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Autore: _antigone    10/12/2014    3 recensioni
{AU; Bellarke ♥ Linctavia}
« [...] ora che cosa pensi di fare?»
La bionda aggrottò la fronte. «In che senso?»
«Andiamo, Clarke, siamo in un luna-park. Qualcosa vorrai pur farlo, no?» spiegò il moro allargando le braccia.
Lei invece le incrociò al petto, gli occhi sospettosi. «In verità io li odio, i luna-park.»
Bellamy emise una risata incredula. «Che cosa?»
«Le cose possono essere amate ed odiate, Bellamy.»
«Se è per questo anche le persone, Principessa.» convenne Bellamy con un sorrisetto.
Genere: Comico, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Lincoln, Octavia Blake
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Maybe luna-parks aren’t that bad 
 
 



«Per l’ultima volta, Octavia: non intendo partecipare a nessuna squallidissima uscita a quattro dove sia presente anche tuo fratello.»
Erano circa dieci volte che glielo ripeteva, eppure la sua migliore amica non smetteva di tormentarla da quella mattina.
«Non è un’uscita a quattro!» replicò infatti Octavia calcando con disgusto l’espressione uscita a quattro. «Solo un giro al luna-park con me, Lincoln e Bellamy.»
«Guarda caso siamo quattro persone, due ragazze due ragazzi, che escono la sera. Se non è un’uscita a quattro questa…» borbottò Clarke.
«E dai, Clarke» la supplicò la mora, «se verrai, Bellamy non ucciderà Lincoln!»
«Giusto, un Lincoln barbaramente ucciso basta e avanza.» osservò lei riponendo i suoi libri di Geometria nell’armadietto.
«Ah-ah, che simpatica, davvero» bofonchiò l’altra. «Andiamo, te lo chiedo per favore. Bellamy si è messo in testa di fare il terzo incomodo e tenterà costantemente di rovinarci la serata. Ma se ci sarai anche tu potrai tenerlo a bada e – »
«Neanche mi piacciono, i luna-park.»
Octavia sbuffò, stufa, chiudendole l’armadietto con una forte manata. L’amica la fissò con scetticismo, le sopracciglia aggrottate e gli occhi sospettosi.
«Ti veniamo a prendere alle otto  e mezza sotto casa tua, sii puntuale e –»
«Ma io non –»
«Sii puntuale e mettiti qualcosa di carino, okay?»
L’espressione di Octavia non sembrava quella di una che accetta di essere contraddetta. Dopo aver indugiato per vari secondi ed essersi insultata con almeno quindici espressioni offensive diverse, infatti, Clarke sospirò.
«E va bene.»
«Oh, Clarke, grazie!» trillò la mora abbracciandola, «Grazie, grazie, gra –»
«Sia chiara una cosa, però» l’interruppe l’altra senza staccarsi, «primo: mi devi un favore, e per secondo… mi auto-conferisco il potere di dare un ceffone a tuo fratello se fa qualcosa di stupido.»
Octavia ridacchiò divertita, allontanandosi ma mantenendola per le spalle. «Affare fatto, tranquilla. Ci vediamo stasera allora, adesso ho Fisica!»
E, senza lasciarle il tempo di farle un cenno, si voltò e corse via.
«Dannati Blake» borbottò Clarke scuotendo la testa.

 

A Bellamy piaceva il venerdì sera.
Nonostante praticamente tutti pensassero che fosse un tipo da pub, alcool e altre cose, lui quel preciso giorno della settimana preferiva rimanere a casa sua, sul divano con indosso solamente canottiera e pantaloni da tuta, a vedersi di fila anche quattro episodi di The Walking Dead.
Perciò, quando sua sorella era entrata in salotto ordinandogli di vestirsi – e anche in fretta, Bell! – , l’aveva guardata torvo.
«Dobbiamo uscire tra mezzora, mi preparo dopo.»
«C’è stato un cambio di programma» disse in fretta Octavia infilandosi le Timberland, «dobbiamo andare a prendere Clarke, ciò significa uscire almeno venti minuti prima.»
«Quando pensavi di dirmi che sarebbe venuta anche lei?» borbottò il ragazzo alzandosi subito, controvoglia, dal divano e stoppando l’episodio proprio quando il cervello di uno zombie veniva spappolato da un proiettile.
«Ti prego, togli quella roba, è disgustosa.» lo supplicò la minore col tono di chi sta per vomitare, ignorandolo di proposito.
«Sai cos’è disgustoso? Il fatto che tu l’abbia invitata per allontanare me
Octavia lo fissò per un attimo, impassibile. Dopodiché, allacciati gli scarponcini, sorrise. «No, Bell, ti assicuro che quel coso lo è di più.» replicò indicando lo schermo con un cenno della testa.
«Bah» si arrese Bellamy andando a vestirsi.
La piega presa da quella serata gli piaceva sempre meno.
 
 

«Ancora non ho capito perché non ci possa stare io, davanti.»
Bellamy era stanco di vedere sua sorella e quell’energumeno di Lincoln scambiarsi occhiate dolci e complici mentre lui rimaneva nei posti di dietro come un bambino.
«Te l’ho già detto, Bell» sospirò stanca Octavia, voltandosi, «tu non ricordi dov’è casa Griffin, mentre io sì.»
Bellamy non disse nulla, non gli conveniva.
Dopodiché, la jeep di Lincoln si fermò davanti una grande casa dalle pareti bianche ed un ampio cortile. Ma del resto, dove altro sarebbe potuta abitare la figlia di una chirurga di fama internazionale ed un importante ingegnere?
Troppo occupato ad osservare quella specie di reggia, non si accorse di Clarke che saliva sull’auto e, dopo aver salutato Octavia e Lincoln, gli si sedeva accanto.
Spostò gli occhi su di lei, dapprima sorpreso: nei dieci anni in cui l’aveva “frequentata” a causa dell’amicizia con sua sorella, non l’aveva mai vista con indosso altri indumenti a parte felpe o magliette comode e larghe. Quella sera, invece, indossava un maglioncino verde scuro e dei leggins.
«Perché mi fissi?» gli domandò con la fronte aggrottata.
Bellamy si riprese subito, mutando la sua espressione stupita in una di sfacciata e falsa arroganza.
«Sicura di voler uscire dal suo castello, Principessa?»
Clarke sospirò, levando gli occhi al cielo.
«Sarà una lunga serata» constatò a bassa voce, in modo che la frase fosse captata unicamente da lei e Bellamy.
Di questo sono certo anche io, pensò il ragazzo guardandola di sottecchi.
 
 

Clarke non odiava Bellamy, affatto, nonostante potesse spesso sembrare il contrario.
Bellamy Blake era quel tipo di persona con cui non dovevi fermarti all’apparenza, che scoprivi giorno dopo giorno.
Quello che le faceva rabbia era il non riuscire a capirlo mai completamente. Certe volte era molto gentile con lei – dopo dieci anni qualche progresso l’avevano fatto, dopotutto – , mentre altre avrebbe solamente voluto prenderlo a schiaffi.
Da quel punto di vista, Bellamy era molto interessante. Clarke pensava questo sin dalle elementari, quando conobbe Octavia. Ricordava di averlo fissato molte volte con la coda dell’occhio, affascinata dal velo di mistero che lo avvolgeva.
Crescendo, aveva iniziato a sentirsi sempre più a disagio con lui – chissà perché, poi –, finché l’imbarazzo non divenne talmente tanto da fare in modo che i due parlassero molto poco rispetto alla loro infanzia, e che, quando lo facevano, finissero inesorabilmente per trovarsi in disaccordo.
Be’, quella volta, miracolosamente, Clarke era d’accordo con lui.
Octavia, avvinghiata al braccio di Lincoln, aveva appena annunciato che sarebbero andati per conto loro. Lincoln non aveva detto nulla, si era limitato a sorridere, imbarazzato, pronto a vagare per le mille bancarelle del luna-park con la sua ragazza.
«Che?» aveva esclamato Bellamy, incredulo, aggiungendo che se erano usciti in quattro – prima di dirlo aveva esitato – sarebbero dovuti rimanere in quattro.
Nonostante fosse dispiaciuta per l’amica, Clarke non desiderava molto stare da sola con Bellamy. In fondo avrebbe dovuto solo tenerlo a bada, mica uscirci insieme!
«Non iniziare a rompere, Bell» sbuffò Octavia a braccia conserte. «Stai iniziando a diventare patetico.»
Questo non lo doveva dire, pensò Clarke. Ed aveva ragione: gli occhi di Bellamy si illuminarono di una luce cattiva, quella che la confondeva e le impediva di capirlo.
«O., non ti azzardare a dirmi mai più una cosa del genere oppure –»
«Oppure cosa?» ringhiò la minore avvicinandosi al fratello.
E poi, accadde tutto in un attimo.
Clarke e Lincoln si scambiarono uno sguardo complice, del tipo “io penso a lei, tu a lui, evitiamo di finire all’ospedale” – era vero che a volte gli sguardi valevano più di mille parole – e scattarono.
Lincoln poggiò una mano sulla spalla della mora, dicendo: «Octavia, dai, calmati.»
Lei non si oppose, anzi: lo prese per mano, lanciando uno sguardo penetrante al fratello, e si allontanarono.
«Octavia!» strepitò Bellamy sporgendosi in avanti.
Clarke, veloce come un fulmine, lo afferrò per un punto imprecisato del braccio, trascinandolo dalla parte opposta del parco divertimenti.
Si fermò dopo qualche secondo e si voltò verso di lui, squadrandolo torva.
«Perché mi guardi in quel modo?» le domandò Bellamy.
«Perché? Dannazione, solo Dio sa cos’avresti potuto combinare!»
Il ragazzo spostò lo sguardo, la mascella serrata e la fronte aggrottata.
«Ormai ha sedici anni, Bellamy. Non è più una bambina. E tuo padre si è ripreso, non devi più fa – »
Quando sentì il braccio di Bellamy tremare, Clarke capì di essersi spinta troppo oltre.
L’alcolismo del padre era sempre un argomento delicato, secondo forse solo alla morte della madre. Deglutì.
«Mi dispiace, non vole – »
«Lasciami.»
«Cosa?»
«Il polso» mugugnò Bellamy, «sono ore che me lo tieni.»
Clarke allora abbassò lo sguardo. Bellamy aveva ragione: glielo teneva stretto, come se ne andasse della propria vita.
Lo lasciò di corsa, arrossendo. Sperò che, essendo le nove passate, non si notasse.
«Bellamy» gli disse, «ascolta, scusa, sul serio, io non…»
«Va tutto bene, e hai ragione.» Il ragazzo accennò un sorriso. «Comunque, ora che cosa pensi di fare?»
La bionda aggrottò la fronte. «In che senso?»
«Andiamo, Clarke, siamo in un luna-park. Qualcosa vorrai pur farlo, no?» spiegò il moro allargando le braccia.
Lei invece le incrociò al petto, gli occhi sospettosi. «In verità io li odio, i luna-park.»
Bellamy emise una risata incredula. «Che cosa?»
«Le cose possono essere amate ed odiate, Bellamy.»
«Se è per questo anche le persone, Principessa.» convenne Bellamy con un sorrisetto. «Ma i luna-park … quelli no.»
«Ho capito dove vuoi andare a parare, sai?» sbottò Clarke avvicinadoglisi. «Credi che sia solamente un’asociale che odia il divertimento e preferirebbe tagliarsi le vene ascoltando musica deprimente, possibilmente di Adele, non è vero?»
«In verità no, ma non fai altro che dimostrarlo.»
La bocca di lei rimase aperta per qualche secondo.
Ops, pensò dandosi dell’idiota. Aveva esagerato come al solito.
«Ehi?» Lui le sventolò una mano davanti agli occhi. «Decidi tu cosa vuoi fare. Ovviamente se lo sai. Magari preferiresti davvero tagliarti le vene sentendo Someone like you
«Io so divertirmi!» replicò la ragazza, offesa.
«Oh, sul serio?» la schernì Bellamy, «Allora che vuoi fare, provare a vincere i pesci rossi o prendere i cigni con la canna da pesca?»
A quel punto, Clarke non ce la fece davvero più. Si sporse in avanti, puntandogli un dito al petto e fissandolo con tutto l’odio che riuscì ad accumulare. Sentiva il suo profumo – dopobarba – invaderle le narici e il suo respiro sulla propria pelle, ma non c’era tempo per arrossire e, onestamente, quello non era proprio il momento.
Anche Bellamy stava cercando di non arrossire, dopotutto.
La vicinanza eccessiva della migliore di sua sorella gli creava sempre disagio – soprattutto da qualche mese – e trovarsela praticamente ad una spanna dal viso – a portata di bacio… aspetta, cosa? – non era molto piacevole. Ovvero, lo era.
Lo era e non lo era allo stesso tempo.
Profumava, Clarke. Non sapeva esattamente di cosa – lavanda, forse? – ma profumava. Tanto, anche.
«Questo profumo mi sta uccidendo, Principessa» bofonchiò alla fine. Lei sembrò confusa quando si allontanò, come se per un attimo si fosse trovata su un altro pianeta. I loro occhi si incrociarono per un attimo, ma poi Clarke si voltò e fece per andarsene.
«Clarke?» la chiamò lui, confuso, «Dove vai?»
La bionda si voltò, un sorriso strafottente sul viso.
«A divertirmi», disse.
 
 

 Sono un’idiota, si ripeté Clarke per la decima volta in due minuti.
Era solo quello che poteva dirsi, mentre fissava l’energumeno davanti a lei porgerle il finto fucile.
Non ho mai tenuto in mano un’arma - anche finta - in vita mia e sono un’emerita idiota.
Lo afferrò, titubante, fissandolo per vari secondi.
L’uomo tossicchiò, facendole chiaramente cenno di sbrigarsi. Clarke spostò gli occhi su di lui: indossava una giacca di pelle, jeans strappati e una bandana rossa. Ma gliel’avevano detto che non erano più negli anni ’70?
«Hai capito come funziona, vero?»
Annuì debolmente, sistemando il fucile e guardando le lattine che aveva di fronte e che avrebbe dovuto colpire.
«Dannazione» soffiò quando mancò quella di Coca-Cola che aveva mirato.
Provò di nuovo, ma ottenne lo stesso risultato.
«Mancano tre colpi, ragazzina» la informò l’uomo.
Come se lei non lo sapesse.
Serrò la mascella, il respiro di Bellamy proprio sul suo collo. Lo sentiva, sapeva perfettamente dove si trovava e al contempo era certa del fatto che non la stesse prendendo in giro. Non ancora, almeno.
Colpì una sola lattina, dopo aver terminato i cinque colpi a disposizione.
Sbuffò, delusa.
Bellamy ancora non diceva nulla.
«Puoi riprovare, se vuoi» le disse l’energumeno uscito dagli anni ’70. Clarke ne rimase stupita: se perfino quel tipo era gentile con lei, doveva essere messa proprio male.
«No, grazie. Io… » Lasciò la frase in sospeso.
Hanno ragione, pensò, non so proprio divertirmi.
Dopo avergli fatto un cenno col capo, si voltò e si allontanò dal banco.
«Clarke!» la chiamò Bellamy, «Clarke!»
Ma lei non si voltava.
«Che ha la tua ragazza, amico?» gli chiese l’uomo riponendo al suo posto il fucile. Bellamy lo squadrò torvo.
«Non è la mia ragazza» bofonchiò. Poi, notando come lo stava fissando il tipo, aggiunse: «E comunque non lo so.»
«Be’», sospirò l’uomo, le sopracciglia inarcate, «allora va’ a scoprirlo.»
Bellamy aprì bocca per rispondergli, ma non disse nulla.
Si voltò e corse.
 
 

Per sua fortuna, Clarke non era arrivata troppo lontano.
«Clarke!» esclamò raggiungendola, «Clarke.» ripeté poi a voce più bassa afferrandola per un braccio, vicino il polso.
Lei a quel contatto si voltò di scatto.
«Ridimi in faccia» quasi ringhiò, «so che muori dalla voglia di farlo.»
«Che cosa?»
«L’hai visto tu stesso, Bellamy. Non sono capace. Non sono come te e Octavia, queste cose non fanno per me.»
Incrociò le braccia al petto, senza guardarlo, gli occhi rivolti all’asfalto, intanto che decine di persone le passavano accanto.
«Clarke, non ho intenzione di prenderti in giro.» sospirò il ragazzo massaggiandosi i capelli scuri.
Clarke alzò di scatto il capo, perché il tono con cui aveva detto non gliel’aveva mai sentito usare.
E non riuscì a dire niente; rimase solamente a fissarlo negli occhi – quei pozzi color pece – senza curarsi della bocca semichiusa e il capello ribelle che le era rimasto attaccato alla guancia.
«Davvero?» le uscì dalle labbra, contro la sua volontà. Si diede della stupida per averglielo chiesto.
«Sì» confermò Bellamy, «davvero. Perché pensi sempre che debba fare qualcosa di sbagliato?»
E Clarke l’aveva capito, percepito, anzi, che quel momento era diverso da tutti gli altri che avessero mai vissuto insieme.
Forse lo dedusse dalla sincerità negli occhi di Bellamy, forse dalla sensazione improvvisa di freddo – un freddo che avrebbe voluto sopraffare con un contatto, un contatto umano –, o magari dal silenzio che era caduto tra di loro, che sembrava esserci davvero nonostante tutta la folla.
Fatto sta che, prima che potesse rispondergli qualunque cosa, Octavia e Lincoln erano di nuovo lì con loro. Ed Octavia aveva abbracciato suo fratello, sorprendendolo – “Bell! Eccovi, finalmente!”.
«Bell, mi dispiace per prima, okay? Ti voglio bene.» biascicò sulla sua spalla, la voce impastata e simile a quella di una bambina in cerca di perdono. Bellamy sorrise e le cinse le spalle con un braccio.
«Lo so, O., lo so. Anche io te ne voglio.»
Lincoln le lanciò un’occhiata complice, cui Clarke rispose con un sorriso. Inutile domandarsi di chi fosse il merito di quel rappacificamento.
Fissando la sua migliore amica e suo fratello, quella sensazione di freddo diminuì un po’.
Poi, prima che diventasse troppo tardi, si incamminarono verso la jeep del maggiore dei quattro.
Quando, stranamente, Bellamy prese da parte Lincoln ed iniziarono una conversazione sul football – o era sul baseball? – Octavia tirò a sé Clarke mettendole affettuosamente un braccio attorno le spalle.
«Bellamy è strano, non trovi?» le chiese.
«L’hai capito ora?» ironizzò lei.
«Sai quello che intendo» Octavia la guardò intensamente. «Stasera è strano. Ha perfino fatto “amicizia” con Lincoln.»
Un nodo si formò nella sua gola, un nodo fastidioso ed insistente. Si limitò ad annuire. Che quel cambiamento fosse dovuto a lei?
«Comunque grazie, Clarke» riprese la Blake sorridendole, «sul serio. So che odi queste cose e non ti piace particolarmente passar del tempo con Bell, e mi disp – »
«Ehi, tranquilla» la interruppe la bionda affrettandosi a ridere divertita, agitandole una mano davanti al viso, «Non devi scusarti, davvero. Non è stata una brutta serata» asserì.
La sua migliore amica la guardò in ansia, le sopracciglia aggrottate e le labbra curvate verso il basso. «Non stai scherzando, vero?»
Clarke ridacchiò. «No, sono seria al cento percento. Pensa, mi sono anche divertita… un pochino.»
A quel punto, rincuorata, la mora sorrise entusiasta, stringendola più forte.
E Clarke, fissando Bellamy parlare amichevolmente con Lincoln davanti a sé, felice come non lo vedeva da tempo, si rese conto di non stare mentendo.
Poi, come se una forza superiore, esterna, lo avesse costretto a farlo, Bellamy, voltatosi, incrociò il suo sguardo e le fece un lieve sorriso, di cui solo loro due si accorsero. Un sorriso fatto non solo con le labbra, ma anche con gli occhi.
«Sai che c’è, O.?» aggiunse Clarke con un sorriso attirando l’attenzione dell’amica. «Forse i luna-park non sono poi così male.»











Note:

Ehilà! Sono dannatamente nervosa per via di questa storia che morivo dalla voglia di pubblicare perchè, dopo aver visto il telefilm, mi sono innamorata dei Bellarke.
L'idea mi è venuta dal nulla, è piena di clichè americani ma spero comunque che vi piaccia.
   
 
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