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Cinque personaggi in cerca d’epilogo – Auricchio
«Porca puttena maledetta!!!».
Auricchio era rosso in volto come un peperoncino
piccante calabrese. E continuava a cambiare in “e” le “a” delle penultime
sillabe. Gesticolava come al suo solito. Urlava sputacchiando. Ma nessuno,
nemmeno lo spettatore di cinepanettoni più ignorante di tutto lo Stivale, uno
di quelli che ride alle battute di Colorado su Italia 1 e tiene l’autografo di
Massimo Boldi in salotto come una reliquia lo avrebbe trovato in quel momento
divertente.
Rizzo, alle sue spalle, non riuscì proprio a
trattenersi. Rimase in silenzio, ma con un sinistro sfondò una parete. E non
era cartongesso. Tutti quelli che entravano ed uscivano dallo stanzino erano
agenti delle forze dell’ordine, militari, uomini duri. Persino qualche donna,
che quanto a testosterone se la sarebbe giocata con Xena. Ma tra questi alcuni
piangevano, altri battevano i denti. Qualcuno abbozzò dei conati di vomito. Lo
spettacolo di fronte a loro era infatti davvero agghiacciante.
Yamaguchi ed Esposito sembravano sorridere. Ed
effettivamente la cosa era parecchio spettrale, dato che erano in pieno rigor
mortis. Appesi per le braccia a un lungo tubo di metallo, il peso del loro
corpo li schiacciava verso terra, come due pesanti zainetti appesi ad un
attaccapanni. I volti tumefatti, dalla bocca fuoriuscivano ancora, come da una
spugna bagnata appoggiata a un gancetto sopra un lavandino, pesanti gocce di
sangue, che tintinnavano con un suono sinistro sulle pozze dello stesso liquido
che incontravano nel pavimento. Nelle suddette pozze, qui e lì, pezzettini di
materia rosa chiaro, che nessuno, almeno per quei primi minuti, tentò – o volle
provare – a identificare. Non erano tutti gli agenti della spedizione. Tanti
altri, infatti, guidati da Tomoki Asuka, stavano stanando uno per uno i
criminali dagli altri piani dell’edificio.
Il primo agente che aveva aperto la porta aveva urlato
come un pazzo. Se lo aspettavano tutti. La ragazzina che saltava sui tetti e
faceva sparire le cose era stata chiara. Ma vederlo era tutta un’altra cosa.
Auricchio era fermo di fronte ai due uomini, che,
sebbene da legati, avevano incontrato la morte stando in piedi. Era quello che
si era avvicinato di più di tutti. Nessuno, mai, nella vita, gli avrebbe fatto
cambiare idea: era colpa sua. Lui era il capo dell’operazione. Se erano stati
uccisi era tutta colpa sua.
«Non è morto in Iraq. È morto qua, miseria carogna
puttena!». Gemette. «Io lo ammezzo. Ammezzo la Belva». Non l’avrebbe mai
confessato a nessuno, nemmeno sul letto di morte, molti anni dopo. Quello che
odiava più di tutto è che la Belva era riuscita, anche in quel caso, a
trasformare in un lutto quella che per Auricchio sarebbe dovuta essere la festa
per la sua cattura. Il culmine di gloria di un’intera vita passata a caccia di
un’ombra sfuggente. Un’altra cosa che non confessò mai è che ringraziò il cielo
che senza vita, goffamente a penzoloni, di fronte a lui non vi fosse anche il
suo braccio destro, De Simone. “Chissà dove chezzo è finito”, pensò, con un
pizzico di ingratitudine. Come se fosse uscito in pausa caffè.
Proprio in quel momento il diavolo spuntò.
«FATEMELI VEDEREEE!!!», piangeva una voce
inconfondibile. Auricchio si girò di scatto. Aggrappato a due poliziotti
giapponesi che lo reggevano, uno a destra, l’altro a sinistra, vistosamente
imbarazzati, aveva fatto capolino nella stanza della caldaia anche De Simone.
Era possibilmente messo peggio di Esposito e di Yamaguchi, tralasciando quel
piccolo particolare che loro erano morti. Lui no.
Sicuramente gli mancava qualche dente. Pareva non
avere più l’occhio destro. Forse glielo avevano strappato, o forse, molto più
probabilmente, l’ematoma bluastro che si espandeva sotto la fronte gliel’aveva
chiuso ermeticamente. Zoppicava. Il viso era una maschera di sangue. «Li hanno uccisi davvero…», mugolava, tirando
su con il naso. «Li hanno uccisi davvero». Piangeva come una bambina di sei
anni. In realtà, piangeva come un uomo, è che gli uomini si dimenticano come si
piange.
Auricchio si sentì come se gli avessero strappato le
viscere. Si avvicinò verso di lui. Paterno, comprensivo, come non lo era mai
stato prima e come non lo sarebbe mai stato più: «Chi è stato, De Simone? Chi è
stato?».
«Si sono interrotti», deglutì, «non gli ho detto
niente. Lui è andato via. Mi avrebbe ucciso. La Belva». Ansimava.
«Chelmo De Simone. Chelmo. Hai fetto un buon lavoro.
Portatelo via da qui, per piacere, portatelo subito all’Ospedale!!!», ordinò
Auricchio.
I poliziotti, incuranti di De Simone, si voltarono per
trainarlo verso l’esterno, ma il braccio destro del commissario barese urlò:
«La Belva… è morta».
Auricchio fece il giro e si mise di fronte a lui, con
la bocca spalancata: «Che dici?».
«Sì», inspirò profondamente, «quello che mi torturava…
è venuto un ragazzino. Lui è uscito dalla stanza, ma ho sentito tutto. L’hanno
ammazzato nel magazzino, diceva. Sono scappati tutti».
«Ecco perché scappavano», commentò con voce profonda
Rizzo.
«Il meghezzino… Il meghezzino». Auricchio
letteralmente volò fuori dalla stanza. Si toccò la fondina e ne estrasse la
pistola d’ordinanza. Poi, si fermò. «Dov’è il meghezzino?». Lo seguirono una
decina di agenti, confusi e disorientati. Un giovane poliziotto giapponese
illuminò con una torcia una piantina dello stabile con il percorso per l’evacuazione
anti-incendio. «Di qua!». Indicò. Persino i due giovanotti che trainavano De
Simone, con De Simone con le braccia attorno al loro collo, seguirono quel
gruppetto. Ormai l’acquario era espugnato: i malviventi erano tutti fuggiti o
catturati, per cui il livello di guardia era davvero al di sotto di ogni soglia
di sicurezza.
«Di qui», continuò a guidare quella specie di gregge
il ragazzino giapponese, che avrà avuto, sì o no, cinque anni solo in più di
Asuka junior, l’unico ancora “disperso”. Ogni passo, per Auricchio, pareva
lungo un secolo.
«Quella porta lì». Il ragazzino fece per spalancarla,
ma Auricchio, con una manata, lo spinse altrove. Alzò, tenendola con due mani,
la pistola all’altezza del petto. Tutti gli altri fecero la stessa cosa. Qualcuno,
sopra la pistola, con la mano destra preparò la torcia. Tutti, tranne Rizzo, le
cui armi erano le mani stesse, ora tenute in una minacciosa posizione
pugilistica.
«Via!», sussurrò Auricchio, che spinse il portone
antipanico con una spallata. Le torce illuminarono lo stanzone. L’emblema del
casino. Mobili, oggetti, lampade, cavi elettrici, vetri rotti dappertutto.
Pareva il covo di un accumulatore seriale.
«Dov’è?». Le torce continuarono il loro giro
vorticoso, ma, quasi per magia, al medesimo istante, tutte convogliarono in un
unico punto. Una massa bianca indistinta. Un uomo dai capelli d’argento,
vestito di bianco. Immobile.
«Porca puttena è vero». Auricchio, sempre pistola in
mano, piombò su di lui con il guizzo di un uccello rapace.
La Belva. La Belva?
Si avvicinarono a frotte. «È vivo!». Urlò il ragazzino
di prima, l’unico a notare i ritmici movimenti del petto. I cani delle pistole
ringhiarono all’unisono con il loro inconfondibile tintinnio metallico. Ma non
c’era nessuna resistenza da parte dell’uomo. Gli occhi spalancati a fissare il
vuoto.
«Sarà Fracchia», azzardò con malcelata delusione un
poliziotto italiano del seguito. «Lo avrà preso dall’auto che è fuori e lo avrà
buttato qui perché ci cascassimo di nuovo».
«Non è Frecchia», sentenziò sicuro Auricchio, fisso su
quegli occhi che fissavano il vuoto. Erano occhi spenti, distanti dalla
vitalità e dal terrore che avevano a lungo tempo emanato. Erano però ancora
gelidi, ma desolati da un diverso tipo di freddo. Ciò che non mancava in quello
sguardo capace di penetrare i muri era un indistinto anelito di suprema
dignità. «Non è Frecchia. Lo abbiemo cattureto davvero».
«È vero!», gioì il poliziotto italiano di prima, «non
è Fracchia!». Lo disse con sicurezza perché, a differenza di Fracchia, che avevano
preso poche ore prima, i pantaloni di quell’uomo a terra, pur impolverati, pur
in parte strappati, erano ancora completamente candidi. Senza alcun tipo di
macchie dalle colorazioni imbarazzanti.
«Ma che gli è successo?», domandò qualcuno.
«Non è ferito…», gli fece eco qualcun altro.
«Sarà stata la ragazzina», continuò un altro ancora.
Ma Auricchio non ci badava. Sospirò più volte, come lo
studente che si prepara ad esporre, dopo anni di lavoro, sacrifici e notti
insonni, la sua tesi di laurea. Rimise la pistola nella fondina, e dalla tasca
destra estrasse un paio di manette. Le stesse. Lì da quanto? Non se lo
ricordava più. Ma erano pronte per quel giorno.
Si chinò, e, tremando come una foglia, strinse i ganci
di metallo ai polsi della sua nemesi. E non era paura.
«Paolo Bonsignore, la dichiaro in arresto».
Nei suoi occhi il luccichio del falegname, che, a
tarda sera, dopo giorni di lavoro, contempla con orgoglio quei pezzi di legno
da lui prima tagliati, poi con pazienza e carta vetrata levigati, successivamente
incollati e infine lucidati centimetro per centimetro. Non più solo pezzi di
legno, ma tavoli, sedie e panchine di tutto rispetto.