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Autore: Laylath    14/12/2014    1 recensioni
(spin off di Un anno per crescere)
Le loro vite sembravano così tranquille e delineate, i piccoli grandi problemi dell'adolescenza che si accompagnavano al clima tiepido di quella fine d'estate. Rientrando a scuola nessuno pensava che i loro destini si sarebbero intrecciati in maniera indissolubile e che gioie e dolori li avrebbero accompagnati nel difficile percorso della vita.
E dopo i Falman ecco le vicende dei genitori di Kain e di quelli di Heymans.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Heymas Breda, Jean Havoc, Kain Fury, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Un anno per crescere'
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Capitolo XIVL

1895. Dialoghi tra genitori e figli

 

Se c’era un ottimo ricordo che l’infanzia aveva lasciato ad Andrew, era quello di aver avuto dei genitori presenti e premurosi. Per quanto adesso si confrontasse con loro da adulto, non avrebbe mai potuto dimenticare il senso di sicurezza e di accettazione che gli aveva dato lo stare in loro compagnia.
Una delle cose che gli era sempre rimasta impressa era che, a prescindere dall’età, avevano sempre cercato il confronto: le imposizioni, per esempio, erano sempre state accompagnate da una spiegazione e dalla possibilità di dialogo. Certo, lui era il figlio che doveva obbedire, ma era anche una persona la cui opinione viene comunque tenuta in considerazione. E anche le rare volte che era stato punito o sgridato, i suoi genitori avevano sempre ascoltato e valutato le sue motivazioni.
Spinto da questo luminoso esempio dell’infanzia, Andrew si era spesso immaginato che tipo di rapporto avrebbe instaurato con suo figlio. Aveva sempre creduto di riuscire a riproporre l’esempio di suo padre e dunque di trovarsi davanti un bambino attento e obbediente, pronto al confronto e al dialogo.
Di conseguenza vedere Kain che, per l’ennesima volta, teneva ostinatamente lo sguardo a terra lo indisponeva non poco. Riteneva che il contatto visivo fosse fondamentale durante un dialogo, soprattutto se si trattava di qualcosa di serio come in quel momento.
“Signorino, guardami negli occhi quando ti parlo – disse con voce ferma, mettendosi a braccia conserte – se ti ho chiesto che cosa è successo a scuola è buona educazione dare una risposta. Questo mutismo non porta a niente.”
Se suo padre gli avesse detto una cosa simile, Andrew, da piccolo, avrebbe alzato immediatamente lo sguardo, arrossendo per tale mancanza. Ma sembrava che Kain, alla faccia dell’educazione che aveva ricevuto, non avesse nessuna intenzione di smettere di fissare quella precisa tavola del pavimento.
Non era la prima volta che succedeva una cosa simile, tutt’altro. Parlare della scuola era quasi addentrarsi in un terreno minato, con il bambino pronto ad esplodere e fuggire in camera sua da un momento all’altro.
Ed ogni volta, lui restava ad attendere una prova di maturità che proprio non voleva arrivare.
“Benissimo – annuì infine, vedendo che il silenzio si protraeva – allora vai pure in camera tua e restaci fino a quando non riprendi l’uso della parola.”
A quell’ordine Kain obbedì immediatamente, facendo le scale con passo pesante e scomparendo poi nel corridoio del piano superiore. Solo quando sentì la porta chiudersi Andrew si concesse di scuotere il capo con profonda irritazione.
Dove sto sbagliando con mio figlio? Dannazione, dove?
“Tesoro…” Ellie gli fu subito accanto e lo abbracciò con tenerezza.
Ogni volta che sgridava Kain, lei non interveniva, probabilmente per non mettere in discussione la sua autorità del genitore. Tuttavia Andrew sapeva benissimo che nell’arco di dieci minuti sarebbe salita dal bambino e che, in qualche strano modo, sarebbe riuscita ad interagire con lui.
“Ginocchia sporche, pantaloncini strappati, che altro? – commentò con voce stanca – Anche nel secondo quadrimestre di quarta elementare è la stessa storia. Possibile che non riesca ad ottenere un minimo di rispetto?”
Era questo che gli faceva profondamente male: Kain era un ragazzino intelligente, di buon carattere, aveva tutte le carte in regola per vivere una serena vita scolastica. Eppure non riusciva ad abbandonare quell’atteggiamento dimesso che l’aveva accompagnato sin dalla prima elementare. E questo Andrew non lo capiva: non stava chiedendo a suo figlio chissà quali miracoli, semplicemente di tenere lo sguardo alzato e di non aver paura dell’ambiente scolastico. Tutto il resto sarebbe arrivato per normale conseguenza.
Come se non gliel’avessi spiegato ogni benedetta volta.
“Ha i suoi tempi, prima o poi gli passerà.” continuò Ellie con voce sommessa e un sorriso fiducioso.
“Dici che sto sbagliando con lui?”
“Non è questione di sbagliare, amore – lo consolò lei, baciandolo sulla guancia – è che gli dispiace così tanto vederti così.”
“Poteva alzare lo sguardo allora: mi avrebbe fatto decisamente più contento…” disse con amarezza, sentendo che nel rapporto tra lui e suo figlio c’era qualcosa che non andava.
“Andrew…”
“E’ che… oh, lascia stare. Coraggio, tanto ora so che andrai a consolarlo – sospirò, accarezzandole la guancia – fai in modo che mangi qualcosa. Io adesso devo finire di lavorare ad un progetto.”
 
Una volta rimasta sola, Ellie sospirò con rassegnazione.
Ormai era abituata a quelle scene che si ripetevano almeno una volta alla settimana e sapeva benissimo che, con molta probabilità, padre e figlio non si sarebbero parlati sino all’ora di cena. Andrew sarebbe rimasto nel suo studio e Kain nella sua stanza, in un offeso mutismo che non faceva altro che accentuare la loro somiglianza.
Salendo al piano di sopra, la donna mise da parte quei pensieri e si recò nella stanza del figlioletto. Non rimase per nulla sorpresa di trovarlo seduto a terra, circondato da pezzetti elettronici ed intento a montarli assieme con gesti disinvolti ed automatici. Gli si sedette accanto, ma il bambino parve non accorgersene: come sempre sembrava completamente perso in una realtà tutta sua, gli occhi scuri che non esprimevano né rabbia né dolore… solo profonda attenzione verso il lavoro che stava facendo.
Aveva delle bellissime mani, Ellie l’aveva sempre sostenuto: dita snelle e rapide, così precise e delicate che erano perfette per lavorare con quei minuscoli componenti. Con quelle mani sarebbe potuto diventare un eccellente pianista, un chirurgo, un progettista… qualsiasi mestiere richiedesse alta precisione. Erano le stesse di Andrew, sebbene la pelle fosse leggermente più chiara: persino quella lieve tendenza a muovere il mignolo sinistro quando era titubante per qualcosa l’aveva ereditata dal padre. Sicuramente nel medesimo momento, nel suo studio, Andrew stava lavorando al suo progetto e lo muoveva allo stesso modo, ad indicare il suo nervosismo per la precedente sgridata.
Piccolo mio, non sai quanto gli somigli…
Con un sorriso decise che era arrivato il momento di spezzare quella strana trance. Funzionava ogni volta allo stesso modo: lo lasciava sfogare per qualche minuto e poi, con delicatezza, lo riconduceva su questo mondo.
“Ciao, pulcino – mormorò, accarezzandogli i capelli neri – allora, stai montando qualcosa di interessante?”
“No – scosse il capo lui, senza però guardarla – cose a caso.”
“Posso vedere quelle ginocchia? – chiese con gentilezza – Giusto così per essere sicura che sia solo terriccio e non ci siano graffi al di sotto.”
“Non credo –  smise la posizione a gambe incrociate e si girò verso di lei, fissandola con desolati occhi scuri – però… però mi dispiace di aver rovinato i pantaloncini…”
“Oh, tesoro, vieni qui, coraggio…” lo abbracciò lei, sapendo bene che dopo crisi simili aveva sempre bisogno di sentirsi protetto e amato. Lo sentì accoccolarsi al suo petto con forza, quasi a voler cacciare via i ricordi della pessima mattinata appena vissuta a scuola.
Nemmeno la quarta elementare procedeva in maniera positiva, anzi era comparso sicuramente qualche nuovo problema di cui Kain si rifiutava di parlare. Lo capiva dal suo sguardo ogni volta che tornava da scuola e gli era capitato qualcosa: c’era una nuova paura ad accompagnare la solita rassegnazione, un nuovo grosso scoglio con il quale il piccolo si stava confrontando senza però ottenere buoni risultati.
“Ti ha spinto, vero?” mormorò, accarezzando i capelli corvini e ottenendo un’occhiata turbata in cambio.
Sì, era andata decisamente così e doveva esser stata una spinta parecchio forte per buttarlo a terra e provocare un simile danno.
“Vieni, andiamo a pulire le ginocchia.”
“Papà è così arrabbiato…” riuscì a mormorare con le lacrime agli occhi.
“Ma no, tesoro, va tutto bene – lo prese per mano, incitandolo ad alzarsi in piedi – non è arrabbiato con te, stai tranquillo.”
 
E difatti Andrew era arrabbiato con se stesso perché ogni volta si rendeva conto di non essere quel fulgido esempio di genitore che si era ripromesso di diventare in gioventù. E soprattutto che si era promesso di diventare da quando aveva conosciuto Gregor Breda che di genitore aveva ben poco.
Ma sembrava che ogni suo tentativo andasse male.
Da quando Kain aveva iniziato ad andare a scuola sembrava che il loro rapporto andasse a rotoli, con silenzi che si protraevano per ore ed ore, senza che lui riuscisse ad oltrepassarli. Ed, in un certo modo, era geloso della maggior confidenza che Ellie aveva con Kain, per quanto non fosse per niente convinto che davanti al capriccio del bambino si dovesse reagire con tanta accondiscendenza.
Eppure Kain spesso gli somigliava così tanto. Perché non si comportava nella stessa maniera che aveva lui da piccolo? Aveva cercato di imitare i suoi genitori in tutto e per tutto, ma sembrava che il suo testardo figlio proprio non gli volesse venire incontro.
Possibile che fosse così differente da suo padre?
“Beh, che se ne stia pure chiuso nel suo mutismo – sussurrò con rabbia, finendo di scrivere alcune misure sul fondo del foglio – a quasi dieci anni mi aspetterei una maturità maggiore da parte sua.”
Tuttavia, istintivamente, il suo orecchio rimase testo verso la porta e fu in parte sollevato quando sentì la voce di Ellie che scendeva le scale e quella più timida di Kain che le rispondeva.
In fondo quello che importava davvero era che la crisi fosse superata anche quella volta.
 
Henry non aveva versato una lacrima per tutta la durata della medicazione, per quanto il dolore fosse stato davvero forte. In questo Laura si riconosceva tantissimo: la smorfia era la stessa di quando lei cercava di fare la coraggiosa davanti al fratello maggiore… solo che molto spesso non era riuscita a trattenere le lacrime così bene come faceva suo figlio.
“Tesoro, devi fare attenzione con queste prove di coraggio con i tuoi amici – lo rimproverò, rimettendosi dritta e iniziando a riporre cotone e disinfettante – adesso che senso aveva camminare in equilibrio nello steccato?”
“Senso? – il bambino si alzò dalla sedia e la squadrò con aria stranita – sono prove per vedere chi ha più fegato, non devono avere un senso vero e proprio. E poi non fa niente: mi sono fatto questi tagli, ma ho dimostrato a tutti che sono il migliore.”
“Ah, non darle retta, Hen – disse Gregor, seduto accanto a lui – è una donna, non può capire certe cose. Sono fiero di te, ragazzo mio: a dieci anni hai più fegato di uno di quindici.”
“Dici sul serio, papà? – Henry sorrise con fierezza, quel taglio sopra la tempia che lo rendeva in qualche modo estremamente affascinante e che si accostava perfettamente all’aria maliziosa che era solito tenere – La prossima volta voglio sfidarli io quelli di prima media, voglio vedere come si comportano.”
“Sì, ma non esagerare – lo rimproverò Laura – niente di estremo, siamo intesi?”
“Laura, smettila.”
“Voglio solo che mio figlio non si faccia troppo male, perché è così difficile da cap…”
“Ho detto di smetterla!”
Il tono di voce usato da Gregor fu tale che sia Laura che Henry lo fissarono con aria interdetta.
Era da qualche giorno che l’uomo non andava al locale a bere e questa astinenza faceva sentire i suoi effetti: scatti emotivi, arrabbiature improvvise e quanto altro. Sembrava di avere una bomba ad orologeria pronta ad esplodere da un momento all’altro.
La donna fu tentata di prendere Henry per le spalle e trascinarlo via da quella stanza, ma non osava fare mosse azzardate. Gregor la fissava con aria profondamente irritata e sembrava pronto a scattare in piedi ed aggredirla fisicamente: non era mai successo, ad onor del vero, ma tante volte era sembrato arrivare al limite della violenza.
“Mamma – mormorò Henry, interrompendo quel silenzio con voce flebile ma sicura – sono cose tra noi maschi, non puoi capirle. Dai, vai a mettere via quella roba: grazie tante per la medicazione… e fidati che starò sempre attento.”
Laura si dovette trattenere dallo scuotere il capo e rifiutare quell’ordine, ma lo sguardo urgente di Henry la obbligò a fare quanto le era stato detto. Era chiaro che il bambino stava cercando di spezzare quel momento così critico e bisognava assecondarlo: era l’unica persona che potesse in parte calmare Gregor.
“Hai più sale in zucca di tutti – disse infatti l’uomo, arruffandogli i capelli rossi con aria compiaciuta – si vede che sei proprio mio figlio.”
Nel frattempo Laura aveva guadagnato la porta, ma rimase appoggiata contro la parete del corridoio fino a quando non sentì di nuovo i due parlare con relativa tranquillità. Quando sentì Gregor ridacchiare si convinse che l’emergenza era davvero passata e si convinse ad andare a riporre i medicinali.
Proprio mentre tornava al piano di sotto, vide la porta aprirsi ed Heymans rientrare.
“Ciao, caro – lo salutò – come è andato il pranzo a casa degli Havoc?”
“Benone, mamma – sorrise lui, posando la tracolla – ci siamo divertiti parecchio.”
“E ci sono nuove risse delle quali devo essere messa al corrente?”
“No, ma che dici? – sorrise con malizia lui, mostrando le braccia e le gambe illese – Tutto tranquillo come sempre. Del resto gli indipendenti vengono lasciati in pace, no?”
“Già, gli indipendenti – Laura gli prese il viso tra le mani e lo baciò in fronte – tanto poi sono sempre le mamme a rimettere assieme i cocci, no? E’ così che dice la signora Havoc.”
“Uh, ma sai di disinfettante…” si accorse il ragazzo.
“Ah sì. Beh, tuo fratello si è lanciato in una nuova prova di coraggio ed i risultati si sono visti tutti.”
“Stupido – scosse il capo Heymans con aria seria – vuole farsi notare da qualche banda già in quarta elementare. Adesso vado a parlargli e…”
“Sssh, no – lo bloccò lei – è con tuo padre… e lo sai com’è in questi giorni. Meglio non stuzzicarlo.”
A quella rivelazione Heymans sgranò lievemente gli occhi, ed un briciolo di paura fece la sua comparsa. Ormai erano tutti condizionati pesantemente dalla presenza di Gregor e bastava solo fare accenno a lui per abbassare il tono di voce e guardarsi attorno con timore.
Quasi per tacito accordo andarono in cucina e come la porta fu chiusa alle loro spalle si sentirono decisamente meglio. Tuttavia nessuno aveva voglia di parlare di quell’argomento: quasi che quell’ambiente dovesse esser dedicato a dialoghi più distensivi, Heymans si costrinse a sorridere.
“Lo sai che oggi il padre di Jean ci ha fatto vedere una nuova mossa per fare lo sgambetto all’avversario?”
“Oh, santo cielo…” sospirò Laura con un sorriso rassegnato, sedendosi al tavolo.
“La vuoi vedere? E’ veramente forte!”
“Non pretenderai che faccia da cavia, spero.”
“Ma no! Quando mai… guarda, è semplice. Supponi che ci sia uno davanti a me…”
“Ti premetto già che non ci capirò niente…”
Però ascoltò con interesse quanto il figlio aveva da raccontarle. A quasi tredici anni aveva ormai trovato un vero e proprio equilibrio nella sua giovane personalità. Aveva rinunciato ad essere pienamente maturo e stare con Jean e la sua famiglia lo aiutava a sentirsi più normale del previsto. Di conseguenza quando era a casa non sentiva più l’assenza di un dialogo con Gregor: aveva scoperto che gli piaceva coinvolgere la madre in quei discorsi da maschi. Era come renderla partecipe del mondo esterno che ormai vedeva pochissime volte durante la settimana.
“Va bene, adesso prova a mettere le mani a pugno, così – la incitò il ragazzo – una davanti all’altra!”
“Avevamo detto di no – rise lei, imitando quella posizione – va bene così?”
“Sei perfetta! Pronta? Adesso schiva!”
Certo, non era proprio la tipologia di dialogo che si era immaginata di avere con il proprio figlio, ma era uno scambio così sincero che riusciva a farle dimenticare in parte la presenza di Gregor al piano di sopra.
L’unico, forte, rimpianto era che Henry ne fosse in qualche modo prigioniero.
 
Era ormai notte fonda quando Andrew venne svegliato da qualcosa che, con destrezza, saliva sul letto matrimoniale e gattonava fino a mettersi nello stretto spazio tra lui ed Ellie.
“Che c’è?” sospirò, mentre alla lieve luce della luna che filtrava dalla finestra, vedeva Kain che si sistemava con la schiena contro il petto di Ellie, venendo istintivamente avvolto dalle braccia materne.
“Niente.”
Era la prima parola che il bambino gli rivolgeva dal litigio di quella mattina e sembrava che non ci fosse nessun risentimento nella sua voce. E, a sua volta, Andrew si accorse che non ce l’aveva minimamente con lui, come avrebbe potuto? Era Kain, era il suo piccolo, prodigioso, bambino.
“Ehi – mormorò, allungando la mano per accarezzargli la chioma arruffata – sbaglio o stamane avevi anche un compito di matematica? Come è andata?”
“Benissimo – sorrise lui con timidezza – sapevo tutto quanto, conto di prendere dieci anche questa volta.”
Dannazione, se solo avessi la medesima sicurezza anche per il tuo relazionarti con il mondo. Sei intelligente e speciale, Kain, perché non te ne rendi conto?
“Papà?”
“Sì?”
“Sei ancora arrabbiato con me?”
“No, non sono arrabbiato, tranquillo – gli prese la manina e sentì che ricambiava la stretta – è che mi dispiace quando non vuoi guardarmi negli occhi.”
“Scusami…” Kain fece per avvicinarsi, ma intrappolato com’era nella presa di Ellie gli fu impossibile. E così fu Andrew ad accostarsi maggiormente a lui, baciandolo sulla fronte.
“Papà, mi parli?”
“E di cosa?”
“Di quello che vuoi… voglio sentire la tua voce. E’ brutto quando non mi parli per tante ore.”
Davanti a quella richiesta Andrew si sciolse del tutto.
Kain aveva sempre la capacità di spiazzarlo, di farlo sentire il migliore e al contempo il peggior genitore del mondo. Sentire il proprio figlio che ha bisogno di un simile contatto fisico e uditivo era indice che, ovviamente, era importantissimo nella scala di rapporti che Kain si era costruito col tempo. Ma allo stesso tempo, a fare da contraltare a questa meravigliosa prova d’amore, c’era il suo non aver capito ancora il modo migliore di approcciarsi a lui in determinate occasioni… che poi erano quelle in cui c’era maggior bisogno di lui. Era come se fossero destinati a chiarirsi sempre con diverse ore di differita.
“Vuoi che ti racconti di East City?” gli propose, sapendo bene che era uno degli argomenti preferiti.
“Sì! Dell’Università, ti prego…”
Con soddisfazione protese la testa contro di lui, sfregandosi contro la sua spalla, inducendolo come sempre ad avvolgere in un abbraccio sia lui che Ellie. Ed iniziò a raccontare, rendendosi conto che per certe cose Kain assomigliava davvero alla madre: per tutti gli anni del loro fidanzamento Ellie non aveva fatto altro che chiedergli di raccontare decine e decine di volte di East City e dell’Università.
Una volta le aveva chiesto come mai non si fosse ancora stancata di quelle storie.
“E come potrei? Mi piace così tanto la tua voce?”
E cosa aveva detto Kain?
“Voglio sentire la tua voce.”
Forse non c’era molto dialogo tra lui e suo figlio, ma di certo non si rifiutava di ascoltarlo.
 
Kain era un bambino ottimista per natura, in questo aveva preso dalla madre.
Proprio come Ellie, da ragazza, si svegliava ogni giorno sentendosi più vicina al traguardo di far innamorare Andrew di lei, nonostante tutti gli ostacoli che avrebbe incontrato, lui scendeva a fare colazione fiducioso che quella giornata sarebbe andata meglio delle altre.
La sua piccola mente scattante aveva fatto molti ragionamenti ed era arrivata alla conclusione che non dovevano essere quelle cinque ore a rovinare le restanti diciannove della giornata. Piano piano, col passare del tempo, sarebbe arrivato a patti con gli altri ragazzi della scuola… o comunque avrebbe terminato la scuola stessa e dunque il problema si sarebbe risolto in ogni caso.
E questo ottimismo raggiungeva gli apici le mattine dopo che si riappacificava con suo padre.
In qualche modo dormire vicino a lui, sentire la sua voce calma e amorevole, assieme, ovviamente, all’abbraccio materno, riportava il mondo in carreggiata ed una nuova ondata di fiducia si impossessava di lui. Quelle mattine era persino impaziente di andare a scuola, certo che dopo quel chiarimento con suo padre le cose non sarebbero potute che andare bene.
E, puntualmente, si scontrava con la dura realtà… che da un due mesi aveva due nuovi volti: quelli di due studenti di terza media.
“Ehilà, nano! – quella voce gli fece rimbalzare il cuore in gola, mentre tutto il suo ottimismo e la sua fiducia svanivano come neve al sole – Come andiamo oggi?”
“Oh – mormorò a voce bassissima, appena udibile, mentre si faceva piccolo piccolo, accentuando ancora di più la differenza fisica con quel gigante biondo – ecco… io…”
“La prossima volta non spingerlo così forte come ieri – commentò con un sorriso scaltro, l’altro ragazzo dai capelli rossi – è così mingherlino che cade subito. Non ci siamo, piccoletto, anche tu dovresti mettere su più muscoli, non credi?”
Kain non rispose, non osò nemmeno alzare gli occhi, per quando il secondo personaggio non gli avesse mai fatto niente di male. In cuor suo continuava a chiedersi che cosa avesse mai fatto per meritare le attenzioni di quei due… eppure lui, due mesi prima, stava solo cercando in cortile un quaderno che i suoi compagni gli avevano nascosto per dispetto. Non voleva affatto incappare in quei due… eppure erano bastati solo cinque secondi prima che quello biondo, più alto e muscoloso, lo afferrasse per la maglietta e gli facesse un sorriso cattivo.
E da allora era iniziato il calvario… almeno un paio di volte alla settimana quei due ragazzi così grandi venivano a tormentarlo: prendendogli i quaderni, spintonandolo, tirandogli i capelli. Ma che cosa ci trovavano di così divertente nel bistrattarlo? Non li conosceva nemmeno.
“Va bene, niente spinte! – annuì il biondo – Allora mi devo inventare qualcosa di nuovo… attento, nano! Ti casca la merenda!” e con una velocissima mossa della mano gli diede un colpo al braccio facendogli cadere a terra il fagotto dove teneva il panino che sua madre gli aveva preparato.
“Oh no!” esclamò, chinandosi per raccoglierlo e rimanendo rannicchiato a terra nella speranza che lo lasciassero in pace una buona volta.
“Forza, in piedi! Credi che abbia finito?”
“Buona idea, perché non la finisci?” una nuova voce e Kain lanciò una rapida occhiata di lato per vedere un paio di scarpe di tela bianche che si accostavano. Alzando ulteriormente lo sguardo vide che era una ragazza… a colpirlo maggiormente fu lo sguardo marziale che rivolse ai due compagni più grandi. Non aveva la minima paura di loro, nonostante fossero molto più grandi fisicamente.
“E tu chi saresti?”
“Se proprio ti interessa mi chiamo Riza Hawkeye e frequento la seconda media. Ma quello che ti deve interessare è che dovresti smetterla di dare fastidio a questo povero bambino. Ti osservo sai, Jean Havoc, sono settimane che lo tormenti! E tu Heymans Breda, non credi che gli potresti dire di smetterla?”
“Oh, sai anche il mio nome, complimenti! – alla risposta Kain spostò lo sguardo sul suo aguzzino che, a quanto sembrava, si chiamava Jean – Senti, signorina Riza Hawkeye, torna a giocare con le bambole e lasciami in pace. Sto solo facendo due risate con il nano!”
A sentirsi chiamato in causa, Kain impazzì: credendo di venir bersagliato una seconda volta, si affrettò ad alzarsi in piedi e a scappare per raggiungere la sicurezza della classe vuota. Non sarebbe mai più uscito per l’intervallo, era la cosa più sicura da fare.
Affrontarlo all’ingresso va bene… e anche all’uscita. Ma se posso evitare tanto meglio.
Jean Havoc ed Heymans Breda, e così i suoi aguzzini avevano finalmente un nome. Ed era ovvio che il rosso fosse imparentato con Henry, come aveva fatto a non capirlo? In fondo si spiegava tutta questa smania nei suoi confronti.
Sul serio, perché se la devono prendere tanto con me?
Ripensò alla sveglia così serena che aveva avuto quella mattina, stretto nell’abbraccio dei suoi genitori. Il ricordo della voce di suo padre gli venne in soccorso. No, per quella giornata non si sarebbe ripresentato a casa con il broncio, sarebbe stato forte.
Aprendo il fagotto della merenda e cercando di ricomporre il panino un po’ rovinato dalla caduta, ripensò a quella ragazza così coraggiosa che l’aveva aiutato.
Riza, eh? Forse dopo dovrei andare a ringraziarla…
Però poi si rese conto che i suoi rapporti interpersonali erano sempre un disastro. E se rovinava tutto anche questa volta? Magari Riza non aveva nessuna intenzione di parlare con lui e l’avrebbe indisposta.
No, forse era meglio continuare a pensare a lei come l’aveva conosciuta quella mattina… così marziale e coraggiosa… almeno in minima parte preoccupata per lui. E questo bastava per volerle già bene: doveva essere una persona meravigliosa, certamente.
Un giorno vorrei davvero fare qualcosa di speciale per lei…
Anche se magari non l’avrebbe più aiutato. Anche se era stata solo una coincidenza… ma non poteva esserlo, ne era certo. Del resto lei aveva detto qualcosa come lo tormenti da settimane, quindi se ne era accorta, non era nato tutto per caso.
Riza Hawkeye era decisamente degna di avere un posto speciale nel suo cuore.
  
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