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Autore: Sheep01    10/12/2014    4 recensioni
E dire che gli mancavano meno di tre mesi alla pensione. Meno di tre fottutissimi mesi. Aveva programmato tante di quelle cose da fare per soffocare l’angoscia di finire come tanti ex colleghi che andavano a smaltire gli ultimi, pigri anni di vita in qualche bettola, a sfondarsi lo stomaco di whisky a giocare a carte, a raccontare le storie dei bei tempi andati, a lamentarsi del tempo e del degrado della gioventù odierna. E invece guarda un po’ che cosa gli doveva capitare.
Una di quelle robe che era sicuro di non aver visto nemmeno in Vietnam quando non era che un ragazzino irascibile, strafatto di canne. Morti ne aveva visti tanti, certo. Morti che ritornavano in vita e sembravano guardarti come fossi un cheeseburger, proprio mai.
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Atlanta: un misterioso esperimento scientifico si conclude bruscamente con un incidente dalle conseguenze inaspettate.
Nel giro di pochi giorni, un'epidemia mondiale prende a serpeggiare per il paese, cominciando a decimare la popolazione...
Genere: Avventura, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nick Fury, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 7

 

"Affido questo manoscritto allo spazio, non con la speranza di ottenere soccorso, ma per contribuire, forse, a scongiurare lo spaventoso flagello che minaccia la razza umana. Dio abbia pietà di noi!"

(Il Pianeta delle Scimmie – Pierre Boulle)

 

*

 

Virginia

 

Singolare come le atmosfere sacre non perdono di mordente, nemmeno dopo l’avvento di uno scenario nettamente in contrasto con una qualsivoglia certezza divina.

La piccola chiesa di campagna, in cui Loki e compagnia norrena si erano imbattuti, non aveva niente di strano. Come se l’edificio non fosse stato toccato dal cancro che aveva corroso il mondo o, nella fattispecie, gli Stati Uniti. Perché, per quanto ne sapeva, magari l’intera epidemia era stata circoscritta al loro continente, mentre l’Europa, pacifica e serena, si godeva il definitivo sfacelo di una delle più grandi potenze del mondo.

Un pensiero nemmeno troppo al di fuori della realtà, di certo non così fantascientifico.

Loki aveva passato una mano sulle lunghe panche di legno lucido, coperte di polvere e vittime dei tarli. Tutt’intorno la luce filtrava dalle finestre decorate a immagini religiose, mentre le statue di angeli e santi, dagli occhi ciechi, proiettavano le loro ombre sul pavimento e le pareti circostanti.

Thor vagava nel dedalo di panche a cercar mostri nascosti. Sif, teneva d’occhio il compagno e, di tanto in tanto, persino lui.

Se non aveva ancora accettato il fatto che non li stesse accompagnando per fregarli, erano di certo solo problemi suoi. Una sola cosa aveva compreso: doveva tenere gli occhi aperti.

Sapeva il demonio che cosa sarebbe stata capace di fare se solo si fosse sentita minacciata nuovamente da lui.

Si soffermò a fissare un dipinto di una Madonna in ascensione. Angeli e cherubini ad accompagnare il viaggio verso la luce. L’espressione estatica della madre di Dio che si elevava al cielo. Sotto di lei, uno stuolo di candele consumate. Alcune delle quali spente di recente? L’odore della cera calda e di bruciato. Non ci voleva certo un genio per capire che c’era qualcosa di decisamente sbagliato nell’insieme.

Una sensazione sgradevole a consumargli lo stomaco, (e no, non per il peso della colpa e il giudizio che avrebbe dovuto sentirsi gravar addosso nella casa del Signore, per quel suo insano, dissacrante gesto. Anzi, a dire il vero, provava un certo sollievo nel non aver sentito quella pudica necessità di abbassare lo sguardo e piegarsi ai suoi peccati) ma nessun formicolio, nessuna pressione alle tempie, solo un presentimento, solo un’intuizione.

“Non siamo soli qui.” Disse solo, la sua voce a disperdersi in un’eco fra le pareti spoglie, troppo alte.

“Non ti facevo un tipo religioso…” Thor in avvicinamento, un mesto sorriso a rischiarargli il viso tirato.

Loki gli lanciò uno sguardo perplesso, finché non comprese l’allusione. E per la prima volta provò un po’ di compassione o forse pietà per l’anima semplice del gigante biondo.

“No, parlavo di qualcosa di molto più terreno”, e nel dirlo indicò il candelabro e la condizione di un paio di candele. “Qualcuno è stato qui.”

Forse lo era ancora. Forse era lì da ancora prima che arrivassero, nascosto da qualche parte.

“Stronzate.” La voce di Sif, alle loro spalle.

“No, ha ragione, la cera è ammorbidita…”

Loki alzò lo sguardo nello stesso momento in cui intravide il luccichio della canna di un fucile. Il click del caricatore. Qualcuno li teneva sotto mira.

Bingo.

“Mani in alto!”

Aveva inteso bene? Mani… in alto? Nemmeno nei film lo dicevano più. E quando si trovò a spiare chi aveva pronunciato quell’arcaico avvertimento, non si stupì di trovare un uomo di una certa età: spettinato, tremante, decisamente poco incline alla conversazione, le narici dilatate come un toro, in procinto di attaccare. Si sentì, suo malgrado, molto più che padrone della situazione. Forse essersi trovato nella medesima circostanza per ben due volte, nel giro di un paio di giorni, lo aveva già reso insensibile all’avvenimento. Canne di fucile. Ormai roba da ridere.

Forse sarebbe servita un po' di diplomazia.

“Veniamo in pace.” Eccolo quell'altro, Thor, a dare prova delle sue acute capacità oratorie. Direttamente da un qualche altro film che sarebbe andato a braccetto col poliziesco da cui aveva tratto ispirazione lo zio tremebondo col fucile.

“C-chi siete?”

Loki fece per aprire bocca, onde evitare qualsivoglia fraintendimento. Una parola sbagliata, di troppo e quel dito avrebbe potuto premere il grilletto, in barba ai pronostici che li davano spacciati a causa dei mostri schioccanti.

“Thor, Sif e Loki.” Pronunciò il gigante biondo, prima che potesse prevenirlo.

L’uomo con il fucile sgranò gli occhi, un po’ interdetto.

“Mi stai prendendo per il culo, figliolo?”

… appunto.

“N-no… che motivo avrei?”

“Non lo so. Il f-fatto che vi chiamate come i personaggi di storielle nord europee?”

Storielle. Si trattava di mitologia. Le storielle erano quelle dei fratelli Grimm, non certo le gesta epiche di dei norreni.

“Oh. Sì, sono… sono soprannomi, sa… siamo… s-siamo motociclisti.”

Motociclisti: come se fosse sufficiente a giustificare l’utilizzo di soprannomi tanto singolari. O ancora peggio, come bastasse a ispirare fiducia. Non era del tutto sicuro che dichiararsi motociclisti li facesse prendere sul serio. Una volta, da ragazzino, aveva visto Easy Rider e la storia lo aveva turbato.

“Ah, motociclisti…” il volto dell’uomo si rischiarò appena di una luce consapevole e forse amichevole; di certo meno cerea a terrorizzata. Forse avrebbe dovuto rivedere il suo concetto di fiducia, “d-da giovane avevo una Ducati. Ma sono passati così tanti anni.” Lo zio sprint aveva fatto la sua sorprendente dichiarazione.

“Davvero? E’ stata la mia prima moto, prima di scoprire le Harley!” e Thor dietro a dargli corda.

La conversazione cominciava a diventare un tantino surreale.

“Scusate… ?” Loki avanzò un passo, con cautela. Non avvertiva più alcuna minaccia, ma trovò stupido e inutile istigare l'altrui paura. “Non potremmo continuare questa gradevole discussione, senza puntarci in faccia quel cannone?”

L’ometto sembrò ricordarsi improvvisamente di essere armato e abbassò il fucile, di poco, ancora non del tutto persuaso della situazione. Doveva però aver intuito l’ingenuità e affabilità del gigante biondo. Non era del tutto certo del perché, ma era la stessa identica sensazione che aveva suscitato in lui. Certo, se non lo avessero preso per zombie…
“Ci siamo fermati per avere un riparo. Per la notte.” Lo anticipò Loki, per dissipare ogni possibile dubbio, “Abbiamo perso i nostri compagni, questa mattina. A qualche miglio da qui…” temporeggiò, dando voce alla sua capacità (o al tentativo) di suscitare compassione. “Non abbiamo con noi che un paio di moto e niente altro… i nostri averi si sono sparpagliati lungo tutta la statale, dopo la fuga.” Lo guardò dritto negli occhi, “Abbiamo solo bisogno di dormire, domattina ce ne andremo di nuovo.”

“A qualche miglio, avete detto?”

Loki intuì un barlume di comprensione nel suo sguardo.

“Precisamente…” continuò su quei toni pacati.
“A-allora probabilmente si tratta delle stesse persone che abbiamo trovato, mentre tornavamo indietro un’ora fa… vero Jane?”

Dal vestibolo, comparve una ragazza. Titubante, gracile. I suoi occhi vispi si posarono rapidamente sul trio, prima di degnarsi di fare un cenno d’assenso.

“Sì… riconosco… riconosco la giacca. Avevano due uccelli, forse due corvi… stampati sulla schiena.”

“Sono loro…” confermò Loki, modulando la sua voce affranta che non fece che guadagnarsi l’ennesima occhiataccia di Sif.

Solo dopo qualche secondo di valutazione, l’uomo si decise finalmente a disarmare il fucile e abbassarlo definitivamente.

“Sono… il professor Erik Selvig e questa è mia nipote… Jane Foster.” Si presentò, in quel rituale che sembrava ancora in voga. Come a riconoscere la natura ancora diplomatica dell’essere umano.

“Siamo arrivati in questo posto solo un paio di giorni fa… e un t-tetto sulla testa, e del cibo in scatola è tutto ciò che possiamo offrire.”

“Non chiediamo niente di meglio…” confermò Loki, mentre le occhiate che il gigante biondo e la giovane Foster si scambiarono non passarono affatto inosservate. Nemmeno alla giunonica Sif.

Che, per una volta tanto, sembrò non prestare attenzione al tono che aveva usato per imbonirsi il neo-trovato pubblico.

 

*

 

Georgia

 

“Ganasce? E di chi è stata l’idea di chiamarli così?” Tony Stark, aveva detto di chiamarsi. Conosceva un Anthony Stark, in effetti. Qualche notiziario alla televisione ne aveva riportato le imprese. Dell’ormai fu giovane, esuberante milionario che portava avanti una delle più ricche e fruttuose industrie belliche degli Stati Uniti. Niente che avesse mai voluto approfondire.

Era arrivato nel tunnel con la sua innovativa arma repellente e li aveva tirati fuori dai guai proprio quando ogni speranza sembrava essere miseramente evaporata. Lui e quel suo assistente impacciato che non aveva smesso di puntar loro contro la pistola, nemmeno quando si erano decisi a rinfoderare arco e frecce.

Un trio singolare. La donna che li accompagnava non sembrava essere molto in forma. Ma non era altro che una pessima bronchite, diceva Stark. Niente che un po’ di riposo e tranquillità non sarebbero stati in grado di curare.

Già, pace e tranquillità: un paio di condizioni di non facile reperibilità di quei tempi.

Si stavano dirigendo ad Atlanta, gli avevano confessato.

Ehi, ma guarda un po’, anche noi! Aveva dichiarato Barney. E la squadra si era assemblata, il tempo di decidere come sistemarsi per la notte.

Avevano del cibo: salatini e snack. Che era decisamente più o meno la stessa merce che avevano racimolato al mini market alla stazione di servizio.

Tutto il necessario per un pigiama party, in linea di massima. Più le birre.

“L’idea è stata mia, ovviamente…” Barney non aveva certo tardato a mostrarsi molto più che compatibile con l’ironia da due soldi del milionario, “anche se devo dire che DM ha quel tocco di classe a cui non avevo proprio pensato.”

“Io ero convinta che avessi deciso per OS.” La donna bionda era stesa sul sedile posteriore della Acura, la portiera aperta a darle un po’ d’aria fresca, intabarrata comunque in una calda coperta di lana.

“OS?” domandò Barney, sgranocchiando un salatino.

“Occhi sporgenti.” Spiegò lei, con voce flebile, ancora indebolita dalla febbre.

“Era un acronimo in fase sperimentale. DM mi sembra più d’impatto.” Spiegò Stark ravvivando un po’ la luce della torcia alimentata a dinamo.

“Sì, lo credo anche io.”

Clint aveva appena posato a terra il suo panino. Le macchie bianche di muffa sulla mollica gli suggerivano che era meglio evitare di finirlo: da che mondo e mondo, un attacco intestinale non era del tutto consigliato in quello scenario. Una volta ci si preoccupava della fila infinita alle poste, e dell'impossibilità di trovare un bagno (come la stupidissima pubblicità dell'antipropulsivo intestinale), ora invece dell’arrivo di una Ganascia marcescente a passo di danza. Non una bella immagine mentre sei piegato, sotto sforzo e intenzionato ad evacuare malessere.

Clint si trovò a pensare che Ganasce era molto meglio di DM. Anche perché se pensava a DM gli veniva in mente il nome di una band inglese. Probabilmente erano morti anche loro. Uno spreco.

 

Si limitava ad osservare la scena in disparte, in silenzio, godendosi la ritrovata pace dopo la tempesta. A pensare a come erano riusciti a scamparla e a come fossero circondati da morti viventi  solo poche ore prima, mentre adesso da persone vive. A formare un gruppo. Il più numeroso in cui fossero incappati in quelle ultime settimane. Inutile nascondere quanto la cosa lo sollevasse. E dire che c’era stato un tempo, in cui… era sicuro di poter asserire di non amare la gente. Non più.

Distolse l’attenzione dalla diatriba in corso solo quando intuì dei passi in avvicinamento; passi che ormai aveva imparato a conoscere. Leggeri, quasi inconsistenti. Natasha.

“Ehi…” la vide esitare solo un istante, prima di prendere posto accanto a lui, sul muretto che delimitava una lunga distesa di campagne desolate. Una postazione dalla quale non avrebbero faticato ad identificare sagome di Ganasce in avvicinamento.

“Ciao.” Le rispose, senza accennare a spostarsi, nonostante lo spazio di una mano, a dividerli.

“Te ne stai in disparte.” Una constatazione, al solito, più che una domanda. Se aveva capito qualcosa di Natasha, in quelle settimane, era che le risposte di cui aveva bisogno se le dava da sola dopo un’attenta e silenziosa analisi della situazione. Con una persona così era quasi impossibile non andare d’accordo. Almeno dal punto di vista pratico. Su quello mentale, si era trovato a pensare più di una volta quanto potesse essere snervante avere qualcuno che su di te non si sbaglia mai, nemmeno sulle questioni più scomode.

“Preferisco godermi le cose da una certa distanza.” Le rispose solo.

“Spero non tutte… le cose.”

Clint valutò le sue parole, non del tutto sicuro di cosa volesse dire. Poi sbuffò una risata. In una serata del genere non voleva perdersi in analisi più o meno complicate degli atteggiamenti umani.

“No, non tutte.” e poi uno scoppio d'ilarità nel gruppo poco distante, arrivò a distrarlo dal discorso.

“Che ne pensi… ?” abbozzò solo un cenno del capo, qualcosa che, era sicuro, Natasha avrebbe colto all’istante.

“Sembrano a posto”, la sentì rispondere senza esitazione, “la donna simula bene. Ma non è in forma.”

Clint le rivolse uno sguardo preoccupato. Stark sembrava tener molto a lei, anche se non aveva ancora capito le dinamiche del loro rapporto. Non erano sposati, ma…

“Anche Stark simula bene.” Qualcosa nei suoi occhi dava anche a lui l’idea della grande preoccupazione che lo affliggeva. E della sicurezza che non possedeva affatto, se non per quel suo aggeggio prodigioso con cui aveva allontanato le Ganasce.

Aveva intravisto la propria fine. La loro fine. Per la prima volta dacché erano precipitati in quell’incubo fantascientifico. Una possibilità concreta, dopo giorni di tenace sopravvivenza.

Si era scoperto pronto ad affrontarlo con una lucidità tale da risultare quasi spaventosa.

Era pronto ad affrontare la fine. Assieme a Barney. Assieme a Natasha.

“Devo…” si umettò le labbra, insicuro su come avrebbe voluto dirlo. Le parole che improvvisamente premevano contro il palato per uscire, non preventivate, “devo ringraziarti.”

Sentì su di sé gli occhi curiosi, inquisitori della ragazza.

Si decise a voltarsi dopo una quantità indefinita di tempo. Non era affatto abituato a ringraziare qualcuno. Cominciare con lei, poi, complicava decisamente le cose.

“Per Barney.”

Lei di nuovo non parlò, come aspettandosi la conclusione di un discorso tronco. Stavolta, come il giorno della partenza da Paris, le cose sembrava volerle sentire.

“Per averlo aiutato… nel tunnel.”

Per avergli salvato la vita. Parole che sembravano troppo melodrammatiche, ma che descrivevano abbastanza chiaramente quello che aveva fatto. Con una tenacia, una forza, una determinazione che non aveva visto rivolger loro tanto spesso.

Lo sguardo di lei ancora fermo, puntato nella sua direzione, impassibile, affatto intenzionata a suggerirgli il suo stato d’animo a riguardo. Almeno non del tutto.

“Siamo una squadra”, pronunciò lei infine. Sentirglielo dire lo sorprese più del suo slancio d’altruismo sul fratello. Una sensazione un po' strana alla base dello stomaco, qualcosa che era convinto non sarebbe più stato in grado di provare senza una punta di smarrimento.

“Già.” Non poté far altro che confermare.

La sensazione si era intensificata dopo gli ultimi avvenimenti. Al modo in cui si erano battuti. Spalleggiati. Sostenuti. Pronti alla morte. Insieme.

Del tutto in contrasto con le sue convinzioni di qualche settimana prima, col fatto che lui e Barney –  soli – avrebbero potuto essere invincibili, senza l'aiuto di nessuno.

“Ti avevo detto che potevi fidarti di me.”

A Clint sembrò di poterglielo sentir dire di nuovo, di ricreare le stesse atmosfere del discorso fatto una notte, a bordo del pick-up, con un’unica, sola differenza: che ora ne era consapevole.

“Dunque… dunque i ringraziamenti non sono necessari.” Aggiunse lei, per una volta tanto una simulazione d’indifferenza mal riuscita.

La guardò a lungo, e poi sorrise: “Okay.”

Natasha sembrò soddisfatta di quella risposta e andò a frugarsi nelle tasche laterali dei pantaloni militari che avevano raccattato in un negozio di abbigliamento, svaligiato ormai giorni prima.

Ne tirò fuori il suo kit per l’insulina. Clint non poté fare a meno di distogliere lo sguardo.

“Ti fa paura?” la sua voce stavolta si concretizzò in una domanda. Un po’ retorica, forse.

“La malattia?” le domandò, simulando indifferenza, concentrandosi sulla carta del panino che ancora teneva fra le mani, accartocciata.

“Gli aghi.”

“No.”

“Non si direbbe.”

“Paura è una parola grossa.”

“Ti fanno senso.” Specificò.

“Un po’.”

“Eppure sei un arciere. Le cose appuntite dovrebbero essere il tuo pane quotidiano.”

La vide preparare la siringa.

“Non è esattamente la stessa cosa, se proprio vogliamo dirla tutta.”

“No?”

“Non proprio. Una siringa non ti ammazza.”

“Dipende. Una bolla d'aria dritta in vena e sei morto.” la freddezza di quelle parole, gli suggerirono, ancora una volta, che Natasha nascondeva ben più di un segreto sotto quella corteccia silenziosa.

Non riuscì proprio a fare a meno di notare che la ragazza si stava sollevando la maglia per scoprire lo stomaco.

“Non avrai intenzione di fartela lì.”

Natasha si strinse nelle spalle, con noncuranza: “Un posto vale l’altro.”

“Ma proprio per niente! Nella pancia?”

“In un braccio, in una gamba, nella pancia… se non altro qui nemmeno lo sento.”

“Perché sei dovuta venire fin qui a farlo?”

“Non devi guardare per forza.”

Gli lanciò solo un'occhiata, per un solo istante, con quella sua espressione del tutto illeggibile e poi calò il microscopico ago, proprio lì, nella parte molle del ventre. Senza attendere che distogliesse discretamente lo sguardo. A spregio.

“Cazzo, ma allora sei stronza!” sbottò Clint sentendo i brividi serpeggiargli su per la schiena, i peli delle braccia ritti come quelli di un porcospino. E un principio di nausea non richiesto. Decisamente non richiesto. Non dopo un panino alla muffa.

La vide estrarre l’ago e ricoprirsi lo stomaco. Un sorrisetto appena intuibile a incresparle le labbra. Sì, decisamente si stava prendendo gioco di lui. La stronza.

“Ritratto il ringraziamento di prima.” Dovette specificare burbero, lanciando la carta del panino a bordo del pick-up poco distante.

“Non lo avevo mai accettato. Non mi sembra una gran perdita.”

“Sei stronza.”

Di nuovo, lei sorrise. Un miracolo o uno scherno. La cosa gradevole era che i tratti del suo viso si distendevano fino a renderla ancora più giovane. Molto più che carina.

“E tu sei… strano.”

Un’affermazione che non gli arrivava del tutto nuova, ma che lo costrinse a lanciarle l'ennesimo sguardo perplesso.

“Questa non è una grande offesa.”

“Non voleva essere un’offesa.”

“Non sono…” scrollò le spalle. Strano. “Non più di tanti altri.”

“Uccidi Ganasce da settimane e hai paura di un ago. Perché?”

“Non comincerai a chiamarli così anche tu?”

Si sentì addosso un'occhiata da: non si risponde a una domanda con un’altra domanda.

E capì che con Natasha non si potevano fare giochetti: “E’ una… lunga storia.”

“Tempo ne abbiamo”,  una risposta quasi scontata, “ma posso capirlo se non vuoi raccontarlo.”

Lo poteva capire. Eppure glielo stava chiedendo lo stesso. Ci avrebbe perso qualcosa, parlandogliene? La virile reticenza di un uomo affatto incline a condividere le sue paure.

E comunque paura… era una parola grossa. Enorme.

“Ho avuto a che fare con quegli aggeggi troppo a lungo. Più di quanto un ragazzino di otto anni dovrebbe sperimentare. Non sono mai entusiasta quando ne vedo uno.”

Riaccendevano ricordi per niente piacevoli. Piuttosto molesti. Qualcosa che, a ben guardare, ora gli sembrava arrivare da una realtà così distante da sembrare fasulla. Come fosse appartenuta a qualcun altro.

Avrebbe ancora fatto così male parlarne? Forse no. O forse…

Si rese conto che Natasha si limitava a fissarlo, in quieta attesa. Era sicuro che se avesse smesso di parlare, lei non avrebbe insistito.

E non lo fece.

“Facevano paura anche a me.” Gli confessò in un raro momento di sincerità gratuita. Natasha non era proprio una di quelle persone che si lasciano andare a confessioni, più o meno spinose.

“Mi sembra che tu abbia superato la cosa in modo egregio.”

“Quando le cose sei costretta a farle…”

“Un po’ come uccidere Ganasce.”

“Un po’ come uccidere Ganasce, esatto.”

“Ma merda!”

“Cosa?”

“Barney ci ha proprio deviato con quel suo nomignolo del cazzo.”

E poi successe una di quelle cose che proprio non si aspettava.

Natasha rise. Per la prima volta dacché la conosceva, una risata vera. Affatto simile a quei risolini quieti a una battuta particolarmente divertente o idiota di Barney. O quei sorrisi che stentava a trattenere a uno dei loro battibecchi più tenaci. No, era una risata.

E se prima, con quell’inaspettato sorriso gli era sembrata carina, ora che il riso le rischiarava il viso, la trovava bella. Anche così, spettinata e impolverata, con il sole che ardeva all’orizzonte, pronto a tramontare.

Un’immagine preziosa. Rara di quei tempi.

“A proposito…” distolse lo sguardo, per non abituarcisi, per non doversi fare domande sul perché ne fosse rimasto affascinato, “un paio di quelle mosse con cui hai atterrato Ganasce devi proprio insegnarmele.”

“Non sono sicura…”

“Di che? Non mi dire che è una di quelle robe top secret?”

“… che potresti sopportare uno dei miei allenamenti.”

“Ah!” la fanciulla non era affatto priva di senso dell’umorismo, dopotutto. “Perché ancora non sai con chi hai a che fare, lavoravo in un circo, bella. Tu che facevi?”

Natasha smise di ridere, e quando la consapevolezza che forse, questa volta, avrebbe potuto rispondergli per davvero, su quel misterioso passato di cui non aveva ancora fatto mai menzione, la voce di Barney venne a interrompere l’aspettativa.

“Ehi! Voi due, piccioncini! Avete finito di fare gli asociali? Dobbiamo decidere chi si fa il primo turno di guardia!”

Clint sbuffò qualcosa in risposta e guardò Natasha. Bastò un’occhiata e entrambi furono in piedi, in un salto sincronizzato, pronti ad affrontare la prima notte di gruppo.

 

*

Albany, Georgia

 

Un boato lo destò dal suo sonno precario.

Si mise a sedere sul letto, sbirciando il suo compare che sembrava non aver risentito di quel rumore molesto. Lo vide agitarsi appena sotto le lenzuola e mugugnare qualcosa in protesta.

Il Capitano Rogers si mise in piedi rapidamente, andando a sbirciare oltre le finestre, oltre le assi di legno sapientemente posizionate per limitare gli attacchi.

Fuori, la vita scorreva apparentemente impassibile. Il solo fruscio del vento, ad alimentare l’esistenza, la fuori, nell’oscurità.
“Che fai?” la voce di Sam. Doveva aver deciso che dopotutto poteva ben dare un po’ di attenzione a quell’inconveniente. Steve aveva cominciato a pensare che Wilson si fosse accomodato un po’ troppo facilmente a quella nuova quotidianità.

“Lo hai sentito anche tu, il boato?” Si limitò a rispondergli, continuando a scansionare la zona come un segugio. Non una sola avvisaglia di mutanti la fuori.

“Credevo fosse un tuono.”

“No, sembrava… più un’esplosione.” Apparentemente molto lontana. Come quella di una bomba. Forse era esplosa qualche centrale. Corto circuiti imprevisti.

E poi quando sembrò arrendersi all’evidenza che il fenomeno non si sarebbe ripresentato, ecco che un secondo boato deflagrò l’aria e uno scalpiccio di piedi cominciò a serpeggiare all’unisono, fuori, nei corridoi.

Albany, una cittadina che sulla mappa sembrava priva di spunti strategici interessanti. Il fatto che avessero captato il segnale radio, aveva dato loro il suggerimento per deviare da Atlanta. Per proseguire più a sud. Alla ricerca disperata di uomini. Di persone.

Dopo lo scenario desolante che aveva trovato lungo il percorso, le sue speranze stavano cominciando ad assottigliarsi inesorabilmente. I militari in cui era incappato per strada regalavano un agghiacciante ritratto della caduta dell’esercito e delle sue forze sul campo.

Dopo le perdite… numerose, dolorose, che aveva relegato in un angolo della sua coscienza, trovare lo sceriffo Fury e la sua squadra gli aveva restituito uno spiraglio di positività. Lui che razionalmente ne era sempre stato provvisto ma che aveva dovuto raggranellarne in modo sempre più difficoltoso per tirare avanti, per proseguire in quella sua assurda crociata.

Nel momento in cui era partito da Washington, la sua missione era sempre rimasta la stessa: quella di arrivare ad Atlanta. Constatare di persona la situazione e individuare questo presunto paziente zero. Posto che fosse ancora vivo. Nel qual caso arrivare ai laboratori di ricerca e raggranellare quante più informazioni possibili per…

Ci avrebbe pensato sul momento.

Solo che il gruppo di Fury tutto sembrava pronto fuorché all’eventualità di una gita di piacere ad Atlanta.

Certo, lo sceriffo sembrava un tipo determinato e coriaceo e ancora abbastanza in forma da poter affrontare una prova simile. Non fosse stato per quel suo occhio… un handicap non indifferente.

Se fosse riuscito però a convincere lui, senza ombra di dubbio sarebbe riuscito ad ottenere anche la collaborazione dei due agenti che sembravano essergli fedeli abbastanza da non abbandonarlo. E lanciarsi nella spedizione con fede incrollabile.

Gli altri… gli altri erano solo civili. Civili che, per quanto accoglienti, erano pressoché inservibili.

Il gruppo era ancora troppo scarno. Ma dubitava che la fortuna di essere incappato nello sceriffo e la sua quadra potesse arridergli una seconda volta, tanto rapidamente.

Avrebbe dovuto accontentarsi. E prepararsi. Prepararsi all’unico obiettivo che si era prefissato dal giorno in cui quella bestialità era esplosa negli Stati Uniti.

Focalizzare. E concentrarsi, un passo alla volta. Per restare razionali, non perdere la testa, così come aveva visto fare a molte delle persone che poi aveva visto cadere.

Un obiettivo è ciò che ti mantiene lucido e reattivo abbastanza a lungo. Che soffoca quel dolore che è sempre lì, latente, pronto a piegarti, sconfiggerti.

I suoi pensieri vennero interrotti dal brusio e da un paio di colpi alla porta della stanza in cui erano stati sistemati, Sam e lui.

“Avanti…” si era voltato appena in tempo per vedere il viso dell’agente Coulson fare capolino dall’uscio, con aria preoccupata e vagamente titubante.

“Capitano… credo dobbiate raccogliere le vostre cose.”

Rogers era entrato rapidamente in assetto d’allerta. Si era allontanato dalla finestra, mentre Sam stronfiando qualcosa, era emerso dal suo giaciglio improvvisato.

“Che sta succedendo?”

“Abbiamo motivo di pensare che la città verrà invasa a breve.”

Steve inarcò un sopracciglio, scambiando uno sguardo con il suo compare, che si limitò a raccogliere i pantaloni da terra per rivestirsi.

“Quanto tempo abbiamo?”

“Non ne siamo sicuri. Ma la statale si è già riempita di…”

“Quei fottutisimi marcioni.” Sam completò la frase per lui, evidentemente contrariato all’idea di dover rinunciare al suo meritato riposo.

“Già e… credo ci farebbe molto comodo quel vostro… carro armato.”

Steve si concesse un profondo respiro.

“Da che parte siamo diretti?”

“Lo sceriffo dice che… dovremmo dirigersi a nord di Atlanta.”

A nord di Atlanta.

Annuì una sola volta, trattenendosi dal sorridere.

Per una volta tanto, non avrebbe nemmeno dovuto chiedere.

 

___

 

Note:

Altro capitolo di raccordo. I gruppi (con le new entry) si stanno formando e dirigendo, finalmente, tutti quanti nella stessa direzione. Nel prossimo capitolo (che sarà un po’ particolare)  verrà chiarito qualche dubbio. Non tutti però…
Chiudo rapida e indolore ringraziando i lettori, la mia socia e beta Sere e augurandovi una buona settimana. Forse ci sentiamo prima di Natale con un’altra cosa. Roba senza zombie, eh. Alla prossima.

  
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