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Autore: Leana    14/12/2014    4 recensioni
Dopo essersi fatto credere morto per due anni, Sherlock ritorna al 22B di Baker Street, ma John non è più lì ad aspettarlo.
[Angst allo stato puro, Johnlock]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Note iniziali: non voglio anticiparvi niente, ma solo avvisarvi che c'è un po' di angst. Non mi definisco una brava scrittrice, non so se alla fine riuscirò veramente a raggiungere l'obiettivo che mi ero proposta quando ho iniziato a scrivere questa OS, ma sappiate che ci ho messo tutta me stessa. Sono consapevole che probabilmente Sherlock sia OOC, ho cercato di fare del mio meglio, ma certe reazioni sono impossibili da prevedere in determinate situazioni. Mi darete voi un giudizio a riguardo alla fine. A un certo punto le cose potrebbero sembrarvi senza senso, ma abbiate fede e continuate a leggere.

E' consigliato l'ascolto di Redemption dei Muse (https://www.youtube.com/watch?v=WbLDFiQM-l8) che mi ha ispirato questa fanfic. Brace yourself, è un po' lunghina, ma spero che ne valga la pena. Buona lettura!


 

 

Redemption

 

 

Let's start over again
Why can't we start it over again
Just let us start it over again
And we'll be good
This time we'll get it, get it right
It's our last chance to forgive ourselves
 
(Ricominciamo da capo
perché non possiamo ricominciare da capo?
Diamoci la possibilità di ricominciare da capo
e saremo buoni
questa volta faremo le cose giuste
è la nostra ultima possibilità di perdonare noi stessi)

 

[Exogenesis Symphony part III, Redemption - Muse]

 

 

 

 

Erano passati due anni, ma Baker Street era sempre la stessa. I pochi clienti di Speedy's occupavano i tavolini sulla strada e sembravano non fare caso a lui.

Sherlock si avvicinò alla porta d'ingresso del 221B e rimase per un attimo a fissare i numeri dorati luccicare sotto il sole di mezzogiorno. Si era già domandato se John vivesse ancora lì, solo o con un nuovo coinquilino, ma non aveva abbastanza elementi per poterlo capire in anticipo. Suo fratello Mycroft l'aveva tenuto all'oscuro di tutto, ma adesso era arrivato il momento in cui si sarebbe chiarito ogni dubbio.

In realtà, aveva pensato a lungo anche alla signora Hudson, indubbiamente una delle persone che avevano sofferto di più quando se n'era andato. La signora Hudson era sempre stata come una seconda madre da quando si era trasferito in quell'appartamento molti anni prima, e sapere di averla fata soffrire così tanto non lo rendeva fiero di sé. L'aveva spesso trattata male, la maggior parte delle volte in modo inconsapevole, ma una cosa era farle notare dei particolari che potevano vedere tutti, un'altra era farsi credere morto.

D'altronde, la scelta che gli aveva messo di fronte Moriarty era solo una: ucciditi e salva le persone che ami - John e la signora Hudson in cima alla lista - oppure guardali morire. Era facile capire perché Sherlock si fosse buttato dal tetto del St.Bart's.

Ovviamente, ogni mossa era stata valutata nei minimi dettagli e un calcolatore come lui non si sarebbe mai fatto prendere alla sprovvista così ingenuamente. Per il successo del piano, però, era necessario che tutti lo credessero morto o sarebbero rimasti in pericolo.

In quegli ultimi due anni, aveva lavorato duramente con Mycroft per smantellare la rete criminale di Moriarty e solo ora che era quasi completamente neutralizzata, aveva deciso di fare ritorno a Londra.

Era prevedibile come avrebbe reagito la signora Hudson quando l'avrebbe rivisto, ma per la prima volta in vita sua, non sapeva cosa aspettarsi da John.

Aveva calcolato che c'era una buona percentuale di probabilità che in un primo momento non la prendesse bene, ma dopo un po' di tempo di riflessione sarebbe venuto a patti con il fatto che il suo coinquilino era vivo e vegeto. D'altronde, c'era anche la possibilità, seppure minima, che John decidesse di non voler più avere a che fare con lui.

Sherlock non poteva escludere nessuna delle due opzioni, ma contava sul fatto di saper trovare il modo giusto di spiegare a John le sue ragioni.

Possedendo ancora le chiavi, Sherlock aprì delicatamente la porta ed entrò nell'atrio.

Dall'appartamento della signora Hudson giungeva un invitante profumo di verdure e dai rumori che si udivano, era chiaro che stesse preparando il pranzo.

Sherlock si avvicinò lentamente alla porta e attese ancora un paio di secondi prima di aprila.

Una veloce occhiata all'ambiente lo informò che in quei due anni nulla era cambiato. 

La signora Hudson era ferma al centro della stanza con una padella in mano, pronta a colpire l'intruso. Passarono pochi interminabili momenti, poi la padella cadde con un tonfo secco sul pavimento e la donna iniziò ad urlare. 

A Sherlock sfuggì un sorriso.
 


 

“Sherlock caro” ripeté per l'ennesima volta la signora Hudson abbracciandolo di nuovo.

Sherlock non era mai stato abituato a un contatto fisico così prolungato, ma non si lamentò. In fondo, era il minimo che poteva fare.

“Non ci posso credere. Eri nei miei pensieri ogni giorno. Io non...” balbettò la padrona di casa tra le lacrime.

Il pranzo era ormai dimenticato sui fornelli. Sherlock aveva fatto accomodare la signora Hudson alla tavola già apparecchiata, rimanendo in piedi accanto a lei.

“Sono tornato” fu l'unica cosa che le disse, stringendole delicatamente una spalla.

Forse il peggio era passato, ma non voleva rischiare che la signora Hudson avesse un altro crollo. Vista l'età, un infarto poteva essere dietro l'angolo.

“Da quando ve ne siete andati sono rimasta così sola. Non è lo stesso senza di voi” continuò lei asciugandosi con un fazzoletto sgualcito le lacrime che continuavano a cadere.

Quindi John non abitava più al 221B, fu la prima cosa che pensò.

“Adesso sono qui e non ho nessuna intenzione di andarmene” chiarì Sherlock. “L'ho dovuto fare per voi o Moriarty vi avrebbe uccisi. Spero che lei riesca a capire almeno questo”

La signora Hudson abbassò lo sguardo sulle sue mani strette intorno al fazzoletto. Sherlock intuì che stava ragionando su qualcosa e decise di non interromperla. Persino le lacrime adesso erano meno frequenti.

“Si, io posso capire” mormorò lei infine. “Ma... il povero John... non credo che lui...” continuò scoppiando di nuovo a piangere.

Sherlock non riuscì a capire per intero cosa stesse tentando di dirgli, così le strinse un'ultima volta la spalla e si avvicinò alla credenza. Prese il bollitore dal ripiano in cui lo teneva sempre la signora Hudson – certe cose non cambiavano mai – e dopo averlo riempito d'acqua, l'appoggiò sul fuoco.

Un the era esattamente quello che serviva a entrambi.

Quando il bollitore iniziò a fischiare, riempì la teiera con l'acqua calda e appoggiò due tazze sul tavolo.

Versò un po' di the nella tazza della signora Hudson, aggiungendo poi due cucchiaini di zucchero.

Lei lo ringraziò con un sorriso tirato. Quando Sherlock versò il suo the, aggiunse solo un po' di latte e iniziò a berlo a piccoli sorsi.

“Hai già dato alla signorina Molly la bella notizia?” gli domandò la signora Hudson quando ormai entrambi avevano quasi finito.

“In realtà, lei era l'unica a sapere tutto” ammise.

“Sherlock!” lo rimproverò lei.

Sentendosi sempre più in colpa, Sherlock strinse le labbra, cercando di scusarsi con quello che sapeva essere un misero sorriso.

“In questi due anni, io e mio fratello abbiamo lavorato per smantellare la rete criminale di Moriarty. Se sono tornato ora è solo perché ero certo che voi non correvate più nessun rischio. Sono dovuto andare via da Londra e... anche per me è stato difficile” 

Sherlock fece una pausa, aggravato dal peso di quella confessione. Non era abituato ad esprimere ad alta voce i suoi sentimenti, ma se c'era una cosa che aveva capito negli ultimi due anni, era che al mondo c'erano delle persone che gli volevano bene, che glielo dimostravano ogni giorno, eppure lui non era mai stato in grado di vederlo. 

Il vuoto creato dall'assenza nella sua vita di queste persone stava per essere ricolmato, ma era qualcosa che non poteva più dimenticare.

La signora Hudson sospirò, guardandolo con aria sconsolata.

“Se solo il povero John potesse vederti...” mormorò tra sé e sé.

“Posso salire di sopra?” le domandò invece Sherlock.

Improvvisamente, aveva sentito il bisogno di tornare nel suo vecchio appartamento, di controllare che tutto fosse come lo ricordava.

“Certo, caro. Ho lasciato tutto com'era. Sai... non me la sentivo di toccare le vostre cose” rispose la signora Hudson guidandolo fino alle scale.

Da lì in poi, Sherlock procedette da solo.

Il penultimo gradino scricchiolava sotto le sue scarpe proprio come un tempo. Un altro sorriso gli sfuggì dalle labbra.

Il salotto era buio. Dal filo di luce che entrava dalla soglia, Sherlock vide le pesanti tende tirate in modo da coprire completamente le due finestre. L'odore di chiuso e umidità era decisamente fastidioso.

Sherlock si avvicinò alle finestre e dopo aver tirato le tende, le aprì entrambe.

Ora che poteva vedere meglio, si rese conto che quella stanza era più ordinata di quanto non fosse mai stata. Non c'era libri impilati sul pavimento e la scrivania era quasi completamente vuota, eccezion fatta per qualche ritaglio di giornale e dei quaderni.

Aprì un cassetto e si rese conto che le cose che di solito erano sparpagliate per la stanza erano lì dentro, oppure ordinate sugli scaffali della libreria.

Sulla mensola del camino ancora svettava il suo teschio.

Andò anche in cucina, dove constatò che i suoi vecchi piatti erano ancora nella credenza. Il frigorifero era spento e vuoto. 

Ma tutto sommato, pensò, quella era ancora la sua casa.
 


 

La signora Hudson gli diede subito il permesso di potersi di nuovo trasferire lì. Gli disse che quella era sempre stato il suo posto, suo e di John, e che non l'aveva messa di nuovo in affitto perché non sarebbe stato gusto.

Sherlock fu ben lieto di sentirglielo dire.

Non ci volle molto a sistemare le sue cose, soprattutto grazie alla signora Hudson che fece la maggior parte del lavoro, ripulendo le stanze dalla polvere e riempiendo di nuovo il frigo.

Ogni volta che Sherlock si ritrovava sul pianerottolo, però, si fermava un attimo a osservare le scale che portavano al piano di sopra, alla camera di John.

Sapeva bene che probabilmente anche quella stanza era ridotta come il resto dell'appartamento, buia e piena di polvere, ma per una ragione che non sapeva spiegarsi, ancora non aveva trovato il coraggio di salire a controllare.

 

Durante i primi giorni di nuovo al 221B, Sherlock pensò molto a John.

Doveva ammettere che il metodo usato con la signora Hudson non era dei migliori, ma poteva essere divertente vedere la reazione del suo vecchio coinquilino se gli fosse apparso davanti come un fantasma.

Annoiandosi terribilmente, completamente solo in quella casa, Sherlock decise di iniziare a fare delle ricerche per rintracciarlo. Sì, sarebbe stato più semplice chiedere alla signora Hudson, ma lui non sceglieva mai la strada più facile.

Per prima cosa, controllò il blog di John. Aveva scritto solo tre post in quei due anni. Cominciò dall'ultimo in ordine cronologico.

 

Mi dispiace davvero tanto, ma continuare così non è più possibile.

Io non sono Sherlock, non posso spegnere i sentimenti come se avessero un interruttore perché loro saranno sempre lì, dietro l'angolo, pronti a colpire quando meno te lo aspetti.

Dopo tutto quello che ho visto in Afghanistan, non posso sopportare anche questo. Mi dispiace.

 

Quelle poche righe non erano per niente rassicuranti. Sherlock decise, per una volta, di non rifletterci troppo. Temeva fin dove l'avrebbero portato i suoi pensieri.

Andò al post precedente, scritto un mese prima di quello che aveva appena letto.

 

Sherlock mi manca terribilmente. Lo so, sono ripetitivo, ma è l'unica cosa a cui riesco a pensare. Non mi ero reso conto di quanto fosse indispensabile la sua presenza nella mia vita fino a quando non se n'è andato.

 

Sherlock alzò lo sguardo dallo schermo del computer.

Curioso, anche lui aveva avuto un pensiero simile. Poi continuò a leggere.

 

Gli devo molto. Quando la vita non mi stava dando niente, lui mi ha dato tutto.

Cavolo, sto solo cercando di raccontare quello che sento. In fondo, è per questo motivo che è nato il mio blog. Qua dentro ci sono tutti i ricordi dell'ultimo anno, tutto quello che io e Sherlock abbiamo fatto insieme. Non voglio tornare a scrivere 'oggi non è successo niente' come facevo all'inizio, ma credo di aver accettato il fatto che questo sarà il mio destino. Sherlock non c'è più e con lui se n'è andata ogni mia speranza.

Dio, darei qualsiasi cosa per riavere indietro quello psicopatico, chiassoso e imprevedibile uomo.

 

Leggendo quelle righe, Sherlock si sentì orgoglioso di aver fatto così tanto nella vita di John. La prima volta che l'aveva visto, gli era bastato un attimo per capire quanto travagliato fosse quell'ex soldato.

Ma dopo soli pochi giorni insieme era riuscito a risolvere il suo problema alla gamba. Quando John aveva smesso di zoppicare, si era sentito orgoglioso come in quel momento.

Poi passò all'ultimo post.

 

La scorsa notte mi sono trovato sulla scala antincendio. Ho trovato il tuo posacenere. La tua scorta segreta. L'ho fumata tutta. Ho finito una bottiglia o tre di rum o whiskey, non ricordo. Ma non è questo il punto. Ero sulla scala antincendio, Sherlock. E ho guardato i cassonetti giù nella strada. Ho pensato quanto potesse essere semplice spingersi giù dal bordo. E' stato così anche per te? Era così che ti appariva il mondo in quegli ultimi momenti? Come sembra invitante il terreno da quassù. Ora so che sei morto. Se non lo sei, lo sarai. Quando tornerai, ti ammazzo. Quando... se. Se. Ascoltami bene. Farei meglio ad essere morto, brutto stronzo.

Non importa. Sto andando avanti adesso. Non posso più dormire qua con il tuo fantasma. Il tuo stupido teschio. La tua poltrona con ancora la tua sagoma. Il tuo shampoo e il tuo sapone sulle piastrelle del nostro bagno. Posso ancora sentirti, tu e il tuo odore, e che dio mi aiuti, posso ancora vederti. 

E non posso restare qua. Non posso non posso o che qualcuno mi aiuti salterò con te.

Sto andando avanti. Devo. Perché se c'è ancora una possibilità a questo mondo che tu sia ancora vivo, io devo rimanere vivo. Così potrò ucciderti.

Torna a casa Sherlock. Io non sarò più qua, ma non importa.

Torna a casa.

 

Adesso, Sherlock sentiva solo un bisogno impellente di parlare con John. Leggere quei pensieri, quelle accuse implicite, gli stavano facendo capire che per il suo ex coinquilino non era stato facile superare il lutto. L'aveva presa più male di quanto non avesse previsto e sentiva il bisogno di rimediare il prima possibile. L'ultimo post risaliva a troppo tempo prima. Era chiaro perché John avesse deciso di andarsene, ma non c'era nulla che gli potesse suggerire dove si fosse trasferito.

Forse, ma solo per quella volta, poteva percorrere la strada più facile.
 


 

“Signora Hudson!” la chiamò irrompendo nel suo appartamento al piano di sotto.

“Sherlock, caro” rispose lei appoggiandosi una mano sul petto. “Cosa succede?”

“Dovrebbe darmi molto gentilmente l'indirizzo di John. Devo parlargli con urgenza”

La signora Hudson aggrottò le sopracciglia, guardandolo confusa. 

“John chi?” domandò.

A quel punto, Sherlock assunse la stessa espressione confusa della padrona di casa.

“Watson, ovviamente. Conosce un altro John, per caso?” chiarì.

“Sherlock, ma... non capisco...” mormorò lei. “Nessuno ti ha detto del povero John?”

“No. Cosa dovevano dirmi?” domandò Sherlock spazientito.

“Io...” iniziò la signora Hudson lasciando la frase in sospeso. Sembrava confusa e rammaricata allo stesso tempo.

“Forse è il caso che tu ti segga un momento”

“No, parli in fretta. Ho da fare” insistette Sherlock con il tono acido che usava ogni volta con qualcuno che gli faceva perdere tempo.

Ma Sherlock già sapeva.

Una cosa del genere non poteva certo sfuggire a una mente come la sua.

L'aveva capito quando aveva letto il blog di John, e quando aveva aperto la porta del suo appartamento e aveva trovato tutto in ordine. 

Quando l'aveva trovato vuoto.

Aveva solo deciso di chiudere gli occhi e fingere, per una volta, di non capire. 

La signora Hudson si sedete sulla sedia che aveva scostato per far accomodare Sherlock.

Appoggiò la fronte su una mano e sospirando, disse ad alta voce quello che Sherlock non aveva nemmeno osato pensare.

“John... è morto. Si è suicidato otto mesi dopo la tua scomparsa”

 



Sherlock non si ricordò di essere uscito dall'appartamento della signora Hudson e di essere entrato nella stanza di John. Sta di fatto, però, che adesso si trovava lì, avvolto dal buio, respirando solo il forte odore di chiuso e polvere.

Non poteva nemmeno pensare al fatto che quella stanza sarebbe rimasta così per sempre, che nessuno sarebbe tornato a dormirci. 

John... il suo migliore amico, non sarebbe tornato. 

Non ci sarebbe più stata una persona in quella casa a prendersi cura di lui, a controllare che mangiasse e a insistere che andasse a dormire. 

Quando aveva deciso di trovare un coinquilino era perché gli serviva qualcuno che facesse tutto quello.

La signora Hudson poteva aiutarlo con le faccende domestiche, e Mycroft farlo sorvegliare notte e giorno, ma quando John era entrato nella sua vita e in quella casa, tutti avevano concordato che fosse esattamente ciò di cui  Sherlock aveva bisogno.

Era stato solo un caso, una coincidenza, se con il passare del tempo John era diventato qualcosa di più.

Sherlock si sedette sul letto, stropicciando le coperte fino a un momento prima in ordine. Non era mai salito spesso in quella stanza quando John era lì. Di solito, preferiva passare la maggior parte del tempo nella propria camera da letto o in cucina a fare qualche esperimento.

Quante volte John si era lamentato dei suoi esperimenti...

 

Non mi ero reso conto di quanto fosse indispensabile la sua presenza nella mia vita fino a quando non se n'è andato.

 

Il vuoto che aveva provato Sherlock non era nulla in confronto a quello che aveva dovuto provare John, e a quello che stava sentendo in quel momento.

Se pensava di aver sofferto abbastanza per la mancanza delle persone che amava, ancora non aveva visto niente. 

 

Io non sono Sherlock, non posso spegnere i sentimenti come se avessero un interruttore.

 

No, John. Nemmeno lui era capace di tanto. Ma in quel momento desiderava ardentemente essere in grado di farlo, di spegnere quel dolore in mezzo al petto, di non sentire più l'angoscia e il senso di colpa che lo attanagliava senza dargli respiro. In tutta la sua vita, Sherlock non si era mai sentito così colpevole.

 

 

Durante i due giorni successivi, Sherlock non lavorò. Di per sé, il fatto che se ne stesse chiuso in casa, perlopiù a fissare il soffitto del salotto per un tempo così prolungato, bastava per mettere in allarme chiunque. Lui che doveva sempre trovare qualcosa con cui tenersi occupato, era diventato apatico. 

La signora Hudson gli preparò i pasti e si occupò di tenere in ordine la casa, ma saliva al piano di sopra solo il minimo necessario. L'unica cosa che si sentiva di fare era lasciargli un po' di tempo per assimilare la notizia. 

Sherlock non si lasciò mai andare a crolli emotivi, non davanti a lei almeno. Semplicemente, evitava il suo sguardo e sembrava perennemente assorto nei suoi pensieri.

Ma in fondo, era un uomo più che intelligente ed era sicura che non ci sarebbe voluto molto prima che tornasse alla sua routine. Fu proprio per questo che quando Sherlock le rivolse la parola per primo, quasi una settimana dopo, non si stupì così tanto. Era salita per portargli i biscotti che aveva preparato quella mattina – cucinare era l'unico metodo che aveva trovato per scaricare lo stress – quando Sherlock parlò per primo.

“Come l'ha fatto?” fu la sua domanda.

Non c'era bisogno che venisse specificato altro. La signora Hudson capì comunque.

Si prese un po' di tempo prima di rispondere. Nonostante fosse passato del tempo, per lei quello era ancora un argomento delicato, ma sapeva che Sherlock aveva il diritto di sapere ogni cosa.

“Con un colpo di pistola alla testa” rispose infine con voce strozzata. “Mary l'ha trovato quando è tornata dal lavoro”

“Mary?” domandò Sherlock uscendo per la prima volta dall'apatia in cui era caduto.

“La sua compagna. Stavano insieme solo da due mesi e già erano andati a vivere insieme. Mary è davvero una brava persona, ma con John non formava una così bella coppia come lo eravate voi” ci tenne a specificare la signora Hudson.

Compagna...

Quindi John aveva provato ad andare avanti con la sua vita, ma con pessimi risultati.

Adesso, però, Sherlock era curioso di sapere di più su questa Mary.

“Come si sono incontrati? Com'è lei?” domandò ad alta voce a sé stesso.

“Oh, bhé... lei lavorava nel-”

“Sssh!” la interruppe Sherlock con un segno della mano.

Non era dalla signora Hudson che voleva sapere quelle cose.

“Dove la posso trovare?”

“Credo che stia ancora nell'appartamento che condivideva con il povero John. Giù di sotto ho l'indirizzo e il numero di telefono, nel caso ti facesse piacere parlare con lei” disse la signora Hudson vedendo una via d'uscita per l'animo di Sherlock.

I primi tempi, Mary aveva fatto miracoli con il dottor Watson. 

Forse avrebbe potuto fare qualcosa anche per Sherlock.
 


 

Sherlock si presentò la sera stessa all'appartamento che le aveva indicato la signora Hudson.

Bussò alla porta dando due colpi secchi con le nocche sul legno verniciato, poi attese.

Riuscì a udire distintamente dei passi attutiti, probabilmente da una moquette, e la serratura scattare.

“Le serve qualcosa?” domandò la voce di una donna da dietro la porta socchiusa.

Era visibile una catenella che impediva di aprire del tutto la porta, segno che non si fidava degli sconosciuti.

Dal tono che aveva usato, Sherlock dedusse che non era per niente contenta di essere stata disturbata a quell'ora.

“Sto cercando Mary Morstan, cioè lei” rispose, deciso a perdere il minor tempo possibile alle presentazioni.

“Mi dispiace, ma non la conosco. Buona serata”

“Sono Sherlock Holmes” si affrettò a specificare prima che la donna gli richiudesse la porta in faccia.

Passarono alcuni secondi, poi Mary chiuse violentemente la porta. Sherlock udì un rumore metallico, poi la porta fu di nuovo aperta.

“Scusa?!” esclamò lei scordandosi delle buone maniere.

Normalmente, Sherlock avrebbe fatto qualche osservazione sul fatto che la capacità di comprensione delle persone intorno a lui ormai erano ai livelli minimi storici, ma per quella volta decise di tenere per sé i suoi pensieri.

Si limitò fare un gesto della mano, indicandosi.

Rimasero per diversi secondi a guardarsi a vicenda e Sherlock non poté impedirsi di notare certi particolari. Bastava uno sguardo per capire il motivo per cui John aveva voluto allacciare un rapporto con quella donna.

“Io-” iniziò Sherlock, venendo interrotto subito dopo.

“Non voglio sapere perché sei qua. Non voglio sapere come sia possibile che tu sia ancora su questa terra, in realtà. Spero solo che tu sappia cosa hai fatto a John e che viva il resto della tua, spero lunga, vita con il rimorso che ti divora fino al tuo ultimo respiro”

Mary aveva parlato con tono calmo, per questo Sherlock non si aspettava parole tanto dure. Eppure, sapeva benissimo di meritarle.

“Volevo... chiederti di John” disse abbassando lo sguardo sulle sue mani.

Le lacrime gli offuscarono la vista, ma impedì che cadessero. Voleva parlare a tutti i costi con Mary e aveva capito che puntare sul lato sensibile della donna era l'unica possibilità per poter ottenere quello che voleva.

La sentì sospirare, poi parlò.

“Vuoi sederti un attimo?” gli chiese questa volta più dolcemente.

Sherlock annuì, lasciandosi poi guidare all'interno dell'appartamento. Con discrezione, ne studiò attentamente ogni dettaglio. Capì subito che la poltrona che era nel salotto dove Mary lo fece accomodare, era di John.

Si sedettero entrambi su un divano a tre posti che non lasciava la possibilità di aumentare troppo le distanze.

“Io...l'idea che John sia morto e che tu sia qui...” iniziò Mary fermandosi subito dopo.

“Voglio solo che tu sappia che se ho fatto tutto questo è per un motivo valido. La vita di John e di tutte le persone a cui voglio bene era in pericolo e per quanto assurdo possa suonare, fingermi morto era l'unica possibilità che avevo per tenerli al sicuro. Ovviamente, mi sono sbagliato” ammise Sherlock fissando per tutto il tempo il tappeto persiano sotto ai suoi piedi.

Era dura ammetterlo ad alta voce, ma riteneva che Mary dovesse saperlo.

“Quindi adesso cosa intendi fare?” gli chiese Mary alzando la voce. “Avrai anche avuto la ragione più valida del mondo, ma resta il fatto che John non c'è più ed è tutta colpa tua!”

Sherlock aprì la bocca per rispondere, ma Mary lo fermò prima che potesse parlare.

“No, adesso parlo io. Hai una minima idea di cosa significhi vedere la persona a cui si tiene di più al mondo, la persona che ami, per terra, ricoperta di sangue senza poter avere nemmeno la possibilità di sperare che sia viva?! Ho ancora davanti agli occhi quell'immagine e non penso che la scorderò mai”

Sherlock corrugò la fronte, soffermandosi su quelle parole. Finché Mary non aveva specificato che si trattava della sua esperienza, era convinto che stesse parlando di John, di quando l'aveva visto buttarsi dal tetto del St.Bart's.

John sapeva cosa si provava a vedere una cosa del genere, lui no. Sherlock poteva solo soffrire e farsi rodere dal senso di colpa, ma il senso di impotenza doveva essere lo stesso che avevano provato John e Mary.

La donna stava continuando ad accusarlo sempre più pesantemente, ma Sherlock ascoltava solo a tratti. 

Non aveva chiesto lui che John si suicidasse. Voleva solo salvargli la vita. 

“Non l'ho chiesto io!” ripeté questa volta ad alta voce, interrompendola. “Non volevo che John morisse, ho cercato di impedirlo a tutti i costi. Non sopporto l'idea che non ci sia più per colpa mia! Lo odio per quello che ha fatto! Lo odio!” disse senza scomporsi.

Mary spalancò gli occhi, non aspettandosi una reazione del genere.

Lentamente, si alzò e guardandolo negli occhi gli disse quello che nessuno aveva mai avuto il coraggio di dirgli.

“No, tu non lo odi. Come lo so? Quando John parlava di te e non ci è voluto molto a capire quale sentimento vi legava così tanto. Solo adesso che ti vedo, mi rendo conto di quanto stupidi siete stati. Non bisognerebbe mai mettere da parte qualcosa come l'amore per l'orgoglio o chissà quale altro motivo avevate per non poterlo ammettere. Me la sto prendendo con te, ma in realtà, provo solo tanta pena nei tuoi confronti. Io avrò perso una persona stupenda a cui ho voluto bene, ma credo che tu abbia perso molto di più”
 


 

Come gli aveva detto la signora Hudson, Mary era una brava persona, ora ne era certo. 

Alla luce di quanto si erano detti – dio, nemmeno voleva ripensare a come gli aveva sbattuto in faccia il fatto di aver perso John – ora aveva finalmente capito quali erano stati i veri motivi che li avevano spinti a stare insieme.

Mary si era presa cura di John come pochi avrebbero fatto e nonostante per lei non dovesse essere stato semplice aiutare una persona ferita così profondamente nell'animo, John stesso doveva in qualche modo ricambiare quel nuovo sentimento verso la donna, o non si sarebbe fatto aiutare così facilmente.

Era notte fonda, ma Sherlock non riusciva a calmare quei pensieri che gli impedivano di dormire. Pensava a John, poi a Mary, al suo lavoro, poi di nuovo a John, e di nuovo a quello che gli aveva detto Mary. 

Ma proprio mentre si rendeva conto che in quella casa non era rimasto nulla di materiale del suo vecchio coinquilino, il sonno prese il sopravvento e senza rendersene conto, Sherlock finalmente si addormentò.
 



"Sherlock, sono qua accanto a te”

“Sherlock, mi senti? Sono John. John Watson, il tuo coinquilino”

“Sto bene, non preoccuparti. Sono qua e sto bene”

“Sherlock, non mi puoi lasciare. Non...”

La voce di John andava e veniva a tratti. Sherlock riusciva a capire solo qualche frase senza senso. Purtroppo, non riusciva a vederlo. L'unica cosa che sentiva era la sua voce.

“Devi resistere. Lo so che fa male, ma se resisti ti prometto che ne varrà la pena”

“Sono qua, sto bene”
 


 

Quando si svegliò, Sherlock aveva il respiro affannoso e il corpo ricoperto di brividi. 

Era certo che fino a pochi secondi prima avesse sentito distintamente la voce di John come se fosse stato lì accanto a lui. Un altro brivido gli percorse la schiena, poi si rese conto della sciocchezza che aveva pensato.

John non poteva essere lì. John era morto. 

Non era accanto a lui e dubitava che stesse bene. 

L'ennesima fitta gli trafisse il petto. 

Non poteva credere che un dolore psicologico potesse ripercuotersi sul corpo in quel modo, eppure lo sentiva partire dal petto per poi espandersi lungo le braccia e al resto del corpo.

Faceva male, male sul serio.

Si sdraiò supino e aspettò che il dolore passasse, cercando di non agitarsi troppo. Ci vollero diversi minuti, ma finalmente il suo respirò si calmò e il dolore lentamente svanì.

Non era la prima volta che sperimentava una cosa del genere. Odiava quando il suo corpo prendeva il sopravvento. 

Ma per sentire la voce di John, ne era davvero valsa la pena.
 


 

Non fu l'ultima volta che quello strano sogno si presentò.

Dopo qualche settimana, Sherlock andava a dormire con la consapevolezza che ci fosse un'alta probabilità di poter sentire la voce John. Non sapeva per quanto tempo ancora il suo cervello gli avrebbe giocato quello scherzo, quindi si godeva ogni singolo istante sperando che non fosse l'ultimo.

Al risveglio, il dolore al petto era quasi sempre presente.

Non sapeva come sbarazzarsene, ma dopo un po' ci aveva fatto l'abitudine.

John gli diceva spesso di resistere, che ne sarebbe valsa la pena.

Forse il dolore era il prezzo da pagare per poterlo continuare a sentire.

Talvolta, gli sembrava di udire la sua voce anche durante il giorno. Non era un suono netto come nei suoi sogni, eppure era lì.

Che stesse diventando pazzo? Che il desidero di Mary si fosse avverato? Anche John aveva parlato di una cosa del genere nel suo blog.

Ma un certo punto, non gli importò più.
 



Passarono altre tre settimane e Sherlock prese la brutta abitudine di rimanere tutto il giorno a letto.

La signora Hudson iniziò presto a preoccuparsi. Era sempre stata abituata ai suoi repentini cambi d'umore, ma quella volta aveva paura che Sherlock non migliorasse più. 

Che avesse toccato il fondo e non sarebbe più risalito.

All'inizio aveva provato a convincerlo ad alzarsi e fare almeno una passeggiata nel parco per prendere un po' d'aria, ma Sherlock si era limitato a rimanere impassibile a quello che lo circondava.

Poi, un giorno, la signora Hudson aveva tirato le tende e spalancato la finestra, lasciando che l'aria fresca di novembre lo scrollasse da quell'apatia.

Se pensava che la situazione fosse già critica, da quel momento peggiorò ulteriormente. 

Sherlock iniziò a chiudersi nella sua stanza, facendola entrare raramente. La signora Hudson non sapeva se stesse mangiando, ma a giudicare dallo stato del frigo e della cucina, probabilmente non era così. Bussava quotidianamente alla porta della sua stanza, chiedendogli di poter entrare, ma non giungeva mai risposta.

E anche quel giorno, come tutti quelli precedenti, la padrona di casa era salita al piano di sopra, aveva bussato delicatamente alla porta e aveva fatto la stessa richiesta. Si aspettava solo il silenzio, ma per la prima volta sentì Sherlock parlare.

Era un borbottio indistinto, che apparentemente non aveva alcun senso. La signora Hudson bussò nuovamente e questa volta riuscì a capire la risposta di Sherlock.

“Tu sì che mi capisci, John”

A quel punto, la signora Hudson era davvero spaventata. Nemmeno John aveva reagito così alla finta morte di Sherlock. Non sapeva cosa fare, cosa dirgli. Fino a quel momento aveva solo peggiorato la situazione, forse la sua presenza era solo d'intralcio.

Ma doveva pur far qualcosa.
 



A Sherlock non importava più della signora Hudson. Che bussasse anche tutto il giorno se la faceva sentire meglio. 

Lui aveva John.

Gli piaceva rimanere a letto, sveglio o addormentato che fosse, a sentire la sua voce.

A un certo punto, aveva anche iniziato a rispondergli. Lo faceva sembrare più reale.

Quello che gli diceva John, però, continuava a rimanere senza senso. Più volte lo aveva assicurato che stesse bene e che fosse accanto a lui per poi aggiungere qualcosa di nuovo.

Ad esempio, quel giorno l'aveva sentito dire: “E' terribilmente noioso qua, quindi ho pensato che potrebbe interessarti se ti leggessi il giornale di oggi”

Sherlock si era limitato a rispondere: “Tu sì che mi capisci, John”

Quello che intendeva dire Sherlock era che tutto quello di cui aveva bisogno era la sua voce, e John gliela stava offrendo. Si girò sul fianco destro e con attenzione ascoltò ogni singola parola.

 



Ormai non era più conscio dello scorrere del tempo.

Ogni tanto si alzava giusto per andare in bagno, ma aveva perso il conto dei giorni – o forse settimane? - che aveva trascorso nella sua stanza. Non gli importava più nemmeno quello. Si sentiva sempre più stanco e alzarsi per mangiare era solo uno spreco di energie.

Capitava, seppur di rado, che la voce di John sparisse. Sherlock aspettava pazientemente, ma quando sentiva di non farcela più, iniziava a chiamarlo ad alta voce e prima o dopo, John tornava sempre.

A quel punto, si calmava e lo ascoltava blaterare di cose inutili e senza senso, ma non poteva certo lamentarsi. Non l'avrebbe mai fatto.

Di tanto in tanto, il dolore al petto con cui ormai aveva imparato a convivere, diventava più forte, fino a togliergli il respiro. John era sempre lì con lui e in quei casi sopportare quelle fitte sembrava meno difficile. Eppure, aveva l'impressione che il dolore peggiorasse sempre di più.

Un trauma psicologico non può fare così male, si era ritrovato a pensare più di una volta. Il dolore che sentiva era più simile a una pallottola piantata nel petto. La perdita di una persona poteva davvero fare così male?

Probabilmente sì.

Sta di fatto, però, che un giorno quel dolore divenne insostenibile. 

Sherlock provò a girarsi in ogni posizione nel suo letto matrimoniale, ma la fitta diventava sempre più dolorosa.

Non sentiva da un po' la voce di John, così provò a chiamarlo.

I minuti scorrevano inesorabili, ma non giungeva nessuna risposta. 

Sentiva di non potercela fare da solo. Quella sarebbe stata la sua fine se John non fosse arrivato in suo aiuto.

“John, dove sei?” lo chiamò disperatamente. “John!”

Senza preavviso, sentì qualcuno bussare alla porta. Troppo preso dal dolore al petto, non si era reso conto che qualcuno era entrato nel suo appartamento, probabilmente la signora Hudosn.

Ma nemmeno gli importava. 

Dov'era John?!

Sentì il panico stringergli la gola in una morsa, e con la fitta al petto che diventava sempre più acuta, il suo campo visivo iniziò a sfocarsi.

Non riusciva più a vedere distintamente cosa avesse intorno a sé, ma nonostante ciò, continuò a chiamare John. 

Non poteva stare senza di lui, ne aveva bisogno come l'aria. Lui... sì, perché negarlo ancora, amava John con tutto sé stesso. Avrebbe potuto sopportare la morte di chiunque, ma non la sua. 

Lacrime di disperazione, di rassegnazione e di pentimento per non essersi accorto prima di quel sentimento, gli rigarono le guance. Era inutile ammettere e accettare quel sentimento, ormai era tardi. Rendeva solo il dolore più insopportabile di quanto non lo fosse già.

“John, ti prego...” trovò la forza di mormorare.

E poi lo sentì.

Era una stretta decisa intorno alla sua mano destra. Voltò la testa, e dopo chissà quanto tempo, lo vide. Era John, senza dubbio. Il resto della stanza era offuscata, come se una luce troppo forte gli impedisse di aprire completamente gli occhi, ma John era ben nitido davanti a lui.

Ricambiò la stretta. Questa volta non l'avrebbe lasciato andare.

“Tranquillo” gli disse John con un sorriso. “Tra poco sarà tutto finito. Rilassati e non sentirai più male”

Sherlock gli credette. 

Chiuse gli occhi nonostante una voce nella sua testa si opponesse a perdere il contatto visivo con John, e senza mollare la presa sulla sua mano, lasciò che l'oscurità lo ingoiasse.
 



C'era un rumore da qualche parte accanto a lui.

Si ripeteva ogni pochi secondi e aveva sempre la stessa tonalità. Rimase ad ascoltarlo per un po', ma diventava sempre più fastidioso.

Provò a muovere la testa e si rese conto di avere gli occhi chiusi. Non voleva ancora aprirli per il momento. Mosse solo le dita dei piedi e delle mani, rendendosi conto che il dolore al petto era scomparso. Temeva che muovendosi ulteriormente si ripresentasse, quindi rimase immobile dove si trovava.

Affidandosi solo all'udito, ascoltò oltre quel rumore ripetitivo e udì un fruscio di sottofondo.

Poi qualcuno sospirò.

A quanto sembrava, non era solo. Sollevò lentamente le palpebre, ma la luce gli causò una fitta alla testa, così decise di richiuderle.

“Sherlock?” lo chiamò la persona che era accanto a lui.

Era la voce di una donna e nonostante non sapesse dire chi fosse, era certo di conoscerla. 

Perché il suo cervello lavorava così lentamente?

Provò a parlare, ma qualcosa che aveva in gola glielo impediva.

“Chiamo l'infermiera” gli disse la donna.

Contò 28 secondi, poi sentì distintamente qualcuno che si avvicinava di nuovo a lui.

“Signor Holmes?” lo chiamò un'altra voce femminile.

Sherlock rispose muovendo leggermente la testa.

“Finalmente si è svegliato” continuò lei. “Se non se la sente di aprire gli occhi, li tenga chiusi. Le somministrerò un tranquillante così può riposare ancora un po', ne ha bisogno”

Sherlock voleva risponderle che non era stanco, quindi non c'era nessun motivo perché dovesse riposare.

Aveva qualcosa di più importante da fare.... qualcosa...

Fece giusto in tempo a capire che la prima voce che aveva sentito apparteneva alla signora Hudson, ma prima che potesse dire o fare qualcosa, la stanchezza si impossessò del suo corpo e in pochi secondi tornò a dormire.
 


 

Quando si risvegliò, il rumore fastidioso c'era ancora, ma questa volta riuscì a capire cosa fosse.

A giudicare dai fili che sentiva sul petto e lungo le braccia, doveva essere collegato a qualche macchinario che controllava i suoi livelli vitali. Il bip che continuava a ripetersi lo informò che il suo cuore batteva al ritmo giusto.

Nell'aria sentiva l'odore di disinfettante e non gli ci volle molto a capire che si trovava in un ospedale.

Come ci era arrivato?

Non riusciva a ricordare nulla. Per quanto si sforzasse, i pensieri continuavano a sfuggirgli come acqua tra le dita. Sospirò rumorosamente, frustrato. 

“Sherlock? Sei sveglio?” domandò una voce preoccupata poco lontano da lui.

Era la voce di John.

Con ogni singolo muscolo che pesava come un macigno, Sherlock non riuscì a sorridere come avrebbe voluto.

Non avrebbe mai sperato di poterlo ancora sentire, eppure eccolo lì. Forte e chiaro come se fosse reale.

A quel punto, doveva vederlo. 

Se avesse creduto in Dio, avrebbe pregato con tutto sé stesso che fosse davvero accanto a lui.

Sperando che il suo desidero si potesse comunque avverare, si sforzò di aprire gli occhi.

La luce lo accecò, ma si costrinse a tenerli aperti finché non si fosse abituato.

Dovettero passare diversi secondi prima che riuscisse a distinguere qualcosa della stanza in cui si trovava.

Alla sua destra vedeva una porta, mentre sulla sinistra c'era una grossa finestra che faceva filtrare fin troppa luce.

E poi lo vide.

John era seduto su una sedia di plastica accanto al suo letto. Era lì, lo vedeva perfettamente.

“Grazie a Dio stai bene. Se fossi morto, era la volta buona che ti avrei ucciso con le mie mani” gli disse.

Sherlock non capì il senso dell'ultima frase e nemmeno si sforzò di farlo. John accanto a lui era la miglior sensazione del mondo.

Voleva rispondergli, dirgli qualsiasi cosa, ma dovette fare qualche tentativo prima di riuscirci.

“John...” fu l'unica cosa che riuscì a mormorare.

“Va tutto bene, sono qua” lo rassicurò lui stringendogli la mano.

Sherlock poteva sentire il calore avvolgergli le dita. Non lo stava immaginando, era certo che fosse reale.

“Sei... vivo?” domandò infine.

“Lo sono sempre stato” rispose John sorridendo.

“Sei qui”

“Sherlock, non è da te fare commenti del genere. Il coma deve averti rallentato il cervello” ironizzò John con una risata.

“Cosa vuoi dire?”

“Non ti ricordi nulla?”

“Cosa dovrei ricordarmi?” domandò Sherlock portandosi lentamente una mano al petto dove sentiva ancora un leggero dolore.

“Ti hanno sparato nell'ufficio di Magnussen. Sei stato in coma per giorni e c'è mancato poco che non morissi” gli spiegò John serio. “Mi hai fatto perdere dieci anni di vita per lo spavento”

Magnussen....

Coma...

Ti hanno sparato.

Non appena pensò alle parole di John, il dolore al petto tornò a farsi sentire. Strofinò le dita sul camice che indossava, accorgendosi di avere una grossa benda al di sotto.

“Non toccare” lo ammonì John allontanandogli gentilmente la mano. “Se ti fa male, posso chiamare il medico per farti dare degli altri antidolorifici”

“No” si affrettò a dire Sherlock.

Non voleva perderlo di vista nemmeno per un momento.

Allungò un mano nella sua direzione e senza dire niente, John gliela strinse.

“Io...” iniziò Sherlock senza nemmeno sapere cosa dire di preciso.

Sì stupì lui stesso nel desiderare di baciarlo. Raramente lasciava avvicinare suo fratello, figuriamoci un estraneo. 

Ma John era ben altro. Non era un membro della famiglia, un amico – lui non aveva amici – o un estraneo. John era... John. Non poteva classificarlo in nessun altro modo.

Sapeva di potersi fidare di lui, sapeva di poter lasciare trasparire ogni emozione sul suo volto nonostante fosse abituato a nasconderle con gli altri. Con lui poteva essere tutto ciò che si era negato di essere durante tutta la sua vita. Com'era possibile che non ci fosse arrivato prima? 

Ripensò a quello che aveva provato quando la signora Hudson gli aveva detto che John era morto, che si era suicidato a causa sua. Il dolore al petto, la voce che continuava a sentire... erano solo dei piccoli stimoli che gli arrivavano mentre dormiva.

Per colpa di tutti gli antidolorifici e calmanti che gli avevano dato, il suo cervello stava realizzando solo in quel momento che tutto quello che aveva passato era solo un semplice sogno avuto durante il coma. Figurarsi che nemmeno credeva che si potesse sognare in una condizione simile... ma John era vivo, vivo sul serio. 

Non c'era più bisogno di sentirsi in colpa o possessivo nei suoi confronti, ma non ne poteva fare a meno. 

E se davvero John si fosse ucciso quando si era finto morto? 

Il suo sogno era stato un seguito di dolore, immagini sfocate e suoni senza senso, ma nella vita reale, come avrebbe fatto senza di lui?

Era l'ennesimo sentimento insolito per lui, ma sentiva il bisogno di far sapere a John quello che stava pensando, di renderlo partecipe di quello che provava. 

Ma come descriverlo a parole?

Non era mai stato abituato a farlo e non sapeva come iniziare.

“John io... sono contento che tu sia qua”

John parve confuso per un momento, ma poi aumentò la stretta sulla sua mano.

“Anch'io lo sono, credimi”

I loro sguardi si incrociarono e in quel momento Sherlock capì che potevano ricominciare da capo. Ma questa volta avrebbe fatto le cose giuste perché sarebbe stata la loro ultima possibilità di perdonare loro stessi.

Aveva fatto degli errori, ma quella sarebbe stata la sua redenzione.
 



Sherlock e John tornarono una settimana dopo al 221B di Baker Street. 

Non appena Sherlock si fu completamente ripreso, entrambi tornarono alla loro routine tra lavoro, ospedale e inseguimenti sui tetti di Londra.

Ma qualcosa era cambiato.

Il fatto che avessero scoperto che Mary era un'assassina agevolò solo la loro vicinanza. John decise di lasciarla poco tempo dopo, e con sollievo di Sherlock, non sembrava pentito di quella decisione.

Da allora, iniziarono, se possibile, a passare ancora più tempo insieme di prima. 

Sherlock non riusciva mai a trovare le parole giuste per dire a John come si sentiva nonostante le provasse e riprovasse nella sua testa.

E quest'ultimo rimaneva sempre in silenzio, aspettando che il suo coinquilino si decidesse ad aprire bocca. Sapeva cosa voleva dirgli, poteva leggerglielo negli occhi. 

Da quando Sherlock si era svegliato dal coma era diverso. 

Non si sarebbe mai scordato quei giorni al suo capezzale, rassicurandolo ogni volta che pronunciava il suo nome. 

Si era chiesto spesso cosa avesse sognato Sherlock e perché lo chiamasse così spesso, ma non voleva chiederglielo nella speranza che fosse lui a parlargliene per primo.

Era certo che un giorno l'avrebbe fatto, e allora tutto quello che li aveva divisi non sarebbe più contato. 

Fortunatamente, John non dovette aspettare molto.

Ma questa è un'altra storia.

 

 


 

 

Note finali:

Siete ancora vivi? Spero di sì.

Il prompt l'ho letto per caso su tumblr, ma il lieto fine è dovuto solo ai miei amatissimi Muse (e alla mia migliore amica che so già non avrebbe mai apprezzato qualcosa di diverso).

Spero si sia capito che tutta la prima parte della ff è un 'sogno' che fa Sherlock mentre è in coma. Ho invece tralasciato volutamente il fatto che Mary fosse incinta nella 3x3.

So che ci saranno un sacco di errori e di difetti, non fatevi problemi a farmeli notare cosicché possa correggerli.

Per qualsiasi chiarimento, critica e giudizio lasciatemi un commento!

 

   
 
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