni piangevano, altri battevano i denti. Qualcuno abbozzò dei conati di vomito. Lo spettacolo di fronte a loro era infatti davvero agghiacciante.

Yamaguchi ed Esposito sembravano sorridere. Ed effettivamente la cosa era parecchio spettrale, dato che erano in pieno rigor mortis. Appesi per le braccia a un lungo tubo di metallo, il peso del loro corpo li schiacciava verso terra, come due pesanti zainetti appesi ad un attaccapanni. I volti tumefatti, dalla bocca fuoriuscivano ancora, come da una spugna bagnata appoggiata a un gancetto sopra un lavandino, pesanti gocce di sangue, che tintinnavano con un suono sinistro sulle pozze dello stesso liquido che incontravano nel pavimento. Nelle suddette pozze, qui e lì, pezzettini di materia rosa chiaro, che nessuno, almeno per quei primi minuti, tentò – o volle provare – a identificare. Non erano tutti gli agenti della spedizione. Tanti altri, infatti, guidati da Tomoki Asuka, stavano stanando uno per uno i criminali dagli altri piani dell’edificio.

Il primo agente che aveva aperto la porta aveva urlato come un pazzo. Se lo aspettavano tutti. La ragazzina che saltava sui tetti e faceva sparire le cose era stata chiara. Ma vederlo era tutta un’altra cosa.

Auricchio era fermo di fronte ai due uomini, che, sebbene da legati, avevano incontrato la morte stando in piedi. Era quello che si era avvicinato di più di tutti. Nessuno, mai, nella vita, gli avrebbe fatto cambiare idea: era colpa sua. Lui era il capo dell’operazione. Se erano stati uccisi era tutta colpa sua.

«Non è morto in Iraq. È morto qua, miseria carogna puttena!». Gemette. «Io lo ammezzo. Ammezzo la Belva». Non l’avrebbe mai confessato a nessuno, nemmeno sul letto di morte, molti anni dopo. Quello che odiava più di tutto è che la Belva era riuscita, anche in quel caso, a trasformare in un lutto quella che per Auricchio sarebbe dovuta essere la festa per la sua cattura. Il culmine di gloria di un’intera vita passata a caccia di un’ombra sfuggente. Un’altra cosa che non confessò mai è che ringraziò il cielo che senza vita, goffamente a penzoloni, di fronte a lui non vi fosse anche il suo braccio destro, De Simone. “Chissà dove chezzo è finito”, pensò, con un pizzico di ingratitudine. Come se fosse uscito in pausa caffè.

Proprio in quel momento il diavolo spuntò.

«FATEMELI VEDEREEE!!!», piangeva una voce inconfondibile. Auricchio si girò di scatto. Aggrappato a due poliziotti giapponesi che lo reggevano, uno a destra, l’altro a sinistra, vistosamente imbarazzati, aveva fatto capolino nella stanza della caldaia anche De Simone. Era possibilmente messo peggio di Esposito e di Yamaguchi, tralasciando quel piccolo particolare che loro erano morti. Lui no.

Sicuramente gli mancava qualche dente. Pareva non avere più l’occhio destro. Forse glielo avevano strappato, o forse, molto più probabilmente, l’ematoma bluastro che si espandeva sotto la fronte gliel’aveva chiuso ermeticamente. Zoppicava. Il viso era una maschera di sangue.  «Li hanno uccisi davvero…», mugolava, tirando su con il naso. «Li hanno uccisi davvero». Piangeva come una bambina di sei anni. In realtà, piangeva come un uomo, è che gli uomini si dimenticano come si piange.

Auricchio si sentì come se gli avessero strappato le viscere. Si avvicinò verso di lui. Paterno, comprensivo, come non lo era mai stato prima e come non lo sarebbe mai stato più: «Chi è stato, De Simone? Chi è stato?».

«Si sono interrotti», deglutì, «non gli ho detto niente. Lui è andato via. Mi avrebbe ucciso. La Belva». Ansimava.

«Chelmo De Simone. Chelmo. Hai fetto un buon lavoro. Portatelo via da qui, per piacere, portatelo subito all’Ospedale!!!», ordinò Auricchio.

I poliziotti, incuranti di De Simone, si voltarono per trainarlo verso l’esterno, ma il braccio destro del commissario barese urlò: «La Belva… è morta».

Auricchio fece il giro e si mise di fronte a lui, con la bocca spalancata: «Che dici?».

«Sì», inspirò profondamente, «quello che mi torturava… è venuto un ragazzino. Lui è uscito dalla stanza, ma ho sentito tutto. L’hanno ammazzato nel magazzino, diceva. Sono scappati tutti».

«Ecco perché scappavano», commentò con voce profonda Rizzo.

«Il meghezzino… Il meghezzino». Auricchio letteralmente volò fuori dalla stanza. Si toccò la fondina e ne estrasse la pistola d’ordinanza. Poi, si fermò. «Dov’è il meghezzino?». Lo seguirono una decina di agenti, confusi e disorientati. Un giovane poliziotto giapponese illuminò con una torcia una piantina dello stabile con il percorso per l’evacuazione anti-incendio. «Di qua!». Indicò. Persino i due giovanotti che trainavano De Simone, con De Simone con le braccia attorno al loro collo, seguirono quel gruppetto. Ormai l’acquario era espugnato: i malviventi erano tutti fuggiti o catturati, per cui il livello di guardia era davvero al di sotto di ogni soglia di sicurezza.

«Di qui», continuò a guidare quella specie di gregge il ragazzino giapponese, che avrà avuto, sì o no, cinque anni solo in più di Asuka junior, l’unico ancora “disperso”. Ogni passo, per Auricchio, pareva lungo un secolo.

«Quella porta lì». Il ragazzino fece per spalancarla, ma Auricchio, con una manata, lo spinse altrove. Alzò, tenendola con due mani, la pistola all’altezza del petto. Tutti gli altri fecero la stessa cosa. Qualcuno, sopra la pistola, con la mano destra preparò la torcia. Tutti, tranne Rizzo, le cui armi erano le mani stesse, ora tenute in una minacciosa posizione pugilistica.

«Via!», sussurrò Auricchio, che spinse il portone antipanico con una spallata. Le torce illuminarono lo stanzone. L’emblema del casino. Mobili, oggetti, lampade, cavi elettrici, vetri rotti dappertutto. Pareva il covo di un accumulatore seriale.

«Dov’è?». Le torce continuarono il loro giro vorticoso, ma, quasi per magia, al medesimo istante, tutte convogliarono in un unico punto. Una massa bianca indistinta. Un uomo dai capelli d’argento, vestito di bianco. Immobile.

«Porca puttena è vero». Auricchio, sempre pistola in mano, piombò su di lui con il guizzo di un uccello rapace.

La Belva. La Belva?

Si avvicinarono a frotte. «È vivo!». Urlò il ragazzino di prima, l’unico a notare i ritmici movimenti del petto. I cani delle pistole ringhiarono all’unisono con il loro inconfondibile tintinnio metallico. Ma non c’era nessuna resistenza da parte dell’uomo. Gli occhi spalancati a fissare il vuoto.

«Sarà Fracchia», azzardò con malcelata delusione un poliziotto italiano del seguito. «Lo avrà preso dall’auto che è fuori e lo avrà buttato qui perché ci cascassimo di nuovo».

«Non è Frecchia», sentenziò sicuro Auricchio, fisso su quegli occhi che fissavano il vuoto. Erano occhi spenti, distanti dalla vitalità e dal terrore che avevano a lungo tempo emanato. Erano però ancora gelidi, ma desolati da un diverso tipo di freddo. Ciò che non mancava in quello sguardo capace di penetrare i muri era un indistinto anelito di suprema dignità. «Non è Frecchia. Lo abbiemo cattureto davvero».

«È vero!», gioì il poliziotto italiano di prima, «non è Fracchia!». Lo disse con sicurezza perché, a differenza di Fracchia, che avevano preso poche ore prima, i pantaloni di quell’uomo a terra, pur impolverati, pur in parte strappati, erano ancora completamente candidi. Senza alcun tipo di macchie dalle colorazioni imbarazzanti.

«Ma che gli è successo?», domandò qualcuno.

«Non è ferito…», gli fece eco qualcun altro.

«Sarà stata la ragazzina», continuò un altro ancora.

Ma Auricchio non ci badava. Sospirò più volte, come lo studente che si prepara ad esporre, dopo anni di lavoro, sacrifici e notti insonni, la sua tesi di laurea. Rimise la pistola nella fondina, e dalla tasca destra estrasse un paio di manette. Le stesse. Lì da quanto? Non se lo ricordava più. Ma erano pronte per quel giorno.

Si chinò, e, tremando come una foglia, strinse i ganci di metallo ai polsi della sua nemesi. E non era paura.

«Paolo Bonsignore, la dichiaro in arresto».

Nei suoi occhi il luccichio del falegname, che, a tarda sera, dopo giorni di lavoro, contempla con orgoglio quei pezzi di legno da lui prima tagliati, poi con pazienza e carta vetrata levigati, successivamente incollati e infine lucidati centimetro per centimetro. Non più solo pezzi di legno, ma tavoli, sedie e panchine di tutto rispetto.

 

   
 
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