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Autore: Francine    13/12/2014    5 recensioni
Tutti quanti abbiamo un angelo custode.
C’è chi lo ha biondo, coi boccoli, la veste immacolata e le grandi ali spiegate alle sue spalle, quelle che usa per ripararci dalla pioggia o per attutirci i colpi bassi della vita. Magari nel tempo libero – ammesso che gli angeli custodi abbiano del tempo libero – suona anche l’arpa, spaparanzato su una nuvoletta tanto candida quanto soffice.
Ecco, chi ha questo tipo di angelo è gente che sa di facciata, come li chiama lei. Quelli che vivono alla luce del sole. Quelli che non sono costretti a sporcarsi le mani. Quelli che non sono come lei, che ha annusato il profumo del rovescio della medaglia e non riesce a dimenticare la sua dolcezza pericolosa e zuccherina. Come di frutta matura, o di fiori da troppo tempo nella stessa acqua.
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Cancer Manigoldo
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Caleidoscopio'
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Il diritto ed il rovescio



 
 
La vita è come una stoffa ricamata della quale ciascuno nella propria metà
dell'esistenza può osservare il diritto, nella seconda invece il rovescio: quest'ultimo
non è così bello, ma più istruttivo, perché ci fa vedere l'intreccio dei fili
.
(Arthur Schopenauer)




Tutti quanti abbiamo un angelo custode.
C’è chi lo ha biondo, coi boccoli, la veste immacolata e le grandi ali spiegate alle sue spalle, quelle che usa per ripararci dalla pioggia o per attutirci i colpi bassi della vita. Magari nel tempo libero – ammesso che gli angeli custodi abbiano del tempo libero – suona anche l’arpa, spaparanzato su una nuvoletta tanto candida quanto soffice.
Ecco, chi ha questo tipo di angelo è gente che sa di facciata, come li chiama lei. Quelli che vivono alla luce del sole. Quelli che non sono costretti a sporcarsi le mani. Quelli che non sono come lei, che ha annusato il profumo del rovescio della medaglia e non riesce a dimenticare la sua dolcezza pericolosa e zuccherina. Come di frutta matura, o di fiori da troppo tempo nella stessa acqua.
E poi ci sono gli angeli custodi come il suo. Scavezzacollo, malandrino e guascone.


«Se vuoi migliorare la tua vita, datti da fare per conto tuo», le ha detto lui da sopra la spalla, quella sera al cimitero. Spezzando i suoi sogni con la stessa grazia di una sassata che centra in pieno un vetro istoriato.
Quanto lo ha odiato!
Quanto lo ha detestato!
Lui le aveva fatto vedere qualcosa di meraviglioso – come una luce calda che risplende invitante sotto la pioggia a dirotto – per poi chiuderlo in una scatola e gettarla in acqua. Lontano. Fuori dalla sua portata. Ecco perché lei li ha seguiti. Ecco perché li ha aiutati contro Avido. Ed ecco perché è diventata una buranella. Una buranella che lavora sodo, otto ore al giorno con gli occhi e le dita a rincorrere gli intricati disegni da riportare sulla tela da ricamo.


Lavorare il merletto è quello che fa una ragazza onesta, a Burano. Una ragazza che non ha un padre, uno zio o un fratello che pensino a lei. Non è stato difficile diventare una buranella. Con la velocità delle sue dita, le viene facile ricamare quei punti complicati ma leggeri come la brina al mattino. Peccato che non abbia trovato posto in un vero laboratorio, ma pazienza. Rispetto a quando viveva a due passi dal cimitero e borseggiava i passanti agli ordini di Lumaca, la vita a casa del Bepi è una pacchia. Ha delle compagne. Qualcuno con cui parlare. Qualcuno che è lì per uno scopo. Pagarsi il corredo. Rimediare una dote per sposarsi. Essere indipendente. Mandare avanti una famiglia. O racimolare i soldi necessari ad un lungo, lunghissimo viaggio.
Ci sono giorni in cui sente di essere un piccolo ragnetto che tesse, tesse, tesse… Giorni in cui, quando cala la sera, le dolgono le spalle e le fanno male gli occhi, ma non importa. Ha deciso di farcela con le sue forze. Perché lui le ha mostrato che è possibile. Che una via esiste. Che lei può farcela.
Perché anche chi profuma di rovescio, come lei, ha un angelo custode. Scavezzacollo, malandrino e guascone. Ma c’è. E veglia su di te. Ed è questo l’importante.

 
«Ancora non avete finito?», le chiede Cencia, la moglie del Bepi, una donna tonda come una palla di sego che finge di essere burbera, quando invece ha un cuore grande così. Bepi fa finta di sonnecchiare davanti al camino, la pipa in bocca e i piedi al caldo. Gli piace avere le ragazze in casa. Gli piace vederle spignattare in cucina. E si sta leccando i baffi fin dal momento in cui Maria ha messo una manciata di chiodi di garofano a sobbollire nel vino con il succo delle arance e un goccio di anice.
«Le candele costano», ricorda alle ragazze, simulando uno sbadiglio. «E domani c’è la sveglia all’alba.»
«Abbiamo quasi finito», risponde Gioca – che adesso si fa chiamare Nina – tornando ad immergere i crustoli nello strutto. «Vero?», chiede a Maria.
«Vero», mente Maria, un sorriso a mezzaluna, da gatta che finge di essere addormentata prima di balzare addosso al cardellino. E papparselo in un boccone. Gioca non sa quale sia il vero nome di Maria, né lei gliel’ha mai chiesto. Maria ha una luce dura nello sguardo, quella di chi si porta nell’anima una cicatrice così profonda ed estesa da essere diventata parte di lei, e Gioca sa quanto sia saggio lasciare al proprio posto un pugnale conficcato in profondità. Se non si sa come estrarlo, si fa più danno a rimuoverlo, che non a lasciarlo lì dov’è.
Cencia sbuffa. «Non fate tardi», dice. Tanto per dire qualcosa e mantenere il punto. «E rimettete tutto in ordine, intese?», aggiunge, chiudendosi alle spalle la porta che da al piano superiore.

Il laboratorio di Bepi è un grande stanzone al piano terra di una casa colorata di rosso che si affaccia sulla Laguna. Vi trovano impiego dieci buranelle, cui il Bepi paga il giusto salario. «Chi no se contenta de l'onesto, perde 'l manego e anca 'l cesto», ripete loro quando è giorno di paga, e anche se il Bepi non è onesto fino in fondo – anche lui odora di rovescio – a casa sua si sta bene. E c’è sempre qualcosa di caldo da bere, nelle lunghe serate di Dicembre, quando la nebbia sale dalla Laguna ed ammanta anche Burano in un alone di bambagia.
E Gioca si chiede se lui sia lì fuori, adesso, nel cortile della casa del Bepi. Perché sa che è passato da quelle parti, appena due giorni prima, quando Elisa e Domenica le hanno fatto la voce grossa, intimandole di lavorare meno velocemente. E al mattino seguente quando quelle due si sono svegliate avevano le trecce legate alla testiera e gli alluci al fondo del letto. E chi altri può essere stato così dispettoso se non lui?
Scemo. Prenderai un malanno, a startene fuori con quest’umidità, pensa Gioca, lo sguardo perso nella nebbia.
«Nina, che c’è di così interessante lì fuori?», le domanda la voce di Maria, strappandola ai suoi sogni ad occhi aperti.
«Eh? Nulla!», le assicura Gioca voltandosi di scatto, ma la sua voce è un’ottava più alta del solito. Come quella del bambino colto con le mani nella confettura.
In poltrona, il Bepi sorride, il sorriso del gatto che sta per papparsi il cardellino. «Eh», sospira. «L’amor no pol star sconto…», e torna ad occuparsi della sua pipa.
«Talìa, ‘cca ccosì si vrusciano», le dice Maria. Maria, così la chiamano, non è di Venezia. Non è nemmeno della Serenissima. È apparsa dal nulla. Si è presentata un giorno a casa del Bepi chiedendo un lavoro. E lui gliel’ha dato senza fare troppe domande. Maria parla poco, ma è svelta ad apprendere ed attenta nel guardare. E quando parla Gioca è contenta di sentire la sua voce. Perché, anche se non sa da dove venga di preciso, lei sente nella sua parlata la stessa cadenza che colora la voce del suo angelo custode. Un dialetto diverso, che sa di mare, sì, ma mare aperto. Forte. Impetuoso. Con la brezza che soffia, portandoti il profumo di mirti, zagare e cedri.
Maria dagli occhi di cielo e i capelli di stoppa che si sta occupando di passare i crustoli nel miele sciolto a bagnomaria quando rimestando con la forchetta nel piatto le chiede:«Senti un po’… Ma almeno è bello questo zito tuo?».
«Io…» Gioca non sa cosa dire. Ed è la verità. Perché lei non ha mai pensato a lui come ad uno zito. Non sa nemmeno che cosa sia, uno zito, a dirla tutta. «Maria, che cos’è uno zito
Maria ride. E tra un crustolo salvato e l’altro le spiega che zito è una parola che nel suo dialetto significa fidanzato. «Quello che a Venezia chiamate moroso

Gioca scuote la testa. Perché no, lei non pensa affatto a Manigoldo come al suo fidanzato. Se parlassimo di quell’altro, Albafica, così bello da sembrare un angelo appena sceso dal paradiso, allora sì, allora forse, allora può darsi. Ma Manigoldo… Manigoldo no. Assolutamente no. Lui è solo un amico. Una specie di fratellone, ecco, se proprio vogliamo vederla in questo modo. Gli è grata per averla aiutata a trovare la sua strada. Per averle dato la spinta necessaria per camminare con le proprie gambe. E sì, quando alla sera ripensa alla sua promessa – «Se sarai diventata una bella donna, allora verrò con te» – le guance le diventano rosse rosse e si tira coperte e lenzuola fin sopra la testa. Ma da qui ad esserne innamorate, ce ne corre. «E poi è un cretino. Uno che si diverte a dire cose terribili per il puro gusto di far arrossire le ragazze.»
«Quelli sono i peggiori», dice la voce di Maria, lo sguardo perso ad osservare chissà cosa nel riflesso dorato del miele. «Anche il mio era così. E io come una scema gli ho creduto. E sono rimasta fregata. Avremmo fatto una fuga d’amore, diceva lui. In due, diceva lui. E invece, una volta al porto, ho scoperto che aveva messo incinta un’altra ragazza e l’aveva sposata in fretta e furia. Così su quella nave sono salita da sola. Senza sapere nemmeno dove stessi andando…»
Gioca non sa cosa dire. Gioca non è pronta a ricevere quel genere di confidenze. A scoprire quanto dolore si celi dietro la maschera di una persona silenziosa. Non preparando dolcetti natalizi come fossero due vecchie amiche. O due sorelle.
«Stagli lontana, ragazzina», dice Maria voltando i crustoli nel miele. «Fallo per il tuo bene.»
«Lui non è quel tipo di persona!», ribatte Gioca. Stringendo il cucchiaio di legno come fosse una spada. «Lui è diverso
«Ma davvero?», le chiede lo sguardo di cielo di Maria. È derisione quella che legge nei suoi occhi? «Oh, lo spero bene! Per te! Non voglio pensare di aver buttato una serata per friggere i crustoli per un mascalzone!»
E ride. Di pancia e di cuore. E la sua risata è un suono bellissimo, come quello dei bambini davanti ad un arcobaleno. Maria profuma di rovescio. Come lei. Come il Bepi. Come la Cencia. Come Manigoldo.
Gioca sorride. E si unisce a Maria, svegliando il Bepi che sonnecchiava davanti al camino.
«Allora, voialtre? Avete finito?»
«Sì, Bepi. Abbiamo finito», lo rassicura Maria spegnendo il fuoco sotto la padella. «Puliamo tutto, ci occupiamo della stufa e andiamo a dormire.»
«Mi raccomando…»
«…vasannò Cencia ci cava gli occhi, altro che Santa Lucia!»

 
C’è foschia, stasera. Il cielo è un mantello scuro e pesante e non si distinguono neppure i contorni delle case accanto a quella del Bepi. E appollaiato sul tetto, le chiappe sulle tegole umide, lui si ritrova a chiedersi per quanto tempo ancora quelle due perderanno in chiacchiere, mentre stringe tra le dita un mandarino. Non ha avuto il coraggio di mangiarlo. È così bello che gli sembra un peccato. Accarezza la buccia profumatissima assaporando la sensazione della pelle granulosa sui polpastrelli. Le farà bene un po’ di frutta. Ultimamente ha il colorito spento. L’espressione sbattuta. Lavora troppo, si dice, e dorme troppo poco. E forse se avesse assecondato quelle due iene delle sue compagne di lavoro – che lui ha immediatamente rimesso in riga – non avrebbe fatto un soldo di danno.
Chissà se le piacciono i mandarini?, si chiede. Aspettando che si spenga la luce nella stanza.
Donne. Sarebbero capaci di riempire un’intera giornata di chiacchiere inutili. E qui rischio di prendermi una polmonite!
Non se l’è sentita di abbandonarla per davvero. E poi il Sacerdote gli ha detto – gli ha ordinato – di tenerla d’occhio. Quanto ha strillato il Vecchio quando ha saputo che lui e Albafica l’hanno lasciata andare e non l’hanno riportata indietro al Santuario! Ha temuto potesse prendergli un sintomo da un momento all’altro; e allora che cosa avrebbe detto alla divina Athena?
«Pazzo incosciente! La Maschera è una sua eredità. Guai a te se le capita qualcosa. Guai a te se qualcuno le torce anche un solo capello!», ha sbraitato il Vecchio alzandosi di scatto dal suo scranno. «Lei, adesso, è una tua responsabilità.»
Manigoldo non ha chiesto a Sage perché non avesse appioppato quella rogna anche ad Albafica. In fondo, lui è colpevole tanto quanto me, no?, si chiede dondolando stancamente un piede nel vuoto. Invece Albafica l’ha passata liscia, come al solito suo. Perché non può stare accanto alla gente, certo. Inizio a credere che questa sua fissazione sia una grandissima camurria
Il piede si ferma a metà del suo percorso. Si apre una finestra e lui ritira indietro la gamba. Sente delle mani armeggiare con qualcosa – della stoffa, forse? – una voce che borbotta per il freddo e gli scuri richiudersi. Si scopre a trattenere il fiato fino a quando non si vede più alcuna luce filtrare attraverso le assi di legno scuro delle imposte. Allora si sporge, cheto cheto, come un gatto che ha puntato la preda e si muove in silenzio. Per arrivarle alle spalle.
Trova due sacchetti sul davanzale, sistemati tra i vasi dei fiori. Sono di stoffa azzurra. Su uno c’è il suo nome, sull’altro quello di Albafica. Chediamine?, si chiede, mentre le sue mani sciolgono il nastro che li chiudeva. La fragranza che lo avvolge come una carezza è inconfondibile. Chiodi di garofano. Anice. Miele. E l’aroma dolciastro dello strutto.
«Crustoli», sussurra, estraendone uno ed osservandolo da vicino. Troppo da vicino, perché il biscotto gli finisce tra le labbra senza nemmeno che se ne accorga.
Squisito!
Sublime!
Delizioso!
Quasi quasi me li pappo tutti io e non ne porto neanche mezzo ad Albafica, pensa. Per fargli un dispetto. Perché, sotto sotto, è rimasto il ragazzino guascone e irritante che Sage ha trovato anni fa, tra le lapidi di un cimitero abbandonato. E Sage lo sapeva, quando gli ha imposto di sistemare la faccenda di Avido, e quando gli ha ordinato di tenere sott’occhio Gioca. Vecchio rompiscatole. Ché non può dire parolacce per un mese. Lo ha promesso ad Athena.
Sì, d’accordo. Ma che ci faccio con questi due sacchetti?, si chiede, mentre si alza un venticello che si insinua sotto le falde del cappotto. Il nome di Albafica spicca in bianco sul fondo azzurro.
«Evvabbene!», sospira. A bassa voce, ché non può permettersi il lusso di svegliarla. Perché per rivedersi si deve essere in due. E lei è stata molto chiara: quando sarà pronta, la vedrà apparire al Santuario. Quando sarà pronta. Non prima. «Li porterò ad Albafica. Anche se non se li merita», aggiunge, infilandosi i sacchetti nelle tasche del cappotto.


«E quello cos’è? Un regalo di Santa Lucia?», dice Maria, alludendo al mandarino che le aspetta sul davanzale di legno.« E no, non ci provare. Ho mangiato io l’ultimo mandarino, ieri mattina.»
Allora è qui!, pensa Gioca. Spalancando le finestre e guardando giù, nel cortile, e poi sporgendosi, per vedere se, tante volte, quello scemo non è andato a rintanarsi sul tetto, come fanno i gatti. Ma non c’è nessuno, solo l’aria frizzante del mattino e la nebbia che sale dalla Laguna. Né riesce a percepire il suo cosmo. Ma quel cretino lo starà occultando di proposito, si dice, le mani strette attorno al mandarino.
«Un bacio tira l’altro, e si finisce in sala parto», chiosa Maria spazzolandosi i lunghi capelli biondi prima di legarli in una crocchia stretta sulla nuca. Gioca non dice nulla. Si limita a chiudere le imposte e a sedersi sul letto con il mandarino tra le mani come se fosse fatto d’oro zecchino. «Ha preso i sacchetti, almeno? »
«Sì.»
«Stai attenta, ragazzina. Gli ziti sono come il mare. Più ne ha, e più ne vuole.»
Ancora con questa storia?, pensa Gioca, gli occhi smarginati e la bocca socchiusa. Come quella dei pesci sui banchi del mercato. «Ma no, ma che vai a pensare!» Dio, fa’ che lui non sia qui. Fa’ che lui non stia ascoltando questa conversazione! «Macché zito e zito! Lui è il mio angelo custode!»
«Sarà…», dice Maria, lasciando cadere il discorso e tornando a preoccuparsi dei suoi capelli. «Ma potevi scegliertelo meno taccagno, il tuo angelo custode. Un solo, singolo mandarino. Bah», dice sistemandosi il vestito e aprendo la porta.
«Quante storie! È un mandarino, mica una promessa di matrimonio», replica l’altra abbandonando la camicia da notte sul letto, ma Maria è già scesa a raggiungere le altre. E Gioca – che adesso si fa chiamare Nina – osserva quel mandarino. Dalla forma imperfetta e con qualche macchia più scura sulla buccia butterata, ma che ai suoi occhi è preziosissimo. Lo so che passi di qui ogni tanto, questo volevano dire quei dolcetti. Che spera siano buoni anche solo la metà di quanto gli ha assicurato Maria.
«Grazie, mio angelo custode…», sussurra al mandarino, prima di lavarsi il viso ed indossare il vestito. Il sole è sorto. E il lavoro non aspetta.


Tutti quanti abbiamo un angelo.
Che tu sia una persona di facciata o di retro, il dritto o il rovescio, non importa. Lui c’è.
E veglia su di te.
Ed è questo l’importante.






Note:
Questa storia si colloca tra la fine del Gaiden dedicato a Manigoldo (con Albafica come special guest star) e i fatti narrati in Lost Canvas. Tecnicamente, dovrebbe esserci sufficiente tempo perché Gioca diventi grande e forte e possa occuparsi della Maschera, riportandola sulla Death Queen Island, ma vabbé. Non cavilliamo.

Nel mio headcanon anche Manigoldo, come Death Mask, è calabrese – costa Ionica, prego – così come è calabrese Maria, la buranella che aiuta Gioca detta Nina a preparare i crustoli.

I crustoli sono dei dolci tipici che si preparano in Calabria durante il periodo natalizio. La ricetta prevede del vermut e del rum, ma non essendo prodotti di larga diffusione all’epoca, ho glissato. Lo so che i chiodi di garofano costavano un occhio della testa, all’epoca, ma siate clementi e chiudete un occhio, ok?

La buranella era la ricamatrice di merletti nei laboratori dell’isola di Burano. La casa del Bepi (= Giuseppe) esiste davvero, ed è una casa coloratissima che si trova proprio a Burano. L’ho usata come fondale scenico. Spero non dispiaccia a nessuno.

Chi no se contenta de l'onesto, perde 'l manego e anca 'l cesto, (chi non si accontenta, del giusto, perde il manico e anche il cesto) è un proverbio veneto riassumibile con il razionalissimo “chi troppo vuole, nulla stringe”.

L’amor no pol star sconto, significa “L’amore non si può coprire”.

Talìa, ‘cca ccosì si vrusciano, è (o dovrebbe essere) crotonese. Significa: “Attenzione, che così si bruciano!”.

Vasannò significa “altrimenti”, “ché sennò”.

In Veneto, Santa Lucia portava i regali ai bambini meritevoli nella notte tra 12 e 13 Dicembre, prima che il Babbo Natale in bianco e rosso s’imponesse su scala mondiale. I bambini scrivevano una letterina e poi lasciavano dolci e latte alla santa, che ne mangiava un po’ e ricopriva di miele il resto. E lasciava i doni accanto al cuscino. Ma se per disgrazia Santa Lucia arrivava e ti trovava alzato, la punizione era terribile: ti avrebbe cavato gli occhi. E credo li avrebbe messi sul piattino, accanto ai suoi. Questa storia me la raccontò la mia amica Sara. E mia nonna, veneziana doc, l’ha confermata. Me lo lasciate passare un «GLOM!»?

Altre note non dovrebbero essercene, qualora aveste dei dubbi e delle perplessità (tipo, “Perché non ti pigli una vacanza?”), fatemelo sapere. Al solito, grazie di essere passat*. Pomodori a destra e carote a sinistra. E buona festa di Santa Lucia!
 
   
 
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