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Autore: Nitrogen    20/12/2014    2 recensioni
Tornai a guardare la porta di fronte a me poggiando la testa alla mano e chiusi gli occhi: avevo la nausea e le vertigini, in aggiunta al bel quadretto c’era un mal di testa che si placava solo se smettevo di pensare. Non era facile sopportare tutti quei fastidi che avrebbero messo qualcun altro al tappeto e contemporaneamente risultare acida come se nulla mi causasse troppi problemi.
«Non sembra affatto spaventata.»
«Non ho motivo per esserlo.»
«Devo ricordarle che attualmente è detenuta in un ospedale psichiatrico?»

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Avvertenze: L'autrice di questa originale non è sana di mente, ragion per cui ha scritto una storia non adatta a stomaci deboli; violenza gratuita, linguaggio scurrile e sangue la fanno da padrone nella maggior parte dei capitoli. Siete stati avvisati.
Genere: Angst, Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo X
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A differenza della prima volta che mi svegliai nella stanza bianca dell’ospedale – dove impiegai fin troppo tempo per capire di essere finita nei guai – spalancai gli occhi non appena tornai cosciente e cercai nell’immediato di comprendere cosa fosse accaduto. Ero capitata nel peggiore dei miei incubi: gli occhi non riuscivano a vedere niente e le orecchie a percepire alcun suono.
Ispira, espira. Immetti aria nei polmoni e cacciala fuori.
Detestavo il silenzio e avrei tanto voluto che si sentisse un qualsiasi rumore affinché non ci rimettessi a lungo andare la mia sanità mentale, ma il terrore che mi incuteva l’incapacità di vedere cosa si potesse annidare nell’oscurità era – ed è tuttora – la cosa che più mi paralizza in assoluto; il mio senso più sviluppato è la vista, e saperlo totalmente inutile in una situazione del genere non riusciva affatto a tenermi calma. Non riuscivo nemmeno a vedere a un palmo dalla mia faccia.
Ancora una volta le mie mani erano legate dietro la schiena, tenute ben strette da quelli che sembravano essere diversi giri di fili di nylon attorno ai miei polsi. Non l'avrei mai voluto dire, ma peggio di una corda o delle manette vi è senza ombra di dubbio quella superficie tanto sottile e liscia che seghettava a dovere la mia pelle ad ogni movimento di troppo: era qualcosa di assolutamente eccessivo, fatto appositamente per farmi soffrire più che tenermi ferma, e questo mi aveva fatto pensare che chiunque mi avesse rinchiuso in quella scatola di cemento si sarebbe divertito vedendomi grattare le unghie contro le pareti implorando aiuto, se fosse stato possibile. Ma per vedermi mentre mi disperavo avvolta dall'oscurità dovevano esserci delle videocamere di sorveglianza a infrarossi, probabilmente a uno dei quattro angoli della stanza.
Convincermi ad alzarmi o tentare comunque di comprendere dove fossi non fu la cosa più semplice del mondo, ma Jonathan aveva passato tanto di quel tempo a spiegarmi come "sopravvivere" in quell'ospedale che mi parve di sentire la sua voce al posto dei miei pensieri, e strisciare all'indietro in cerca di una parete fu quasi automatico. Mi spostai cercando un angolo da cui poter partire e segnare come punto di riferimento mentale per delineare il perimetro della stanza; mi alzai aiutandomi con il muro e iniziai a camminare verso destra.
Uno, due, tre, quattro, cinque... Oggetto.
Mi voltai di spalle e identificai la cosa che mi aveva preso in pieno all’altezza del bacino come un lavabo e lo superai, facendo scontrare così la mia gamba destra con quello che ipotizzai fosse il water. Doveva essere una delle celle di isolamento.
Altro angolo. Uno, due, tre, quattro… Parete vuota. Uno…
Con il braccio destro che strisciava sulla parete per non perdere l’orientamento, riuscii a identificare il cambio di superficie con la porta d’accesso: irrimediabilmente chiusa come prevedibile, iniziai a colpirla con diverse spallate nel vano tentativo di attirare l’attenzione di qualcuno, urlando di farmi uscire da lì. Ma mentre eseguivo queste azioni, l’olfatto – che fino a quel momento non mi aveva suggerito altro che la solita puzza di chiuso e urina tipica di ogni cella – avvertì qualcosa che prima non aveva notato. Era un tanfo che non mi era mai parso di sentire prima di quel momento, e che proveniva dall’unico angolo che non avevo ancora controllato.
Un passo dopo l’altro, raggiunsi – fino a scontrarlo – quello che ai miei piedi nudi parve un materasso terribilmente umido, impregnato da chissà che cosa. Mi chinai di poco, annusando l’aria nella vana speranza di comprendere da cosa fosse causato quell’odore tanto spiacevole e qualche ipotesi iniziò a farsi avanti nella mia testa.
Allungai un piede verso il centro del materasso e lo sentii: qualcosa di viscido, organico e in pieno stato di putrefazione era abbandonato in quel punto della cella da giorni, forse settimane, e i liquidi corporei avevano completamente infestato il letto.
Indietreggiai di colpo, maledicendomi per il mio preferire i piedi scalzi alle scarpe e tentai di mantenere la calma anche se, a dire il vero, non fu cosa facile: sapere di essere in una microscopica cella di isolamento, legata e completamente al buio in bella compagnia di un cadavere era quello che di peggio potesse accadermi; o almeno è quello che ho creduto fino a quando tutto d’un tratto non si aprì la porta della cella.
La luce del corridoio non era chissà quanto forte, ciononostante i miei occhi non riuscirono a mettere a fuoco nell’immediato chi fosse appena entrato e mi ritrovai senza cerimonie a subire una scarica di pugni in pieno volto, incapace anche di difendermi a causa del filo di nylon che mi bloccava i polsi dietro la schiena.
«Povera piccola Nebraska, ancora una volta è stata sfortunata.»
Hijikata…
Indietreggiai, incastrandomi in un angolo nel tentativo di rimettermi in piedi. Dal momento in cui gli occhi si erano abituati alla luce del corridoio, vedevo chiaramente quello scarto di cadavere contorto in un’espressione di puro terrore, abbandonato in una posizione innaturale e sgraziata come se fosse stato gettato lì senza particolari cure. E lo conoscevo, ero certa fosse il corpo di uno dei pazienti con cui una volta, per caso, avevo interagito nella sala grande.
Un conato di vomito si fece sentire, ma distolsi rapidamente lo sguardo da quello spettacolo e non gli diedi ascolto.
«Hai la tipica espressione di chi non si aspettava sarebbe finita in questo modo. Credevi davvero che la morte di Candice avrebbe risolto ogni cosa?»
«Vuoi uccidere anche me?»
«Permettimi di essere sincero almeno questa volta: lo ammetto, mi divertirebbe molto vederti ridotta in quello stato.» E indicò il cadavere dall’altro della stanza, dandogli anche un rapido sguardo. «Sai, ho perso il conto di quanto tempo fa l’ho pestato a sangue; non ricordo il motivo per cui l’ho ridotto in quello stato e nemmeno più il suo nome. Però una cosa è certa: lui è stato solo uno dei tanti che ha rivisto in me il Tristo Mietitore. Non puoi immaginare quanti io ne abbia fatti fuori, Nebraska, non hai la minima idea di come ci si senta Dio quando tu sei l’unico che può decidere se far restare in vita qualcuno o lasciarlo morire nel modo più atroce possibile.»
Era vicino, troppo vicino; mi stringeva il volto, infossava le dita nella mia pelle e mi pugnalava con i suoi occhi colmi di un desiderio completamente diverso da quello di Sam ma altrettanto perverso. Sorrise, portando la sua bocca vicino al mio orecchio sinistro lasciato libero di sentire quello che sussurrò appena.
«Rassegnati, Nebraska: il tuo ultimo respiro lo esalerai in questa cella e sarà solo causa mia.»
Mi fece sbattere la testa contro il muro alla mia destra, dopodiché mi assestò un calcio nello stomaco e mi tenne in piedi tirandomi per i capelli. Un pugno, un altro e un altro ancora. Il sangue scivolava copiosamente dalle narici e l’intero viso pulsava per le troppe percosse. Non era la prima volta, quella violenza incontrollata l’avevo già vissuta prima di quel giorno, eppure non riuscivo ancora, a distanza di mesi dal mio internamento in ospedale, ad abituarmi del tutto.
«Tu non vorresti uccidermi.», biascicai.
«Cosa te lo fa credere?»
«Jonathan mi ha detto che per quanto tu possa essere un ripugnante scarto umano, non ti piace far del male a una donna.»
«C’è sempre un’eccezione a tutto.»
«Quanto ti ha pagato per farmi fuori?»
Hijikata mi fece sbattere nuovamente la tempia contro il muro e tentò di colpire il lavabo con i miei incisivi; il primo colpo andò a segno, ma per il secondo riuscii a girare abbastanza la testa da sentire solo la guancia scontrarsi con il metallo a basso costo del lavandino.
«Quel ragazzo è il vero mostro, non io.», disse a pochi centimetri dalle mie labbra, «Ha pagato così tanti soldi per rinchiuderti qui dentro che solo un pazzo non avrebbe accettato.»
Gli sputai in faccia: «Mi fai schifo. Io sono innocente – »
«Lo so dal primo giorno, Nebraska, non serve a nulla tu lo ribadisca adesso. Credimi, all’inizio non volevo nemmeno arrivare a questo punto, avrei preso tutti quei soldi ignorando l’ordine di farti passare le pene dell’Inferno. Ti avrei trattata come chiunque altra, ragazzina, ma tu mi hai istigato. Tu e quella tua dannata voglia di metterti costantemente nei guai, tu e la tua testardaggine, tu e quel coraggio che continua a non abbandonarti.» Il suo indice percorse i lineamenti del mio viso lentamente, deviando in alcuni punti le scie del mio sangue. «Forse, se avessi avuto paura di me come tutti gli altri, adesso non staresti per morire.»
Afferrò nuovamente i capelli e mi costrinse la testa nel water. Ero fin troppo debole per averla vinta, ma tentai di opporre resistenza ugualmente, come se non sapessi che lui era l’unica persona a poter decidere se farmi inalare ossigeno o acqua. Non volevo morire, non in quel modo, non in quel momento.
Mi tirò fuori la testa e io tornai a respirare per qualche istante.
«Ti piace l’acqua?»
«Direi che non è il mio elemento.»
«Mi dispiace per te, allora. Questa era solo una prova.»
La mia testa finì ancora una volta nella tazza. L’acqua era gelida, il sangue dal mio volto si mescolava ad essa e la colorava lentamente di nuvole rossastre che mi accecavano gli occhi. Per quanto io mi dimenassi, la sua presa sulla mia testa era troppo forte e io continuavo, imperterrita, ad ingerire acqua.
L’aria nei polmoni entrò con la stessa violenza di un calcio ben assestato allo sterno. Il mio intero corpo doleva: le nuove ferite si aggiungevano alle vecchie cicatrici, bruciavano e mi ricordavano per l'ennesima volta che di immortale non avevo un bel niente.
«...Basta.»
Hijikata sorrise sornione: «Di già? Mi deludi, Nebraska, di solito sei molto più resistente.»
«Dopo mesi credo sia normale averne abbastanza di queste torture.»
«Ma io non ho ancora finito di divertirmi. Sei così bella mentre tenti disperatamente di riemergere e di non inalare acqua…»
Doppiogiochista, sadico e perverso; questi erano – e sono tutt’ora – gli unici aggettivi che mi sentivo di affibbiargli. Avrei venduto l’anima al diavolo pur di sfregiargli la faccia almeno una volta, di rompergli ancora il naso o spaccargli il labbro.
Ero stanca di vedere la mia pelle che si riempiva di lividi e cicatrici, delle mie lacrime che impregnavano il cuscino e degli incubi che mi tormentavano la notte; i miei familiari erano come morti e tutto quello che avevo si limitava a un crimine sulle spalle nemmeno mai pensato. Sopravvivere in un ospedale psichiatrico non è facile, specialmente se la tua salute mentale non ha molto che non vada; e in quel momento, con di nuovo la testa in acqua, non facevo che rivedere fotogrammi casuali della mia permanenza nella struttura.
La camera bianca, il primo incontro con Hijikata e il suo naso che incontra un mio gancio; Mayer che mi trascina via e mi prende sotto la sua ala protettrice; i sorrisi di Crystal e Kline; le spiegazioni prive di parole di Candice per insegnarmi come giocare a scacchi... E poi Jonathan, con i suoi occhi dello stesso colore dell'acciaio fuso che mi chiedeva di fidarmi di lui.
Avevo passato così tanto tempo all’interno di quell’ospedale che quasi non ricordavo più cosa significasse uscire con gli amici, andare a scuola e tante altre piccole stupide cose che chiunque avrebbe definito normali. Avevo solo diciotto anni e, per quante io ne abbia passate in tutta la mia vita, essere segregata in quell'ospedale è stata la peggiore in assoluto.
Cercavo di convincermi che forse arrendermi a quel destino fosse la scelta migliore, ma i miei polmoni continuavano incessantemente a supplicare per un po' di aria mossi dall'istinto di sopravvivenza che non potevo controllare; mi agitavo anche se avrei voluto smettere di vivere un'esistenza simile; pregavo ogni Dio in cui non avevo mai creduto di darmi quella forza che stava via via scemando in una delusione totale causata dal non poter far nulla nemmeno per difendere quel poco di onore che mi restava.
Sentivo il gusto della morte tra i denti, stretti gli uni sugli altri nel vano tentativo di non cedere al mio istinto che mi avrebbe portato a inalare le ultime boccate d'acqua prima di affogare completamente.
Ma tutto d'un tratto i miei capelli furono tirati indietro e la mia testa riemerse. Non avevo forze, tossivo acqua e non capivo cosa stesse accadendo; sapevo solo che qualcuno mi stringeva e mi spostava i capelli bagnati dal viso, con fare quasi amorevole.
«...Mayer?»
Una risata. Maschile, piacevole, familiare.
«Non può essere sempre lui a salvarti, Herstal. Qualcosa tocca farlo anche a me.»
«Jonathan...»
«Mi piacerebbe tanto stare fermo a guardare i tuoi occhi pieni di gratitudine, ma purtroppo non c'è tempo.»
Jonathan tagliò il filo di nylon che aveva logorato i miei polsi con un coltello preso chissà dove, dopodiché si mise in piedi e fece qualche passo verso Hijikata, contorto in un'espressione di dolore.
«Vorrei tanto ucciderti per quello che hai fatto a me, Candice e Nebraska, ma mi hanno detto che ammazzarti non sarebbe nient'altro che un bel favore: vivere nelle stesse quattro mura per anni, senza avere la possibilità di far nulla che ti piaccia ed essere trattato come un cane affetto da rabbia sembra essere una tortura ben peggiore che toglierti dalla faccia della Terra.»
E dicendo queste parole assestò diversi calci sul volto di Hijikata, facendolo diventare un agglomerato di chiazze violacee e rivoli di sangue al pari della mia faccia. Lo colpiva con un odio smisurato, quasi contro natura, come se ad ogni gemito di Hijikata lui godesse profondamente.
Jonathan si fermò per qualche istante: aveva il respiro accelerato, qualche schizzo di sangue in volto e nessuna buona intenzione che gli passasse per la testa.
«Herstal, vattene.»
«Cosa?»
«Muoviti ad uscire.»
«Che vuoi fare?»
«Dare un buon motivo alla gente per chiamarmi “assassino”.»
Hijikata si alzò approfittando della guardia lasciata bassa da Jonathan e lo colpì, scagliandolo dall’altro lato della stanza; afferrò il coltello incustodito e me lo puntò alla gola prima che io potessi anche solo capire che si stava avventando su di me.
Jonathan si alzò massaggiandosi una tempia; non parve minimamente turbato dal coltello tra le mani di Hijikata, né tanto meno che fossi io quella presa in ostaggio. Sorrise con malizia, dopodiché prese parola: «La prossima volta che ti darò un ordine sarai così gentile da eseguirlo prima che le cose prendano una brutta piega?»
«Ti sembra il momento di discuterne?!»
«Andiamo, Herstal…» Sbuffò, poi passò a guardare lo psichiatra. «Ascoltami, Hijikata, perché non ho intenzione di ripeterlo una seconda volta: lascia Herstal o ti ammazzo sul serio.»
«Vuoi convincermi che se non le facessi del male, mi lasceresti uscire da questa cella? Non farmi tanto stupido, Jonathan: se non mi sei ancora saltato addosso è perché temi per la sua vita.»
Jonathan fece una smorfia. Si leggeva la noia sul suo volto, quasi come se il tutto non fosse affar suo.
«Va bene, allora uccidila pure. Ciao ciao.»
E dicendolo uscì di corsa dalla cella, lasciandomi nella penombra con lo psichiatra a bloccarmi gli arti e il coltello a segarmi la gola. Ero sconcertata dal suo gesto, ma razionalmente sapevo che quel diavolo aveva qualcosa in mente; continuavo a ripetermi che da un momento all’altro sarebbe accaduto l’impensabile, ero certa non mi avrebbe mai abbandonata… più o meno. In realtà ero terrorizzata all’idea – nemmeno tanto improbabile – che lui se ne fosse davvero lavato le mani.
«Lasciami andare, bastardo!»
«Stai zitta!» Il coltello si strinse ancora di più sul mio collo. «Per quanto lui sia codardo… No, non può averti lasciata davvero qui con me.»
Hijikata mi trascinò verso l’uscio della porta blindata: la visuale sulla destra era libera; sulla sinistra invece c’era la porta blindata non del tutto appiattita contro il muro che, pensavo, nascondesse malamente Jonathan. E quello fu lo stesso pensiero di Hijikata, che con una spallata l’avrebbe fatta sbattere contro il muro se non ci fosse stato il corpo esanime di una guardia accovacciato sul pavimento.
Il corridoio delle celle sotterranee era nel silenzio totale.
«‘Fanculo. Avrei dovuto ammazzare quell’essere la prima volta che ne ho avuto occasione.»
Hijikata mi strinse ancora più forte, probabilmente preoccupato all’idea che Jonathan potesse sbucare da un momento all’altro, prendermi e sottrargli così la possibilità di essere lui a reggere il gioco. Iniziammo a spostarci verso il lato ovest del corridoio; non ne facemmo molti poiché di punto in bianco le luci si spensero, tornando nuovamente ad essere inghiottiti dal buio.
Hijikata imprecò. Sentivo la sua paura divenire sempre più forte dopo ogni secondo che passava senza poter contare sulla vista, al contrario mio che – per quanto detestassi l’oscurità – in quel frangente mi sentivo al sicuro: chiunque in quell'ospedale sapeva che Jonathan si sentiva molto più a suo agio in assenza di luce; perché lui non temeva quello che non poteva vedere, ci conviveva pacificamente senza preoccupazioni. Ero come avvolta dalla sua presenza, e quando lo sentii davvero passarmi davanti sorrisi al nulla, cercandolo con lo sguardo.
Il generatore che aveva fatto saltare in qualche modo, tornò a funzionare nel giro di qualche minuto. Pensai che quello sarebbe stato il momento adatto per colpire Hijikata con una testata, ma lo psichiatra era ormai immune al dolore e mi bloccò contro il muro dopo aver subìto il colpo: questa volta mi ferì davvero con il coltello, poco più in basso della guancia sinistra, giusto per farmi capire che stavo giocando con il fuoco. Aveva fatto un bel taglio che tutt’ora, a distanza di tempo, è possibile intravedere pur essendosi rimarginato nel migliore dei modi.
«Stupida ragazzina, vuoi morire davvero?!»
«Ti conviene lasciarmi se non vuoi essere tu a fare una brutta fine.», dissi avendo tra i denti più sangue che saliva.
«Che ne dici di farti tagliare la lingua, Nebraska?»
Risi: «Mi aspettavo un trattamento più originale da qualcuno che era pronto ad uccidermi nemmeno dieci minuti fa.»
«Tu vuoi davvero farmi perdere la pazienza.»
«Io le ho solo dato un consiglio su cosa sarebbe meglio per lei, dottore. Jonathan non gliela farebbe passare liscia se – »
«Finché tu sei in pericolo di vita, lui non farà niente.»
«Fossi in lei non ne sarei così sicuro. Quel ragazzo è pazzo sul serio.»
Hijikata mi diede l’ennesimo pugno in pieno volto. Sentivo le ossa non reggere all’impatto, sgretolarsi sotto la forza impressa nell’atto di farmi stare zitta; eppure il dolore non mi tolse il coraggio di rispondergli con stampato in volto il sorriso di chi aveva appena vinto la guerra.
«Forza, uccidimi. Fammi fuori. Incastrami la testa nel muro, squartami il ventre, lasciami in un lago di sangue come hai fatto con Candice. Non è per questo che mi hai rinchiusa in quella cella e mi hai costretto la testa nel water? Adesso Jonathan non c’è, dovresti approfittarne… Conoscendolo bene, dubito resterà fermo e buono ancora per molto.»
La mia mascella fu arpionata dalla mano dello psichiatra, sempre con il coltello ben saldo tra le dita e pronto ad essere usato contro la mia gola.
«La vicinanza con quell’abominio ti ha mandata fuori di testa.»
«Quell’abominio di cui lei parla, però, è molto più intelligente di lei.»
Hijikata non si voltò, Hijikata non mosse alcun muscolo: Jonathan era fermo alle sue spalle con un sorriso sornione stampato sul volto; agitò in aria una pistola presa – forse – dalla guardia accasciata davanti alla cella, e dopo qualche istante la premette contro la nuca dello psichiatra.
«Adesso che ne dici di lasciare Herstal?»
«Se credi io – »
«Hijikata-san», lo interruppe tirando indietro il cane, «voglio solo ricordarti che una pistola è molto più veloce di un coltello da cucina. E non ti concederò molto altro tempo per decidere se uccidere Herstal e morire o lasciarla stare e, forse, cavartela solo con un proiettile da qualche parte.»
Gli occhi di Hijikata mutarono espressione, passando da sorpresi a persi nel vuoto come se potessero vedere il muro alle mie spalle. Abbassò lentamente il coltello e lo sguardo, si voltò verso Jonathan che continuava a tenergli la pistola puntata alla testa.
«Allontanati da lei.»
«Mi ucciderai lo stesso, non è così?»
«È quello che meriteresti.»
Hijikata fece qualche passo affinché io potessi spostarmi di fianco a Jonathan; non era di certo l'uomo migliore a cui fare affidamento, ma sapere che stava cercando di proteggermi mi rassicurava, per quanto fosse possibile in una situazione del genere.
«Non avresti mai dovuto accettare quei soldi, Hijikata. Meno che mai avresti dovuto tenere me in quest’ospedale per quattro interminabili anni e trattarmi come un giocattolo.»
Hijikata rise con fare sadico: «La vendetta ti sta divorando l'anima, Jonathan.»
«La vendetta è l'unico sentimento che mi ha permesso di sopravvivere a questo inferno.»
Forse avrei potuto insistere, chiedergli di non fare quello che, alla fine, tutti si aspettavano realmente da lui. Ma quando distolse appena lo sguardo da Hijikata per riflettere su cosa fare non nego di aver provato quel briciolo di rabbia necessario per dirgli che sparargli almeno un proiettile in corpo era la cosa che più desideravo in assoluto; l'urlo di Hijikata quando il colpo si conficcò nel ginocchio destro mi diede una scarica di adrenalina che non saprei spiegare in alcun modo.
Lo psichiatra iniziò a supplicarci, ma nessuna di quelle parole riuscì nemmeno per un istante a farmi cambiare idea: volevo morisse, volevo pagasse per tutto il male che aveva fatto a me, Jonathan e tutti gli altri prima di noi.
«Cosa aspetti ad ucciderlo?»
«Non posso farlo. Renderti mia complice è l’ultima cosa che ti serve.»
«Non prendermi in giro e spara! È quello che merita, devi farlo!»
Ma Jonathan non mi diede ascolto. Assestò qualche calcio alla testa di Hijikata per stordirlo e le sue pupille si immersero nelle mie; mi ammonì con lo sguardo e io mi voltai di spalle, con le mani tra i capelli: ero quasi diventata lo stesso mostro che per mesi avevo affermato di non essere.
«Herstal, calmati. Quello che hai detto e pensato è… normale. Ti spiegherei anche perché, ma non abbiamo tutto questo tempo a nostra disposizione. Dobbiamo andare via.»
Mi guardai intorno: eravamo nei sotterranei di un edificio che pullulava di guardie armate e inservienti che non ci avrebbero di certo fatto uscire solo chiedendolo; inoltre non avevo nemmeno mai pensato a come evadere da quel posto, dunque mi sentivo spaesata, completamente incapace di escogitare un piano, e Jonathan lo sapeva senza che ci fosse bisogno io esprimessi le mie incognite a voce.
«Conosco la planimetria dell'edificio a memoria, da queste parti ci dovrebbe essere uno sgabuzzino...» E iniziò a camminare a passo svelto verso la fine del corridoio, guardando in ogni cella in cerca di qualcosa. «Niente sgabuzzino. Non è proprio il massimo dell’affidabilità, ma dovrebbe andare bene...»
Uscì da una delle celle trascinando una sedia di legno in pessime condizioni, e la posizionò subito sotto la piccola finestra rettangolare in fondo al corridoio, che dava sull'asfalto interno al perimetro dell'ospedale.
«Jonathan, quella finestra ha le sbarre.»
«Che hanno quasi gli stessi anni dell’Universo.» E a dimostrazione di quel che diceva, bastò appena un po' della sua forza per trovarsi con la grata logorata dal tempo tra le mani. «Ottima serata per evadere: la visibilità è scarsa e piove a dirotto.»
«Fantastico, ci mancava solo il tempo a complicare le cose.»
Jonathan scese dalla sedia. «Probabilmente se usciremo vivi da questo posto è proprio grazie al temporale in corso. Hai il mio orologio con te?»
Annuii e lo tirai fuori dalla tasca, porgendoglielo: erano le otto passate, avevo praticamente trascorso l’intero pomeriggio in quel sotterraneo.
«Hai le idee chiare su come evadere da questo posto?»
«Il tuo semplice metterlo in dubbio mi offende.»
Scossi la testa al nulla: qualunque fosse la situazione, Jonathan doveva tentare sempre di risultare totalmente tranquillo e sereno. «Su, spiegami che vuoi fare.»
Come prevedibile, lui mi ignorò completamente. Era salito sulla sedia e si apprestava ad uscire con un’agilità che io di certo non avevo.
«Herstal, datti una mossa.»
«Cosa ti fa credere io ci possa riuscire?»
«Forza, dammi la mano. Ti aiuto io.»
Diedi un ultimo sguardo all’Hijikata agonizzante pochi metri più avanti: si muoveva appena, era a un passo dal perdere definitivamente i sensi, e tra un gemito e l’altro aveva a stento la forza di maledire noi due. In quell’istante, prima che Jonathan mi spronasse di nuovo a salire sulla sedia, sperai che quella fosse l’ultima volta che mi sarebbe capitato di vederlo.
Una volta superato l’ostacolo della finestra e uscita dal piano sotterraneo per prendere acqua e gelo causati dal temporale, Jonathan non perse tempo in chiacchiere e mi spiegò rapidamente cosa fare.
«Da quella parte», disse indicando in direzione nord-ovest, «c'è un punto in cui il muro esterno ha ceduto. È talmente isolato e nascosto dalle piante che nessuno se n'è ancora accorto; o se non altro, nessuno ha ritenuto necessario farlo sistemare.»
«Non è un piano d’evasione troppo… elementare
«A volte le cose più semplici sono anche le migliori. Andiamo.»
Ci spostammo furtivamente verso quel lato dell'ospedale, usando la pioggia e la scarsa visibilità a nostro favore: in una situazione simile avrei immaginato un Jonathan divertito, quasi elettrizzato all'idea di fare qualcosa di tanto estremo; invece mi stringeva saldamento il polso in una mano come se temesse di perdermi in qualche modo, e nell’altra stringeva la pistola lasciata senza sicura ancora carica.
«Non sai quante volte ho immaginato questa scena.», disse spostando qualche pianta dal muro costruito per delimitare la proprietà dell’ospedale, «Solo che nelle mie fantasie c'era Candie al tuo posto... Volevo dire anche Candie.»
Spostai lo sguardo da lui alla scenario che ci circondava: la pioggia aveva bagnato ogni cosa e la leggera nebbia che c’era rendeva davvero difficile vedere più di tanto, inoltre fino a quel momento non avevo visto alcuna ombra aggirarsi nell’area.
«Se fossimo evasi prima...»
«Lei non sarebbe venuta comunque. Per un anno intero ho tentato di convincerla a scappare con me e non mi appoggiava molto. Mi avrebbe aiutato ad evadere, di questo ne sono certo, ma non mi avrebbe seguito. Quell'ospedale è la cosa più simile a una casa che lei abbia mai avuto in vita sua.»
A quel punto, con le piante sradicate dal terreno, la falla nel muro era chiaramente visibile:
guardandoci attraverso, si potevano vedere gli alberi cresciuti intorno alla proprietà dell'ospedale e l'erba incolta che copriva tutta la zona.
Stavo già pregustando la sensazione della libertà mancata quando tutto d'un tratto si sentì uno sparo. Era stato lanciato in aria come avvertimento, per farci cambiare idea e risolvere il tutto con una strigliata di capelli; oppure con due cadaveri per mano di Hijikata. Ma eravamo così vicini all'esterno...
«Herstal, entra!»
Non me lo feci ripetere e corsi nella sua direzione per strisciare oltre il muro. Ma per quanto io fossi veloce, i proiettili lo erano sempre più di me.
Mi accasciai al suolo prima di riuscire ad accovacciarmi, chiamando il nome di Jonathan che
strisciò per soccorrermi. Il pezzo di metallo e polvere da sparo era finito nella coscia, in un punto non vitale ma che dava comunque un certo fastidio. Imprecai al cielo, strinsi i denti per non urlare. Un altro proiettile era l'ultima cosa che desideravo.
«Dannazione, Jonathan…»
«Lo so che fa male, ma non hai tempo per lamentarti del dolore. Ce l'abbiamo quasi fatta!»
Feci un profondo respiro prima di muovermi verso lo squarcio nel muro: non sapevo fino a che
punto aveva senso tentare di evadere con una ferita del genere, ma mi fidavo di Jonathan, e non mi avrebbe mai detto di continuare se non era certo ce l'avremmo fatta.
Strisciai dall’altro lato del muro e aspettai che Jonathan facesse lo stesso. Ma a un passo dallo sgusciare fuori, i suoi occhi si sgranarono e le dita si arpionarono al terreno: qualcuno l’aveva bloccato, lo stavano di nuovo trascinando dentro.
«Non pensare a me, corri in quella direzione!»
«Io non posso… Io non…»
«Vai! Fidati di me anche questa volta, Herstal!»
Mentre correvo decisi che non avrei dovuto pensare a come rimuovere il proiettile, né alle voci che urlavano oltre il muro sempre più distante né a Jonathan che era stato catturato. Concentrai la mia attenzione sul dolore lancinante della gamba e il sangue che defluiva dalla ferita, con l’unico obbiettivo di correre fino a quando ce l’avrei fatta o non sarebbe successo quel qualcosa per cui mi sarei dovuta fidare di Jonathan.
La vegetazione di quel posto era fitta, ma non impossibile da affrontare se le condizioni fisiche – e psicologiche – fossero state migliori: il dolore alla gamba aumentava proporzionalmente alla diminuzione dell'adrenalina in circolo nel sangue, ciononostante continuavo a correre, perché fermarsi per riflettere su cosa fosse meglio fare mi era in quel frangente impossibile. Non ero lucida, non riuscivo a pensare a quello che stavo facendo, il mio muovere un passo dopo l’altro era dovuto solo a un singolare rimasuglio di volontà, di desiderio di sopravvivere.
Ma ero debole, forse anche più di quanto riuscissi a comprendere da sola. Persi stabilità nelle gambe, crollai al suolo incapace di rimettermi in piedi. Ero stremata.
Il sangue macchiava l'erba incolta di quell’area, scivolava dalle mie ferite e si impregnava nel terreno. Non sapevo con esattezza dove fossi, le mie gambe avevano corso il più velocemente possibile senza riflettere su dove andare e in quel momento nemmeno mi importava: piangevo, raccolta in posizione fetale, su quel manto d'erba umido che era divenuto il mio letto. Non era un pianto disperato, ma una silenziosa preghiera di pace e assenza di dolore che mi mancava da tanto.
Cullata dalla pioggia e dal vento, iniziai a sentire il mio corpo rilassare i muscoli e il sonno impaziente di inghiottire i miei pensieri.
Chiusi gli occhi, lentamente.
Il vuoto mi aveva presa ancora una volta.



 




──Note dell'autore──
Come al solito, mi ritrovo ad essere troppo pigra per usare questo spazio in un modo che possa definirsi decente. Spero di non avervi deluso, e che in un modo o nell'altro io finisca la storia entro la fine di Dicembre. Mi sembra una cosa impossibile, ma finché non sarà il primo Gennaio ci spererò sempre.

Il banner è opera di Class of 13.

「Nitrogen」
   
 
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