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Autore: TangerGin    10/12/2014    1 recensioni
E lo so che tutto ha una data di scadenza, soprattutto adesso. Lo so che tu hai le tue gambe, io ho le mie, e dovranno camminare in direzioni diverse, perché fa paura ma è adesso che inizia la vita, e ci tocca affrontarla di petto.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Diventare



A diciannove anni, ero innamorata.
Amavo i suoi riccioli ramati, amavo il labirinto delle sue vene, amavo la sua voce, il suo odore, la sua bocca quando mi cercava, amavo sentire quelle mura attorno a me che sembravano di cemento armato.
Amavo per la prima volta, e quando ami per la prima volta lo fai in maniera disperata. Lo fai anche piangendo, urlando, vomitando. Ti aggrappi a quei brividi perché ti sembrano l’unica scarica che ti fa carburare la mattina, e se io ero un robot lui era le mie pile.
Non che io fossi un robot, non lo sono mai stata, e forse qualche volta mi sarebbe servito sentire un po’ meno. Ma c’è sempre stato questo meccanismo scoordinato, questo mio bisogno di avere la certezza di valere per qualcuno, così che poi io potessi davvero valere qualcosa per me stessa. A diciannove anni, mi specchiavo nel riflesso di quell’amore giovane e mi vedevo forte. Ero forte. Le sentivo le mie gambe correre, il petto alzarsi e abbassarsi al ritmo sostenuto del mio respiro. Mi ero costruita una bella impalcatura, tutt'attorno, che ne andavo anche fiera. Fin quando poi quel riflesso è andato ad opacizzare piano, per colpa della condensa asfissiante delle lacrime, e quell'impalcatura ha perso pezzi.
E a quel punto non ero.
Non mi vedevo più, e tutto quello che ero stata si era dissolto in una telefonata a mezzanotte. Si era dissolto in lettere scritte e mai imbucate, e in una fiducia mal riposta. E allora sì, ero ancora innamorata, ma a quel punto l’amore era diventato una condanna che mi costringeva a contarlo sempre nella somma degli addendi. E anche se giravo come una trottola, anche se nelle foto sorrido, io lo ricordo quel costante tarlo: guarda queste strade, guarda pure il cielo, guarda il mare – e lo facevo – ma saranno mai angoli completi senza i suoi occhi accanto ai tuoi? Soffocavo sempre un po’, perché anche se ero circondata da bellezza mi sembrava sempre storpia, e mai completa.
Ed è questo che ti fa l’amore, quando si ammala. Ti corrode la vista.
 
Ad un certo punto, a forza di cataratta, sono diventata cieca. E le strade, il cielo, il mare io continuavo a guardarle, ma non mi rendevo mica conto di non star vedendo proprio un bel nulla. Adesso mi volto indietro, e c’è solo una coperta di lana pesante, e non sono servite le amicizie nate in modo spontaneo e genuino per schiarire quella vista offuscata.
Perché quando l’amore si ammala ad una certa muore, e il suo cadavere resta là dentro di te a marcire piano, talmente lento che non ci fai caso. Ma i vermi ci sono, e non li senti, e quando finalmente hanno finito di divorare ogni brandello di quel sentimento, a te non resta che il vuoto – lo sai quanta paura fa il vuoto?
E così ero cieca ed avariata, e non cercavo più specchi nei quali riflettermi perché semplicemente non avrei mai potuto farlo e, se anche solo ci avessi provato, il terrore di ciò che avrei visto era tale da bloccarmi ancor prima di provarci. Perché poi, di tanto in tanto, qualche specchio l’ho trovato, in questi cinque anni. E qualche sguardo, con la coda dell’occhio, ho anche provato a darlo. Ma non vedevo che rottami, e se c’è una cosa che ho imparato è che se te vedi rottami, alla fine anche gli altri non vedono altro che discarica.
 
E a questo punto vorrei dire una banalità (perché è il modo più semplice per fartelo capire) ma dai detriti nascono fiori. E da quel detrito sono nata io, e quel seme piccolo ce l’hai messo te.
Non ti cercavo, e non ti volevo, e non ti avrei nemmeno mai considerato, ma sei arrivato. Non ti aspettavo. Ero seduta da talmente tanto tempo a quella fermata che mi ero dimenticata cosa stessi attendendo.
Non voglio dire che senza di te non ce l’avrei fatta, perché non è così. Probabilmente sarebbe stato un altro seme che avrei trovato da sola, con gli occhi bassi e ancorati all’asfalto, ma c’è stata questa cosa – chiamala destino, chiamala karma, chiamala che non ci credo a ‘ste stronzate – e quel granello sei stato tu.
Sono state le tue parole gentili, la tua compostezza, le tue sigarette, le tue camicie chiuse fino all’ultimo bottone. È stata quell’amicizia andata in letargo e poi ritrovata.
È stato lo stare bene l'uno accanto all'altra (e te non volevi nemmeno ammetterlo)
Forse, adesso che ci penso, quel seme non sei stato solo tu. Quel seme siamo stati io e te, assieme.
Adesso vivo, e divento, di giorno in giorno, e se posso farlo è anche grazie a te. Mi stai insegnando talmente tanto che dei grazie ripetuti non abbracciano mai la grandezza di quanto tu sia stato - e sei ancora - determinante. Adesso ci stiamo vivendo, ed è veramente bello farlo, soprattutto quando spengo la luce la notte e sento i muscoli tranquilli, tonici e forti. E vorrei chiedertelo, se anche per te è così - ma sono dubbi che preferisco non ascoltare, perché i dubbi e le paranoie si attaccano come viscosa e affossano, ed io non voglio affossarci.

Però lo so che tutto ha una data di scadenza, soprattutto adesso. Lo so che tu hai le tue gambe, io ho le mie, e dovranno camminare in direzioni diverse, perché fa paura ma è adesso che inizia la vita e ci tocca affrontarla di petto.
Ma anche se so che tutto questo prima o poi finirà, posso assicurarti che sarà una fine apparente, e magari non ci saranno più i baci, e non ci saranno più mani, gambe incastrate, sospiri, film da guardare sotto le coperte il lunedì sera, non ci saranno più i venerdì notte nascosti dietro agli angoli dei condomini anche se fa freddo, e non ci saranno i tuoi messaggi da decifrare, le risate sincere, le domande ancor più sincere. Non ci saranno più i sorrisi la mattina in biblioteca, e non ci sarà più questa voglia costante di saperti accanto. Mi fa un po’ male dentro, ad ammetterlo – ad ammettere che so che ci sarà una fine materiale. Però ormai quel seme piantato è diventato un albero, io sono un albero. E non ho più bisogno di specchi, per vedere le foglie verdi, i fiori, i frutti. E quindi sì, ci sarà una fine perché tutto nasce e finisce (proprio come questa paglia fumata lentamente mentre sparo queste parole sul bianco) ma non ti dimenticherò e quindi una fine vera non arriverà mai. So che non ti dimenticherò.
A ventiquattro anni mi sono innamorata. E quando ami con la consapevolezza di farlo, con alle spalle cadaveri putrefatti e gambe spezzate, è tutta un’altra storia.
 
 
   
 
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