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Autore: LoveShanimal    15/12/2014    4 recensioni
Ora che la rivolta è finita, qual è il ruolo che devono assumere Katniss e Peeta? Perché loro, tra tutti, sono sopravvissuti?
Un epilogo un po' più lungo a Mockingjay, incentrato su Katniss e Peeta.
Genere: Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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In un mondo in cui io non fossi esistita, in cui il nome di Prim non fosse stato pescato da quella maledetta boccia alla mietitura, quell'unico singolo nome in mezzo a centinaia di doppioni - tra cui parecchi miei - adesso ci staremmo avvicinando agli ottantacinquesimi Hunger games.
Probabilmente, io starei festeggiando perché finalmente il pericolo era scampato sia per me, sia per Prim; sarebbe stato doloroso vedere persone del mio distretto - ragazzi della mia scuola, volti di piccoli uomini e piccole donne che incrociavo da una vita - dover marciare verso la morte, in abiti sontuosi e sfarzo, ripresi dalle telecamere di Capitol City e usati come carne da macello, sacrificati per il divertimento di pochi e per punizione degli altri; ma quel dolore sarebbe stato sopportabile, avrei visto quei volti spegnersi uno ad uno, ringraziandoli per essersi sacrificati e aver lasciato vivere Prim, la mia piccola, dolce Prim.
Starei cacciando, con Gale al mio fianco, con il mio amico Gale, perché sarebbe potuto essere solo quello.
Non avrei conosciuto mai l'amore, se quel nome non fosse uscito fuori da quella boccia. Non avrei mai avuto occasione di imparare ad amare, perché sarei continuata ad essere la persona testarda, solitaria, tanto razionale da lasciare indietro qualsiasi sentimento, se non la rabbia. Negli anni successivi mi resi conto di essermi lasciata alle spalle parecchi sentimenti, ero sprofondata in una profonda apatia per tutti quei sentimenti positivi, l'amore, l'affetto, la gratitudine, non sapevo più come provarli, ero stata ferita dalla morte di mio padre, ero stata ferita da mia madre e dalla sua discesa nell'oblio, quando era stata sul punto di trascinare me e mia sorella con lei, ero stata ferita troppo presto da una realtà troppo cruda, e non mi ero mai ripresa.
Fin dai miei primi Hunger Games, e forse anche da prima, avevo provato un qualche sentimento per Peeta.
All'inizio era sicuramente gratitudine, ma si era subito trasformato in altro.
Ricordo perfettamente il sentimento di ammirazione nei suoi confronti quando eravamo sul tetto, alla vigilia dei giochi. Mi aveva detto "Io non voglio che mi cambino. Che mi trasformino in quello che non sono. Non voglio essere solo un'altra pedina del loro gioco.Vorrei solo trovare un modo per dimostrargli che non sono una loro proprietà. Se proprio devo morire, voglio rimanere me stesso." e lo avevo invidiato per questo, per avere la possibilità di fare una scelta, e avere la coscienza, il coraggio di scegliere quella giusta.
Se non avessi trovato una persona così pura, così fondamentalmente buona e corretta, non avrei mai potuto imparare ad amare.
Perché Peeta mi ha insegnato che quell'amore  che avevo messo da parte perché mi aveva fatto soffrire, poteva darmi ancora qualcosa, poteva farmi felice. 
Mi ha insegnato di nuovo a vedere il lato positivo delle cose, non solo quello negativo.
Mi ha insegnato che esiste qualcosa per cui lottare, al mondo.
Perché quando mi sono offerta come tributo agli Hunger Games, pensavo che il mio unico scopo nella vita fosse proteggere Prim, non avevo altro, era stato naturale farlo.
Al contrario, Peeta aveva una scelta. Aveva una famiglia, degli amici, aveva un'aspettativa di vita sicuramente migliore della mia.
E in entrambi gli Hunger Games, aveva scelto di proteggere me, di preservare la mia insignificante vita a discapito di tutto quello che si era costruito negli anni.
L'amore per Peeta è cresciuto lentamente, ma mi rendo conto ora che è un amore nato fin da subito. Fin dall'annuncio di Seneca Crane, quando mi aveva spinto la speranza di poterlo salvare, di poter uscire da quegli Hunger Games con lui al mio fianco.
Se me ne fossi accorta allora, avrei risparmiato parecchia sofferenza sia a lui che a Gale.
Ma per la vecchia Katniss, la ragazzina cresciuta troppo in fretta piena di risentimento, sarebbe stato impossibile.
Qualche volta mi capita di vedere ancora Gale, per strada, quando viene al distretto 12. Lo vedo da lontano, per le strade, lui è più muscoloso, più possente, è sempre in divisa, una divisa piena di medaglie, e incrociamo i  nostri sguardi, per pochi secondi, senza fare alcun cenno o sorriso, e nei nostri sguardi non c'è amore, è rimasta solo la nostalgia per i vecchi tempi, ormai rivediamo solo i ricordi di una vita passata. E' diventato importante, fino a qualche tempo fa era un generale di qualche tipo, ma probabilmente è stato promosso ad altro, non mi interessa. Quando accendiamo il televisore lo vediamo, sempre in prima fila, in commemorazioni o in eventi importanti, e io sorrido ironica e mi prendo gioco di lui "sei diventato uno di quei buffoni bastardi della televisione, eh, Gale?" ma le mie non sono parole di scherno, non è un rimprovero, è una constatazione, di quanto io e lui siamo cambiati da quando andavamo a cacciare insieme nei boschi. Ma probabilmente eravamo già cambiati quando ero uscita dai primi Hunger Games... quando avevo conosciuto Peeta.
Non ricordo un momento, dopo di allora, in cui io e Gale avevamo passato del tempo insieme - oltre alla caccia - senza discutere, senza quel malessere di fondo che mi accompagnava ogni volta che stavo con lui.
Perché se prima le sue idee mi erano indifferenti, le ascoltavo senza sentirle davvero, senza capire quanto per lui fossero serie, quanto non fossero dettate dalla rabbia di un ragazzino ma dalla furia di un piccolo uomo che per vendetta, per potere, era disposto a tutto, dopo aver incontrato Peeta invece mi rendevo conto di quanto quello non fosse l'unico modo di reagire alla situazione dei distretti, di quanto ci potesse essere un modo migliore. Un modo per cui era sbagliato usare gli stessi mezzi dell'avversario per sconfiggerlo, un modo per cui le trappole, il trattare persone come carne di macello, come qualcosa da incastrare in una montagna, come qualcosa da far esplodere a puntate, era sbagliato.
Mi pento ancora, dopo tutti questi anni, di ave votato "si" all'edizione speciale degli Hunger Games proposta dalla Coin. Ero accecata dal dolore per la perdita di Prim, e ho votato a favore di un gioco inumano contro cui mi ero sempre battuta. Stavo per permettere ad una nuova generazione di sbagliare allo stesso modo della precedente, e a quel punto la ribellione, la guerra, sarebbe stata inutile.
Anche in quel caso il migliore tra tutti noi era stato Peeta. Dopo tutto ciò che aveva sofferto, dopo il depistaggio, dopo tutte le torture, aveva risposto con la stessa convinzione del vecchio Peeta "no". Alla fine, Snow non era riuscito a cambiarlo del tutto, ma in fondo il vecchio Peeta era ancora lì, e questa era la vittoria più grande di tutte. 
Non sono riuscita ancora a perdonare Gale, anche se sono passati una decina di anni dalla morte di Prim. Le immagini di lei che brucia viva sono ancora impresse nella mia memoria, mi tormentano nei giorni peggiori, mi appaiono davanti ogni volta che guardo Gale. Quando lo guardo, quelle poche volte che ci incrociamo, all'immagine dei suoi occhi si sovrappongono gli occhi di Prim, gli occhi da ragazzina, quegli occhi innocenti, illuminati dalle fiamme, spezzati dal dolore, nella smorfia in cui si era trasformato il suo volto. E allora distolgo lo sguardo, e lui lo sa che non potrò mai perdonarlo.
Non solo perché è stata Prim a morire, quel giorno, ma perché come me altre persone hanno dovuto vedere i propri familiari morire bruciati, altre persone sono morte in quel modo così inumano che era saltato fuori dalla sua testa. E so che l'ha proposto con coscienza, e quella coscienza mi ha sempre fatto paura.
Mi viene in mente l'eco delle sue parole, ormai lontane "Tra noi due, Katniss sceglierà quello che ritiene indispensabile alla sua sopravvivenza". E forse ha ragione, forse ho scelto in un modo così freddo e calcolatore, forse ho scelto Peeta perché Quello di cui ho bisogno per sopravvivere non è il fuoco di Gale, acceso di odio e di rabbia. Ho abbastanza fuoco di mio. Quello di cui ho bisogno è il dente di leone che fiorisce a primavera. Il giallo brillante che significa rinascita anziché distruzione. 
Ma non è solo per questo, non ho scelto Peeta solo per un freddo ragionamento. 
Non si tratta solo di cosa ho bisogno
Si tratta anche di ciò che voglio
Voglio il calore di Peeta, quando mi abbraccia. Voglio saziare quella fame dei suoi baci, non voglio baciare qualcuno solo perché è triste. Voglio la sua purezza, voglio il suo modo di guardare le persone con quegli occhi buoni, voglio i suoi abbracci che mi scaldavano e mi calmavano sul treno del tour della vittoria, non voglio quell'ansia, quel malessere, quell'agitazione che provavo ogni volta che stavo con Gale; voglio il modo dolce in cui Peeta mi scioglie la treccia ogni sera, e i suoi tentativi goffi di farmene una nuova, anche quando all'inizio mi ricordavano le trecce disordinate e storte di Prim da piccola, e gli spingevo via la mano bruscamente; voglio anche il modo in cui intuiva il motivo del mio rifiuto, e con leggerezza mi afferrava la mano con cui l'avevo rifiutato e la baciava a lungo sul palmo.
Voglio anche quel sentimento di protezione, quella necessità di aiutarlo a mia volta, la voglia di farlo rifugiare tra le mie braccia ogni qual volta ha un episodio, quando il depistaggio continua a confonderlo e a trasformarlo nell'arma di Capitol City.
Ormai quegli episodi sono un ricordo lontano. All'inizio erano improvvisi e violenti, poteva capitare che durante un abbraccio mi iniziasse a stringere più forte, sempre più forte, in un modo non più amorevole ma carico d'odio. La prima volta mi spaventai a morte, non sapevo cosa fare, era stato l'intervento di Haymitch a salvarmi. 
Ma la parte peggiore di quegli attacchi di rabbia cieca di Peeta non erano propriamente gli attacchi, ma le conseguenze. 
La prima volta non mi parlò per due settimane, mi evitò per non ferirmi di nuovo, non voleva rimanere solo con me in una stanza, e convincerlo a ritornare alla vita di sempre fu un percorso lento e difficile, ma dopo parecchio tempo ci riuscimmo. Ricominciare da capo dopo un attacco fu a mano a mano meno difficile, e ci rendemmo conto che la lontananza con me non faceva altro che peggiorarli, perché il suo umore era sempre più nero e gli attacchi erano sempre più violenti. 
Io comunque non ero in uno stato migliore. Se Peeta la maggior parte del tempo cercava di tornare ad una vita normale, cercava di ritrovare un equilibrio, io ero un involucro vuoto che si alzava dal letto ogni mattina, si lavava, si vestiva, senza davvero pensarci. Qualche volta saltavo i pasti, senza nemmeno accorgermene, non sentivo più il gusto delle cose, non esistevo più. Il mio corpo funzionava meccanicamente, non era più controllato dalla mia mente ma funzionava in modo autonomo. Iniziai ad avere degli stati dissociativi. Facevo cose senza accorgermene, senza essere cosciente. Provai ad ignorarli, ma una mattina mi ritrovai nel bel mezzo del bosco, senza sapere quando e come ci ero arrivata. Ero seduta per terra, su un masso, con le gambe incrociate, mi guardai intorno, accecata dal sole di quel giorno, e mi resi conto che non ero più nel letto; poi abbassai lo sguardo, confusa, e mi ritrovai in grembo i palmi delle mani, rivolti verso l'alto, insanguinati, e iniziai ad urlare. Vidi subito lo scoiattolo scuoiato alla mia destra, ma iniziai a urlare e scappai fuori dal bosco, con il volto coperto di lacrime. Per fortuna non ero molto lontana, quindi arrivai quasi subito al villaggio dei vincitori e mi fiondai alla porta di Peeta, bussando rumorosamente. La corsa, il sangue, le urla, le lacrime, ma soprattutto l'ostinata certezza che quello fosse il sangue di Cinna mi aveva sfiancato, quindi mi accasciai vicino alla porta, e scivolai sui gradini, con il battito del cuore accelerato e il respiro spezzato.
Peeta venne ad aprirmi subito, mi prese in braccio e mi portò dentro casa. Sembrava rassegnato, era preoccupato ma dopo capii che se lo aspettava, in qualche modo, che un giorno o l'altro sarebbe successo qualcosa di brutto.
Mi portò al lavandino, e come si fa con i neonati, prese dolcemente le mie mani e le lavò, accarezzandole e lavando via il sangue. Io avrei sicuramente iniziato a sfregare convulsamente le dita, sapendo benissimo che, per quanta acqua avrei usato, quel sangue non se ne sarebbe mai andato dalla mia coscienza. Un'altra lacrima silenziosa mi scese lentamente lungo la guancia, e, mentre avvolgeva le mie mani con un asciugamano e con altrettanta dolcezza le asciugava, avvicinò la testa alla mia e catturò con le labbra quell'unica, calda, lacrima. Si staccò leggermente dalla mia guancia per risalire fino all'occhio, e ne baciò l'angolo più esterno per un lungo momento.
Non dovevo avere la faccia di una persona che riesce a tenersi in piedi da sola, perché mi prese di nuovo in braccio e mi portò sul divano. Mi aveva appena fatta distendere, e stava andando via, ma afferrai la camicia e lo trattenni.
"Non andartene..." lo implorai.
"Sto prendendo una coperta Katniss... stai tremando,"
Si avvicinò con lunghi passi all'armadio, prese una coperta e tornò da me.
"Puoi... puoi abbracciarmi?" senza dire una parola, si distese al mio fianco e ci coprì entrambi con la coperta a quadroni rossi.
"Katniss... cosa è successo?" 
Non risposi. Infilai la testa nell'incavo del suo collo, inspirai ed espirai, piano, e a poco a poco smisi di tremare.
Peeta non mi fece altre domande, si limitò ad accarezzarmi i capelli, e quando mi calmai mi resi conto che erano le sue mani a tremare. Alzai lo sguardo, lo fissai dritto negli occhi e vidi le sue pupille dilatarsi. Aveva le labbra serrate, con una tale forza che la pelle sembrava strapparsi. La smorfia di rabbia era accentuata dalla mia prospettiva.
"Pee.." cercai di chiamarlo, ma  iniziò a stringermi più forte. Sempre più forte. 
"Quello è il sangue di mio fratello. Lo hai ucciso tu. Lo hai ucciso tu."
Scalciavo, ma riuscii solo a farci cadere entrambi dal divano. Haymitch entrò in quel momento e gli colpì le mani, per farmi lasciare. Mi trascinò via, vidi gli occhi di Peeta tornare alla normalità, e il suo sguardo vitreo prendere consapevolezza di ciò che era successo e riempirsi di tristezza. Mi protesi verso di lui, allungai il braccio, ma la mia mano non afferrò niente.
Quello fu il suo primo attacco da quando eravamo tornati a casa. Nelle due settimane successive, senza né vederci né parlarci, entrambi peggiorammo. 
Sentivo spesso il rumore di oggetti che venivano frantumati proveniente da casa sua. Quelli erano gli unici momenti in cui sembravo risvegliarmi, era la preoccupazione per Peeta che mi faceva alzare in piedi e muovermi. Ma non potevo fare nulla.
Più volte uscii fuori e attraversai il vialetto. Ma non entravo mai in casa sua, perché avrei peggiorato solo la situazione.
Provavo a lasciargli messaggi in segreteria, ma non rispondeva.
Provavo a lasciargli biglietti sotto la porta di casa, ma non me ne mandava uno a sua volta.
Haymitch iniziava ad essere preoccupato per entrambi, sapeva che da soli ci saremmo fatti solo del male. Chiamò Johanna, che decise di venirmi a trovare nei prossimi giorni insieme ad Annie e il bambino.
E se non fossero arrivate loro, ora non sarei qui a parlarne. Forse, dopotutto, non avevo ancora svolto il mio compito, perché, volendo o non volendo, mi ostinavo a rimanere in vita. Mi chiesi per parecchio tempo quale fosse il mio ruolo, quale altro personaggio dovessi interpretare in questo mondo.
Ero stata la vincitrice degli Hunger Games, ero stata la pupilla di Capitol City, ero stata la sventurata innamorata, ero stata la Speranza, ero stata la Ghiandaia Imitatrice, ero stata la pedina della Coin, ero stata la portavoce, l'immagine della rivolta, ed ero stata - ancora - la pedina di Snow. Cosa mi aspettava ancora?
In ogni caso la visita di Johanna e Annie arrivò in un tempismo davvero fortunato. Sapevo che sarebbero arrivate nel pomeriggio, quindi qualche ora prima, due o tre, non ricordo, decisi di farmi un bagno. Avevo già ordinato casa e volevo farmi trovare in una condizione... non così indecente.
Però ebbi uno dei miei episodi. Nessuna rabbia, nessun grido. Svenni, probabilmente, o forse lo feci inconsciamente, ma quando tornai lucida, mi ritrovai sul pavimento della vasca a sputare e tossire acqua, con Johanna sopra di me che, con forse troppa forza, mi batteva le mani sul petto e mi faceva una respirazione bocca a bocca.
"Non puoi essere sopravvissuta ad una fottuta guerra e morire così, brutta stronza!" mi urlò Johanna dopo essersi accertata che fossi fuori pericolo, con il panico che le spezzava la voce. 
"Non vole... non... so..." mi sentivo confusa, non riuscivo a parlare, avevo freddo. L'acqua era gelata, quell'episodio era durato più tempo del solito. Mi aiutarono a rivestirmi, accesero il camino nonostante il clima fosse abbastanza caldo, mi prepararono una bevanda calda e aspettarono. Gli spiegai gli stati dissociativi.
Chiamarono immediatamente Haymitch. E lui chiamò Peeta.
Prima di sera venne a trovarmi in casa, ma chiese agli altri di non allontanarsi.
"Katniss..." mi disse, serio. "Non puoi continuare così. Ci sono due soluzioni ora: o rimani qui al mio fianco, e proviamo ad andare avanti insieme, o sono costretto a chiamare il Dottor Aurelius e rispedirti al distretto 13, o peggio, a Capitol City, per curarti. Ho dovuto convincerli per farti stare qui, lo sai? Gli avevo promesso che saresti guarita."
La sua mano toccava leggermente la mia, mi accarezzava sul palmo tracciando cerchi con le dita, il suo corpo era proteso verso di me, i suoi occhi inchiodavano i miei, ma il suo corpo era lontano. Cercava di tenersi ad una distanza di sicurezza, in modo da lasciarmi scappare in qualsiasi momento.
Ero distesa sul letto, ancora sotterrata da strati di coperte. Provai ad alzarmi, lui sembrò avvicinarsi per aiutarmi, ma poi si ritrasse.
Sembrava un gioco, in cui continuavamo ad avvicinarci ed allontanarci. Era sempre e solo lui a ritrarsi, e sembrava non esserne affatto contento.
"L'altro giorno... pensavo che quel sangue fosse di Cinna. Ne ero certa. Mi sono ritrovata in mezzo al bosco ricoperta di sangue e sono impazzita. Mi dispiace..." tremai al solo ricordo, e lui con me.
"Mi... - si concentrò su un punto alle mie spalle, in cerca di parole. Non poteva essere lui quello in difficoltà, era sempre stato quello in grado di dire la cosa giusto al momento giusto. "Non so come spiegarti. Il dottor Aurelius mi ha aiutato tantissimo, sono più stabile rispetto all'inizio, più presente, ma... ci sono quei momenti... in cui..." - prese un profondo respiro - " in cui si scatena un ricordo del depistaggio... mi ritornano in mente immagini, scaturite anche da una cosa piccolissima, e esplodo... è difficile, è come..." io lo guardavo intensamente, cercando di capire. 
Sembrò lasciare perdere. "L'altro giorno, quando sei arrivata ricoperta di sangue, ho iniziato ad innervosirmi. Mi venivano in mente tutte le storie su te che uccidevi la mia famiglia. Ho cercato di resistere, ma quando ti ho chiesto cosa fosse successo e non mi hai risposto... avevi uno sguardo... come se fossi colpevole... e lì non ho retto più. Mi dispiace."
Cercai di avvicinarmi ancora, ma lui si tenne lontano.
"Katniss, stare lontano da te mi fa male. Ho sempre paura quando non sono con te. Mi sembra di poterti perdere di nuovo, che compaia di nuovo Snow e che distrugga tutti i ricordi che ho di te, di nuovo." - ebbi l'impulso di baciarlo e riempire il vuoto del suo cuore, di eliminare i punti interrogativi dei suoi ricordi e di far scomparire la sua tristezza con quel bacio, ma lui non aveva concluso. 
"... Ma non possiamo continuare così. Stare con te, in questo stato, mi logora, perché non posso aiutarti. E se fosse solo questo... resisterei. Farei di tutto per starti accanto, ma non è solo questo. Vederti così, con lo sguardo vuoto, gli occhi fissi nel nulla, quasi come se non respirassi... mi sembra di avere davanti l'ibrido che dipingeva Snow. Mi sembra di avere la Katniss che mi hanno fatto  odiare, quella che ha ucciso i miei genitori, distrutto il 12, quella che ha finto di amarmi e mi ha spezzato il cuore. Diventa così reale. E più diventa reale più mi innervosisco e nascono gli episodi. In questo stato, finirò per farti del male Katniss. Finirò per ucciderti"- disse quella parola in un modo così tagliente da spaventarmi - "... E sai che non potrei mai sopravvivere sapendo di averti ucciso. Morirei un istante dopo aver ripreso la lucidità." 
Pensavo avrebbe pianto. Invece i suoi occhi erano asciutti, al contrario dei miei, che si riempirono di lacrime. Non piangevo da tanto tempo, non ero capace nemmeno più di quello. La sua espressione era seria, la sua mascella contratta, i tratti del suo viso mi sembrarono ad un tratto più spigolosi. Era adulto, ormai. Il Ragazzo del pane, quello che mi aveva salvata dalla fame, che piangeva il giorno della mietitura, che salutava dal treno i cittadini di Capitol City, che dichiarava di essere innamorato di me davanti Caesar Flickerman, si era estinto in quell'uomo che mi stava davanti, accovacciato per parlarmi, marchiato da cicatrici che non sarebbero mai sparite, indelebili sulla sua pelle e sulla sua anima. Era diventato l'"Uomo del pane", il mio Uomo del pane.
Dovevo, almeno per lui, rimettermi in piedi. Non era solo il debito che mai sarei riuscita ad estinguere con lui a spingermi, ma anche la voglia di proteggerlo, di mantenere fede alla promessa che non ero riuscita a mantenere ai settantacinquesimi Hunger Games: lo avrei protetto, avrei messo lui al primo posto, avrei pensato al suo bene, non al mio.
Capii che per nulla al mondo avrei potuto sopportare la sua morte, ed era sempre stato cosi: ai primi giochi, avevo rischiato la vita per prendere la medicina per lui nella cornucopia; l'anno successivo, quando aveva toccato il campo di forza, avevo creduto di perderlo ed il mondo mi si era sgretolato sotto i piedi; anche dopo, avevo cercato di proteggerlo dai ribelli, e non avevo avuto la forza di ucciderlo quando ormai in lui sembrava essere rimasto solo l'ibrido di Snow. Avevo provato in tutti i modi a salvarlo, a tenerlo in vita, perché ormai solo quello importava: "Peeta vive, io muoio."
Ma non eravamo più nei giochi.
In quel momento, dovevo salvare Peeta, ma non ero costretta a sacrificarmi per farlo: anzi, dovevo fare di tutto per rimettermi in sesto.
Mi alzai in piedi.
Un nuovo fuoco bruciava in me. 
Non quello della ghiandaia imitatrice, quello distruttivo, il fuoco ardente della rivoluzione, no. Era molto diverso. Quella volta era una piccola fiammela, una fiammella tremolante, debole, ma piena di vita. 
Sapevo che quella fiamma era sempre stata lì, dall'inizio, a bruciare piano, a riscaldarmi il cuore.
Ma era eclissata dalla fiamma della Katniss rabbiosa, dalla fiamma della sopravvivenza.
Quella nuova fiammella non era dettata dal bisogno, ma dal desiderio: al contrario della prima, che era scoppiata senza nemmeno lasciarmi il tempo di rendermene conto, divampando in fretta e spegnendosi subito, lasciandomi bruciata, era una fiamma lenta, che andava man mano crescendo e che mi avrebbe accompagnato per molto, molto tempo. 
"Aiutami a salvarti."dissi, dopo essermi alzata dal divano ed essermi avvicinata a lui, che non fu più in grado di indietreggiare una volta arrivato al camino.
Non ero brava ad  esprimere i miei sentimenti, quelle parole erano il massimo che potessi dire.
Ma guardandomi negli occhi, Peeta capì. Capì che qualcosa era cambiato. 
Capì che non ero più vuota. 
"Resta con me, Katniss." Mi disse, dolcemente.
"Sempre."
Quella volta ci scambiammo le battute. Avevamo caldo, ma era un caldo piacevole, avvolgente. Si lasciò baciare per un istante breve, davvero troppo breve, prima di allontanarmi ancora. Ma sapevo che, ormai, eravamo legati da qualcosa di forte, di più forte di qualsiasi ostacolo.
E che, in ogni caso, non avrei  permesso a niente e a nessuno di dividerci.
In quel momento mi resi conto che  non avrei mai potuto scegliere nessun altro.
 
 
Quello fu solo l'inizio del nostro percorso. Però, almeno, eravamo insieme.
Pian piano io e Peeta ricominciammo a passare più tempo insieme, sempre accompagnati da qualcuno. A me andava bene così, per il momento, l'importante era poter passare del tempo con lui, anche se non potevo toccarlo o abbracciarlo. Era ridicolo come, dopo aver passato un paio di anni a scambiarsi smancerie di fronte alle telecamere, ora mi vergognassi.
Io e Peeta ci iscrivemmo al comitato per la ristrutturazione del 12. Il nome mi faceva innervosire, ma fino a quando facevamo qualcosa di utile e che ci impegnasse la giornata, eravamo contenti. Lavoravamo quattro giorni a settimana, il resto del tempo io e Peeta ci impegnavamo per scrivere il libro sugli Hunger Games. Iniziammo con le testimonianze degli altri tributi, per non essere soli, ma mano a mano che passava il tempo Peeta riprese fiducia in se stesso e ricominciammo a stare da soli. Mi sentivo bene, in quei casi.
C'erano giorni in cui peggioravamo all'improvviso, lui aveva degli attacchi, e quando succedeva io mi rinchiudevo in una stanza mentre al di là della porta distruggeva i mobili. Io provavo a parlargli, a dirgli di calmarsi, ma non migliorava affatto, anzi, cominciava a dare spallate alla porta per buttarla giù. Aspettavo, in piedi dietro alla porta fino a quando non si calmava, e lo trovavo accovacciato a terra, rannicchiato sui resti di quello  che aveva distrutto. Mi accovacciavo accanto a lui, lo abbracciavo e dicevo che tutto sarebbe andato per il meglio.
Per quanto provassi ad essere forte nemmeno io ero guarita, anzi, il mio umore era instabile, peggiorava all'improvviso, in un attimo passavo dall'essere positiva, fiduciosa nel futuro, ad essere invece depressa, a vedere tutto grigio. Avevo voglia di piangere, mi rannicchiavo in posizione fetale sul letto e desideravo di sparire. A quel punto era Peeta a venire da me, ad accarezzarmi la testa. Qualche volta provava anche a cantare, con la sua voce un po' roca , sbagliando quasi tutte le note, ma con quel suo modo di fare dolce. Cercava di farmi alzare e farmi mettere al lavoro, e lo sforzo fisico mi aiutava parecchio, fare qualcosa mi calmava e mi faceva sentire meglio.
Piano piano andò meglio. Fu un percorso difficile, lento, ma non smettemmo mai di provarci. 
 
Ci sposammo dopo qualche anno, una cerimonia fin troppo intima, con pochissime persone, nessuna telecamera, e con gli abiti di Cinna. Indossare un suo abito mi dava l'impressione di averlo con me, in quel giorno speciale. Non era uno degli abiti che aveva preparato per Snow, ma era un abito nuovo, che non avevo mai visto: lo aveva dato in custodia ad Haymitch, per quando il matrimonio con Peeta fosse stato reale. Ancora una volta, lui aveva previsto tutto. Mi conosceva meglio di quanto io conoscessi me stessa.
E quella volta non fu Peeta a fare la proposta: un giorno, quando i suoi attacchi iniziarono ad essere più controllabili, quando riuscivo ad avere  un po' di stabilità emotiva, mi inginocchiai davanti a lui, e gli feci la proposta, senza anello, senza nient'altro da offrirgli se non l'amore di una donna spezzata, una donna che riusciva a tenere insieme i pezzi grazie alla sua presenza.
Mi disse si, senza nemmeno pensarci. Comprò lui un anello, e lo infilò piano al mio anulare sinistro qualche giorno dopo, chiedendomi a sua volta se volessi sposarlo.
Il mio nuovo ruolo da fidanzata, amante, moglie, non era l'ultimo.
Un nuovo ruolo mi si è parato davanti, adesso. So dare una spiegazione a tutto quello che è successo, ora. Riesco a guardare al passato con occhi nuovi. Non è stato tutto inutile.
Quando Peeta aveva accennato ad avere dei figli, vecchie paure erano tornate a tormentarmi. Nessuno dei vecchi motivi era più valido,  ma persisteva in me quella paura, ero stata convinta per così tanti anni di non voler avere figli che ora non riuscivo a cambiare idea.
Anche se... immaginavo spesso un piccolo Peeta. Un batuffolo nelle mie braccia, con i suoi occhi, i suoi capelli biondi. Un figlio nostro. 
Avevo paura, però, di non esserne capace: di cadere nell'oblio, come mia madre, e di non sapermi prendere cura di lui.
Ma Peeta mi rassicurava. Mi diceva che l'avremmo cresciuto insieme, e che l'avremmo difeso l'uno dalle debolezze dell'altro, quindi alla fine accettai.
Ero sicura che sarebbe nato un maschietto. La gravidanza fu difficile, ogni giorno passava e la mia paura di perderlo aumentava. Mi terrorizzava l'idea che, dopo aver preso in giro il resto del mondo con la gravidanza finta, e la perdita della gravidanza durante i giochi, adesso dovessimo pagarla. C'erano momenti in cui mi stringevo la pancia e non respiravo, avevo sempre un sacchetto di carta accanto a me per respingere gli attacchi di panico, e quando non ne avevo uno Peeta era pronto a farmi la respirazione bocca a bocca per aiutarmi. 
Anche gli incubi tornarono, e una notte sognai la Coin. Era tornata dal mondo dei morti, per farmela pagare. Aveva estratto la freccia, portando con sé sangue raggrumato e pezzetti di cervello, e con il mio stesso arco, con la stessa freccia con cui l'avevo uccisa, aveva colpito la mia pancia e ucciso il mio bambino. Mi svegliai sudata e urlando.
"Non permetterò a nessuno di far del male a te e alla bambina, Katniss. Te lo prometto." Peeta mi baciò a lungo. E il fuoco nei suoi occhi mi calmò, non ero più sola, con lui al mio fianco potevo farcela.
"Bambina?" dissi, con la voce spezzata.
"Si, è una bambina. E' una piccola Katniss." disse lui, infilando la mano sotto la maglietta e massaggiandomi la pancia.
"Secondo me è un piccolo Peeta." dissi, provando a ridere. Fu compiaciuto dalla mia frase, probabilmente non si aspettava che anche io avessi pensato a questa cosa.
"No... è una bambina" si protese in avanti, baciando la pancia, e si mise a dormire con la testa appoggiata sotto il mio seno, le mie mani incastrate tra i suoi riccioli.
Alla fine, ha avuto ragione lui.
Qualche settimana fa è nata una piccola bambina, con i capelli scuri, e gli occhi azzurri. E' una piccola Katniss, ma ha anche molto di Peeta in lei. Tenerla in braccio ha domato tutte le mie paure. Possiamo stare per ore seduti sul divano, io tra le braccia di Peeta, lei tra le mie braccia o tra le sue. Non la mettiamo giù un momento, non vogliamo lasciarla andare. La guardiamo negli occhi, intensamente, e lei ha già uno sguardo intelligente, con quelle guance paffute, le labbra piene, il nasino piccolissimo. 
Non abbiamo voluto chiamarla Primrose. Non abbiamo voluto chiamarla come la madre di Peeta. 
Non doveva avere il nome di nessun morto, non doveva essere chiamata come una vittima di guerra, ma il suo nome doveva essere quello della Gioia, come è stata lei per noi due. 
Haymitch è quasi sempre a casa nostra. La adora, lei gli tira i capelli, lui le bacia i piedini, e quasi sempre è sobrio. Non lo faremmo mai stare con lei da ubriaco. Anche il suo percorso è stato lungo, qualche volta ricade nell'oblio, ma riesce ad uscirne. Anche grazie a Effie, che ormai sta in una delle case dei vincitori ancora in piedi. Non so come debbano essere chiamati, amici, fidanzati, amanti, ma si fanno del bene a vicenda, e questo basta. Io ci ho messo un po' per dare un nome a quello che provo per Peeta, e capisco che l'importante è avere qualcuno che ti faccia stare bene, qualsiasi sia il vostro rapporto.
E ora le persone che mi fanno stare bene, sono due.
E io guardo la mia piccolina e la amo, la amo così tanto da fare quasi male.
E so che tutto ciò che ho fatto, ora ha un senso.
Se non fossi stata la Vincitrice, se non fossi stata l'Innamorata Sventurata, se non fossi stata soprattutto la Ghiandaia Imitatrice, non avrei mai avuto la possibilità di avere questa piccolina da amare, non sarei mai diventata Madre, non ci sarebbe stato mai un mondo sicuro per questa creatura così innocente.
Io e Peeta lo sappiamo.
Le nostre sofferenze ora hanno un senso. Il depistaggio, la ribellione, sono stati il prezzo da pagare per arrivare a questo punto.
E siamo così grati al nuovo mondo, per averci dato questa possibilità.
Per la prima volta, assumiamo un ruolo tutto nuovo. Un ruolo spontaneo, che abbiamo scelto, che non ci è stato imposto da nessuno.
Ora siamo Marito e Moglie. Madre e Padre.  


Nda,
Spero che la storia vi sia piaciuta. La mia idea originale era un po' diversa, un po' come un diario, ma alla fine mi è uscita come un epilogo - un po' più approfondito rispetto a quello della Collins - a Mockingjay.
Spero vi sia piaciuto lo stesso, grazie per aver letto la mia oneshot! c:


 
 
 
  
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