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Autore: aturiel    13/12/2014    0 recensioni
"Stanco si accasciò al suolo e il buio incominciò ad avvolgerlo. Si sentiva soffocare, l’aria cominciò come a pesare e a bloccargli la gola. Si strinse il collo con le mani, il respiro iniziava a mancargli; tutt'un tratto una farfalla dalle ali candide gli penetrò nel petto: il sangue usciva copiosamente, il dolore era insopportabile e, poco prima di perdere i sensi, vide la creatura uscire dalla sua carne e le sue ali, prima bianche, erano rosse di sangue."
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Prima classificata al contest "Tempo di... Tag - Second Edition" indetto sul forum di EFP da Ili91
Partecipa al contest "AU CONTEST - Wherever we are" indetto sul forum di EFP da EmmaStarr
Seconda classificata al contest "Brace yourself : angst is coming" indetto sul forum di EFP da Starhunter
Genere: Angst, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Haruka Nanase, Makoto Tachibana, Nagisa Hazuki
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mille anni, poi altri cento'
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Il giorno seguente, dirigendosi alla prigione con Machise, si sentiva tutt'altro che tranquillo: avrebbe incontrato di nuovo quello Spartano impiccione e, per di più, con l'amico al fianco; sapeva che sarebbe stata una mattinata a dir poco pesante.
Le sue supposizioni si rivelarono veritiere.
All'inizio coltivava ancora la speranza di riuscire a non incrociare Rinidoto, ma si rivelò presto del tutto vana dal momento che, appena iniziò il suo turno, sentì il peloponnesiaco chiamarlo dall'altra stanza; dovette quindi raggiungerlo, ma solo dopo aver avvertito Machise, per evitare inconvenienti.
«Cosa c'è?» chiese con un tono infastidito, appena entrato nel locale.
«Volevo chiederti se il tuo uomo fosse quello lì fuori: la descrizione corrisponde e vedo una certa complicità fra voi...» rispose quindi Rinidoto, con un sogghigno.
«Non sono affari tuoi».
«Dai, come si chiama?»
«Machise».
Forse il tono della sua voce, mentre diceva quel nome, si era involontariamente troppo alzato, e quindi il diretto interessato, ancora nello stanzone principale, lo udì e chiese:
«Aru? Mi stai chiamando?»
Lo spartano, sentendo il nomignolo affettuoso che Machise aveva utilizzato, si convinse ancora di più della sua idea e, ignorando le occhiate truci che Aruse stava indirizzando verso di lui, urlò: «Tu, di là! Vieni un attimo qui, che “Aru” ti vuole parlare».
Machise allora, titubante, si diresse verso la stanza e, quando si trovò davanti un Aruse con un'espressione a dir poco spaventosa inchiodata sul viso, al contrario divertito, del prigioniero, si grattò la testa, indeciso su cosa dire o fare.
«Hai bisogno di me, Aru?»
«Non chiamarmi così, mi dà fastidio» ringhiò il compagno.
«Ma se ti ho sempre chiamato così, fin da quando...»
«La trovo una cosa stupida. E comunque non voglio niente da te, ora» lo interruppe.
A quel punto Rinidoto, che era rimasto a osservare il loro scambio di battute, si intromise dicendo, beffardo: «Ho l'onore di assistere a una litigata fra amanti! Quale gioia».
A quelle parole Machise quasi saltò all'indietro: «Ma tu come sai che..., cioè, cosa stai dicendo, spartano?»
«Allora avevo ragione, “Aru”! Non fare quella faccia, forza» disse lui, afferrando la sua caviglia e strattonandola. L'ateniese perse l'equilibrio e cadde in avanti, andando addosso a Rinidoto.
«Perché non dovrei, stupido spartano. E non chiamarmi così, per gli dei!» sibilò, cercando di tirarsi nuovamente in piedi.
«Perché non è così male, no? Non dovresti avere un'aria così furiosa, ma anzi essere felice di aver presentato il tuo gentile compagno a un amico, no?»
A quelle parole Machise si scurì in volto e sussurrò: «Aruse, cos'è questa storia? Non dovresti familiarizzare con i prigionieri, per di più se spartani: potrebbero utilizzare la tua ingenuità per fuggire e...»
«Non è mio amico» disse ad alta voce, cosicché anche Rinidoto poté sentirlo, e con questo chiuse la discussione, abbandonando la stanza, seguito a ruota da Machise, ancora preoccupato.
«Senti, Aru, dico sul serio: cosa è successo con quello?»
«Niente, assolutamente niente».
«E allora perché sapeva di noi? Non ne abbiamo mai parlato qui, quindi mi sembra...»
«Nulla ho detto, Machise» troncò lui.
Ma l'amico si era accorto del lieve rossore che aveva imporporato le sue guance quando era caduto di fronte al prigioniero. Che avesse davvero fraternizzato col nemico? Che avesse infranto una di quelle regole non scritte che, da sempre, vigevano in guerra? Eppure Aruse non era il genere di uomo che si lasciava abbindolare da qualche parola, senza contare che quello spartano non sembrava in grado di elargire dolci discorsi.
Ad un tratto si ricordò di un avvenimento del loro passato, uno di quei periodi che avevano affrontato insieme: erano poco più che ragazzini, ed entrambi stavano facendo le loro prime esperienze. Un giorno, durante uno dei tanti combattimenti corpo a corpo, il sofronista che li sovraintendeva decise di farli gareggiare fra loro. Non era mai successo prima poiché Aru si stava concentrando di più sull'arte della spada, a lui molto più congeniale della lotta, quindi Machise si era sentito felice di poter finalmente confrontare le sue forze con quelle dell'amico. Ma non appena il combattimento ebbe inizio, Machise capì subito che l'altro sarebbe stato in difficoltà: per quanto veloce, scattante e fluido come l'acqua fosse Aruse, non si poteva opporre alla forza delle sue larghe spalle, alla potenza delle sue mani già grandi e, in generale, alla sua corporatura già decisamente più matura di quella dell'altro.
Non tentò di lasciarlo vincere – lui se ne sarebbe accorto e, certamente, non avrebbe apprezzato -, al contrario ci mise tutto se stesso. Aru si rialzava ogni volta che veniva gettato a terra, e mai arrese nonostante fosse in netto svantaggio, quindi lo scontro ebbe fine solamente dopo che il più forte riuscì a inchiodarlo a terra, intrecciando le gambe tornite con quelle piuttosto gracili dell'amico. Sentiva il suo corpo combaciare perfettamente con il proprio, il suo odore di sudore si infilava nelle sue narici e vedeva quegli occhi trasparenti socchiusi per lo sforzo. Percepiva la tensione che vigeva fra loro, le loro membra così intricate e unite come fosse un abbraccio e tutto questo provocò in lui la prima consapevole ondata di desiderio. Voleva avere quel corpo, voleva veder stravolte le sue emozioni e le sue espressioni facciali, lo voleva, lo bramava. E ovviamente il suo corpo espresse ciò più che esplicitamente con un gonfiore nel basso ventre, e altrettanto ovviamente Aruse se ne accorse. Machise era davvero imbarazzato e, in un certo qual modo, anche impaurito: se lui si fosse allontanato? Se lo avesse disprezzato? Colto da questi timori chiuse gli occhi e sussurrò le sue scuse, ma, non ricevendo risposta, decise di aprire le palpebre: il viso dell'altro era arrossato, gli occhi di una curiosa consistenza liquida, anche più del solito e, soprattutto, un sorriso lieve gli increspava le labbra. Da allora Machise aveva rivisto quegli zigomi colorati solamente prima di fare l'amore, quando era in preda al desiderio.
Possibile che fosse in qualche modo attratto dal prigioniero? Gli sembrava quanto mai impossibile, anche perché quello non aveva nemmeno sfiorato Aruse... o forse sì? In effetti la sera precedente era rientrato piuttosto tardi, pieno dell'odore della notte. Ma no, lui non avrebbe mai fatto qualcosa di simile, e le due cose non potevano – non dovevano – essere correlate.
Machise non era mai stato geloso di Aru, e anche in quel momento l'unico sentimento che sorse nel suo cuore fu solo angoscia e apprensione. Non gli importava se si univa a un altro uomo, ma era preoccupato che lo scelto fosse un nemico, uno di quegli Spartani che facevano strage dei loro compagni da mesi. Forse lui lo stava solamente usando per ottenere la libertà, probabilmente avrebbe tradito la sua fiducia al primo momento opportuno, lasciando dietro di sé un Aruse straziato da un dolore che l'avrebbe reso ancora più vuoto di quanto già non fosse.
Non aveva paura che Aru – il suo Aru – lo abbandonasse, quanto più che lo abbandonasse per poi non trovare la felicità.
Forse sto correndo troppo; in fondo non c'è alcuna prova del suo sentimento per lo spartano. Devo fidarmi di lui e offrirgli la mia mano, sempre e comunque.

 

****

Dopo che Machise se ne fu andato, Aruse decise di entrare nuovamente nella stanza. Chissà perché, ma la sera aveva uno strano effetto su di lui, quasi come se la forza della mano degli dei in quel momento della giornata aumentasse, spingendolo a fare cose che non avrebbe mai compiuto, ad esempio, il mattino successivo. Forse era la luce particolare che la torcia lanciava sui locali della prigione, forse era la stanchezza che sempre si faceva sentire, forse erano i respiri pesanti degli altri prigionieri ormai addormentati, o forse, semplicemente, la sua mente era meno incline a sopportare e contrastare quei desideri che sorgevano nel suo animo, così roventi, così incontrollabili e dolorosi.
Quindi staccò la schiena dal muro e camminò fino a che non raggiunse il luogo dove stava Rinidoto. Lui era accasciato in un angolo, il viso era stanco e illuminato dalla luna, i capelli rossi troppo lunghi, la barba ormai incolta. Eppure era così bello, così dannatamente bello e, allo stesso tempo, pericoloso: sapeva di sangue e di morte, di guerra e fuoco, eppure ne era attratto come la falena dalla luce, come un insetto pronto a morire carbonizzato pur di raggiungere quel puntino luminoso ed esserne avvolto, irrimediabilmente.
Colpito da uno strano ardore, si chinò davanti a lui per osservarne più da vicino i tratti. Rinidoto però si svegliò dal suo torpore e spalancò gli occhi purpurei sul suo viso. Aruse dunque sobbalzò e si ritrasse, cercando con gli occhi una qualsiasi altra distrazione, una scusa che giustificasse la sua presenza lì, ma invano. Rinidoto, forse anche lui mosso dal divino, gli impedì di allontanarsi ancora, afferrò il suo viso con una mano e lo baciò.
Una tempesta di desiderio invase il corpo di Aruse, che subito dopo aver superato l'iniziale stupore aprì la sua bocca per accogliere la lingua calda dell'altro. I denti cozzavano per l'eccessivo fervore, i baci divenivano sempre più profondi, tanto che, agli occhi di un esterno, sembrava che le loro labbra si mangiassero a vicenda, fameliche. L'altra mano dello spartano si allungò ad afferrare la schiena del suo nemico per attrarlo ancora di più a sé tanto da far coincidere i loro bacini. La gamba gli faceva ancora male, eppure il dolore pulsante che ne scaturiva era solo qualcosa di lontano e sordo rispetto alla passione che l'aveva invaso; voleva possederlo, voleva prendere ogni centimetro della sua pelle, voleva ogni gemito, ogni sospiro, ogni spasimo di quella carne. Gli slacciò i calzoni e Aruse fece lo stesso, frenetico; affondò le mani nella sua pelle scoperta e la baciò, la succhiò, la morse; cercò di spostare il più possibile il suo corpo consumato dalla prigionia e dagli interrogatori in modo che quello dell'altro fosse bloccato fra lui e il muro; lo fece voltare di schiena e affondò le dita dentro di lui, per prepararlo e poi, finalmente, entrò. Gli sembrava che le sue membra non aspettassero altro da tutta la vita, tutto si concentrò in quei pochi istanti, quando Aruse si lasciò sfuggire tre urla, quando sparse il proprio seme fra le sue mani, quando la luce della fiaccola si spense a causa di un improvviso soffio di vento, lasciandoli illuminati dalla sola luna.
Aruse, dopo che tutto fu finito, si staccò dal corpo caldo e sudato di quello che era stato il suo nemico e il suo amante e si rivestì, lasciandolo solo nella notte.


 


Note:
Per la scena del combattimento dell'infanzia (pur invertendo parzialmente i ruoli), mi sono ispirata a quello presente nel film Suicide Room, film polacco per la regia di Jan Komasa; qui il video della scena (da 1:38 alla fine)
https://www.youtube.com/watch?v=rYDf07UYBlA

   
 
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